Scioglimento del comune per mafia, sì alla decadenza del sindaco rieletto
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 18559 depositata oggi. La Corte ha anche affermato (n. 18586 sempre di oggi) l’incandidabilità per i delitti colposi con pene superiori a 6 mesi commessi con abuso di poteri
Con due sentenze depositate oggi, la Cassazione stringe le maglie dell’elettorato passivo per gli amministratori dei comuni sciolti per mafia e per i condannati a una pena superiore a sei mesi per reati, anche colposi, commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri.
Con la prima decisione, sentenza n. 18559 depositata oggi, è stato respinto il ricorso dell’ex sindaco di Platì, in Calabria, contro la sentenza che aveva confermato la decadenza dichiarata dal prefetto a seguito della sua rielezione dopo lo scioglimento del consiglio comunale per condizionamento mafioso.
Al termine del periodo di gestione commissariale e mentre era ancora in corso il procedimento per la declaratoria di incandidabilità, il ricorrente infatti era stato rieletto sindaco. Nel corso del (nuovo) mandato, la Cassazione ne aveva dichiarato, in via definitiva, l’incandidabilità. A quel punto il Prefetto aveva promosso l’azione per farne dichiarare la decadenza. Il Tribunale, in primo grado, rigettò il ricorso. La Corte di appello, capovolgendo il verdetto, dichiarò l’incandidabilità del sindaco e, per l’effetto, la decadenza dalla carica.
Proposto ricorso, la Cassazione l’ha respinto. La Prima sezione civile infatti pur dichiarandosi “consapevole” di dover comporre distinti interessi costituzionalmente rilevanti: da una parte, il rispetto della rappresentanza politica ed il diritto di elettorato passivo, dall’altra, i principi di imparzialità e di buon andamento dell’attività amministrativa”, ha ritenuto “preferibile la soluzione interpretativa per cui il sindaco che sia stato rieletto nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento per infiltrazioni mafiose, perché non ancora definitivamente dichiarato incandidabile al momento delle votazioni, non può continuare a svolgere l’incarico una volta che sia stata accertata in sede civile, con efficacia di giudicato, la sua responsabilità nella causazione del pregresso commissariamento del consiglio comunale”.
Una diversa lettura, prosegue la Corte (in linea con l’orientamento della giurisprudenza per cui la incandidabilità non produce effetti per il passato), porterebbe ad effetti “irragionevoli”: la sopravvenuta sentenza di incandidabilità, infatti, “non potrebbe mai incidere sugli esiti favorevoli della votazione una volta che l’amministratore locale, la cui condotta era già sub iudice, sia stato rieletto”. Non può quindi essere condivisa l’interpretazione secondo la quale l’articolo 16, co, 2, del Dlgs n. 235 del 2012 (legge Severino) non troverebbe applicazione ai mandati in corso. In tal modo, infatti, se ne vanificherebbe la ratio, comportando la permanenza in carica di coloro che sono stati eletti dopo lo scioglimento dell’organo ma successivamente colpiti da sentenza definitiva di incandidabilità: “in altri termini, l’amministratore pubblico ritenuto responsabile di condotte pregiudizievoli resterebbe in carica continuando a svolgere il proprio mandato sebbene colpito da sentenza definitiva di incandidabilità, il che, evidentemente, non è accettabile”.
In questo senso, prosegue la Corte, l’articolo 16 Dlgs n. 235 del 2012 completa la disciplina dell’articolo 143, comma 11, TUEL nella misura in cui consente di ritenere che l’incandidabilità sopravvenuta, per l’amministratore responsabile dello scioglimento, comporta, oltre alla sua ineleggibilità per il turno o i due turni successivi allo scioglimento stesso, la decadenza dalla carica riassunta medio tempore, al pari delle incandidabilità “proprie”.
Né può parlarsi di eccesso di delega, ragion per cui è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 76 Cost., dell’articolo 16, comma 2, del Dlgs n. 235 del 2012, nella parte in cui ha esteso la disciplina della incandidabilità ad un’ipotesi di incandidabilità (quella, cioè, dell’articolo 143, comma 11, TUEL) non derivante da “sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica”.
Con la seconda sentenza, la n. 18586 depositata sempre oggi, la Prima sezione chiarisce che è legittima la decisione dell’Ufficio centrale elettorale che ha dichiarato ineleggibile, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lett. d), del Dlgs 31 dicembre 2012, n. 235 (cd. legge Severino), un candidato alla alla carica di consigliere comunale del comune di Sorrento, condannato in via definitiva per il delitto di omicidio stradale plurimo (589 cp), aggravato ai sensi dell’articolo 61, n. 9, cod. pen..
Per la Suprema corte “l’art. 10, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 235 del 2012 è privo di portata innovativa e rappresenta una norma, non irragionevole, di chiusura del sistema, in quanto volta a tutelare il buon andamento e la trasparenza dell’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di impedire che queste siano governate da chi sia stato definitivamente condannato alla pena ivi prevista per uno o più delitti, dolosi o colposi, purché aggravati dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, dovendo il disvalore di tali delitti, rilevante ai suddetti fini, essere individuato proprio nell’abuso di tali poteri o nella violazione di quei doveri”.