Civile

Giurisdizione esclusiva da salvaguardare

di Massimo Basilavecchia

Sull’ipotesi di attribuzione della giurisdizione tributaria alla Corte dei conti, emersa in questi giorni per effetto di una esplicita – ma poi ridimensionata - autocandidatura proveniente dalla stessa Corte, sono state già espresse autorevoli considerazioni critiche, tra gli altri con le profonde perplessità – del tutto condivisibili – manifestate da Franco Gallo.

Non è, però, inutile aggiungere qualche altra considerazione, fondata su dubbi di sistema e su considerazioni di opportunità.

Prima di tutto, però, è da premettere che le critiche alla soluzione proposta dalla Corte dei conti non nascono da una volontà di conservazione dell’esistente; che vi sia un’esigenza impellente di riforma del giudice tributario, che consenta l’uscita dal limbo dell’impegno onorario e part time dei giudici e dal tutoraggio del ministero dell’Economia sull’organizzazione delle commissioni, è evidente a tutti, e lo dimostra il fermento di proposte migliorative che nella precedente e nell’attuale legislatura sono state depositate in Parlamento o elaborate da tavoli di studio (il prossimo 20 novembre, ad esempio, viene presentato il disegno di legge per la riforma del giudice tributario elaborato nel seno dell’Istituto per il governo societario).

Sotto tale profilo, i magistrati rivendicano un ruolo attivo nella giustizia tributaria che è già previsto dalle norme vigenti, che danno ampio accesso alle commissioni tributarie a tutti i giudici delle altre giurisdizioni; e che andrà adeguatamente considerato, nell’auspicabile prossima riforma delle commissioni tributarie, modulando una disciplina transitoria che non disperda nessun tipo di apporto professionale.

Proprio per tale fermento riformatore, teso a migliorare gradualmente l’esistente assegnando una stabilità e un’autonomia effettive e strutturali ai giudici tributari, conservando una pluralità di apporti culturali e però eliminando qualsiasi alibi a giustificazione di un lavoro spesso frettoloso e impreciso, l’alternativa proposta pare inopportuna, perché con la devoluzione alla Corte dei conti si perderebbero un patrimonio e una tradizione di competenze, frutto anche di una continua opera di formazione e di aggiornamento, cui sarebbe assurdo rinunciare per ricominciare da capo, affidandosi a un giudice che per schemi giuridici adottati e impostazione metodologica sarebbe obiettivamente in difficoltà nella gestione di un contenzioso di massa, dal rilevantissimo impatto sociale; un giudice abituato, istituzionalmente, a presidiare il bilancio pubblico e a giudicare della spesa, e dunque probabilmente il meno adatto in assoluto per decidere controversie nelle quali l’esigenza di bilancio non deve entrare.

Tralasciamo, poi, questioni tutt’altro che secondarie, organizzative (la Corte dei conti non ha, ad esempio, sezioni provinciali, e dunque si allontanerebbe il giudice dal cittadino), strutturali (due soli gradi di giudizio?), processuali (il rito andrebbe totalmente riscritto, o importato nella versione esistente, assai lontana dalle procedure ora adottate davanti alla Corte dei conti) o di limitazione del patrocinio (sarebbe pensabile, per una giurisdizione cui accedono selettivamente solo avvocati abilitati, conservare un patrocinio diffuso come quello che caratterizza da sempre la giurisdizione tributaria?).

Ma anche sotto il profilo sistematico la proposta non convince.

È vero che l’articolo 103, secondo comma della Costituzione consente al legislatore ordinario di attribuire competenze alla Corte dei conti, ma nel contempo lo stesso articolo, che al secondo comma individua tale plesso pur sempre come giudice delle materie di contabilità pubblica, nel comma precedente riserva la tutela del cittadino contro la pubblica amministrazione al Consiglio di Stato e alla giustizia amministrativa, separando nettamente le attribuzioni dei due grandi apparati delle giurisdizioni “speciali”.

Il conflitto tra contribuenti e fisco è riconducibile, secondo ricostruzioni teoriche ormai secolari, o al diritto soggettivo, o all’interesse legittimo. Nella prima prospettiva, il giudizio guarda soprattutto all’accertamento dell’esatto debito del contribuente; nella seconda, è valorizzato il profilo del sindacato sulla legittimità – non solo formale - degli atti impositivi.

Se si ragiona in termini di abbandono della giurisdizione tributaria, la prima prospettiva induce alla devoluzione al giudice ordinario, la seconda al giudice amministrativo. Questi sono i plessi giurisdizionali che si sono sempre contesi la tutela delle situazioni soggettive coinvolte dall’agire di pubbliche amministrazioni.

E infatti, la terza soluzione che si è profilata in questi giorni sembra incompatibile con l’articolo 113 della Costituzione, secondo il quale in materia di tutela contro gli atti dell’amministrazione pubblica l’alternativa consentita al legislatore prevede il possibile riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa (per tale dovendosi intendere, ex art. 103, primo comma, Consiglio di Stato e tribunali amministrativi).

La ragione della persistenza della giurisdizione esclusiva tributaria – della quale, semmai, è auspicabile un ingresso a pieno titolo nella sezione prima del titolo IV della Costituzione, quale giurisdizione competente per materia quale che sia la situazione soggettiva del contribuente – sta proprio in questo inevitabile sincretismo della giurisdizione tributaria; che, per essere effettiva e realmente in grado di porsi come soggetto terzo tra potere amministrativo e contribuente, è sinora riuscita, tra mille imperfezioni ma con un costante processo di evoluzione e di miglioramento, a proporsi come giudice dei profili patrimoniali dell’imposizione al contempo in grado di valutare i profili di legittimità dell’azione impositiva.

Merito anche della Corte di cassazione che, soprattutto dopo l’istituzione della sezione tributaria, si è fatta carico, pur essendo il vertice della giurisdizione sui diritti soggettivi, di produrre talora indirizzi nomofilattici adeguati anche sotto il profilo dell’esercizio dei poteri impositivi. E alla quale nemmeno si può rimproverare di essere rimasta insensibile o indifferente rispetto agli effetti delle proprie decisioni sulla finanza pubblica.

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