Penale

Caso Sea Watch 3: l'illegittimità dell'arresto in flagranza compiuto in presenza di "verosimile" rappresentazione

Alla luce delle recenti modifiche normative contenute nel decreto legge 130/2020 appare utile rileggere la nota vicenda Rackete

di Clara Trapuzzano Molinaro

Le recenti modifiche normative contenute nel decreto legge 130/2020, convertito con modificazioni, in legge 173/2020 in materia di sanzioni legate alla violazione del divieto ministeriale di ingresso e transito delle navi in acque territoriali italiane rappresentano una buona occasione per una rilettura della sentenza 20 febbraio 2020 n. 6626 della Corte di cassazione. La decisione in questione è collegata all’arresto del comandate della nave Sea Watch 3 Carola Rachete.

 In quella occasione i giudici della terza sezione penale della Suprema corte hanno affermato i seguenti principi:

 1.       il divieto di arresto in flagranza e di fermo di cui all’art. 385 c.p.p. opera in presenza della “verosimile rappresentazione” dell’adempimento di un dovere, dell’esercizio di una facoltà legittima ovvero della presenza di una causa di non punibilità, non essendo richiesto che tali circostanze “appaiano evidenti”. Pertanto, laddove una causa di giustificazione sia ragionevolmente/verosimilmente esistente sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, opera il divieto di cui all’art. 385 c.p.p. e l’atto di arresto eventualmente compiuto è illegittimo;

2.      il dovere di soccorso in mare, sancito dalla Convenzione SAR di Amburgo, il cui adempimento integra la scriminante di cui all’art. 51 c.p., non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare ma comporta anche l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. place of safety);

3.      non può essere qualificata come luogo sicuro una nave in mare che si trova in balia degli eventi metereologici avversi e non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Il dovere di soccorso non può considerarsi adempiuto con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza sulla stessa, dal momento che le persone soccorse hanno il diritto di inoltrare la domanda di protezione internazionale secondo Convenzione di Ginevra del 1951 e tale operazione non può essere realizzata su una nave.

Ma andiamo con ordine nella ricostruzione della questione, partendo dal caso.

 

Il caso
Il 29 giugno 2019
, Carola Rackete, comandante della motonave Sea Watch 3, nonostante l’intimazione del divieto di accesso proveniente dalle autorità italiane, entrava nel porto di Lampedusa e, dirigendosi verso la banchina del molo occupato da una vedetta della Guardia di Finanza, urtava contro di essa comprimendola tra la propria imbarcazione e la predetta banchina.

 

Conseguentemente, la comandante Rackete veniva arrestata in flagranza per aver commesso i reati di resistenza o violenza contro nave da guerra ex art. 1100 cod. nav. e resistenza a un pubblico ufficiale ex art. 337 c.p.

Il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, con un unico provvedimento, non convalidava l’arresto eseguito dalla Guardia di Finanza e rigettava la richiesta di applicazione di misura cautelare personale avanzata dal Pubblico Ministero, ritenendo insussistente il reato di cui all’art. 1100 cod. nav. e scriminata la fattispecie criminosa di cui all’art. 337 c.p., operando nel caso di specie la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere.

Il provvedimento veniva impugnato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento.

Come osservato nell’ordinanza del Gip, la cui impugnazione ha dato luogo alla pronuncia in commento, la corretta comprensione della vicenda richiede una, sia pur sommaria, ricostruzione degli eventi che hanno interessato la Sea Watch 3 nei giorni precedenti alla commissione dei fatti contestati.

In data 12 giugno 2019, la predetta imbarcazione, battente bandiera olandese, effettuava il soccorso di 53 persone nella zona SAR libica, a 47 miglia nautiche di distanza dalle coste della Libia, e richiedeva alle autorità italiane, maltesi, olandesi e libiche l’indicazione di un POS (“place of safety”).

Ricevuta una risposta dalle autorità libiche, riferiva che la Libia non poteva essere considerata un porto sicuro e procedeva a domandare un POS alternativo o il trasbordo su un’altra unità.

Il giorno successivo, le autorità italiane entravano in contatto con la Sea Watch 3 e, declinata la propria competenza in ragione del luogo del soccorso, le intimavano l’obbligo di rivolgersi all’autorità SAR territorialmente competente ed il divieto di entrare in acque italiane.

Il 14 giugno 2019, la Sea Watch 3 reiterava la richiesta di indicare un POS alle autorità di Malta e Italia, paesi le cui coste erano, sin dal principio, i luoghi qualificabili come place of safety geograficamente più vicini al punto in cui era avvenuto il salvataggio.

Lo stesso giorno, veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 53/2019 che modificava il Dlgs n. 286/1998 (T.U. in materia di immigrazione) inasprendo le sanzioni per alcune fattispecie criminose connesse all’immigrazione clandestina ed il successivo 15 giugno 2019, in attuazione delle nuove disposizioni, il Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro della Difesa e con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, adottava un provvedimento interministeriale con il quale veniva posto il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nel mare territoriale nazionale.

Nei giorni successivi, la Sea Watch 3, mantenendosi al limite delle acque territoriali italiane, chiedeva nuovamente l’assegnazione di un POS in Italia, denunciando la grave situazione medico sanitaria dei naufraghi, alcuni dei quali venivano evacuati in ragione della necessità di cure mediche (alla data del 22 giugno le persone evacuate erano 11).

In data 26 giugno 2019, l’imbarcazione iniziava a dirigersi verso le acque territoriali italiane, provocando la reazione delle autorità, che incaricavano la Vedetta della GDF omissis e la motovedetta omissis di intimare l’alt alla motonave e di invitarla ad allontanarsi.

Disattendendo tali intimazioni, la Sea Watch 3 continuava a procedere verso Lampedusa, invocando lo stato di necessità.

Quando l’imbarcazione era giunta a poche miglia dal porto dell’isola, i militari della Vedetta della GDF omissis e della motovedetta omissis salivano a bordo della nave per effettuare un controllo dei documenti, richiedere l’elenco dell’equipaggio ed acquisire informazione sui migranti, due dei quali venivano evacuati.

In data 28 giugno, il Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento apriva un fascicolo a carico del comandante Carola Rackete in relazione ai reati di cui agli artt. 12, commi 1 e 3, lett. a), T.U.I. e 1099 cod. nav. ed adottava nei confronti di quest’ultima un invito a presentarsi ex art. 375 c.p.p., un decreto di perquisizione locale e personale della nave e delle persone a bordo della stessa.

Terminate le operazioni di polizia giudiziaria, alle ore 01.15 del 29 giugno 2019, il comandante si dirigeva verso il porto di Lampedusa.

Qualche minuto dopo, la vedetta della GDF omissis si muoveva verso la banchina commerciale in modo da frapporsi tra tale area e l’imbarcazione in entrata, al fine di impedirne l’attracco.

Alle ore 01.45, la Sea Watch 3, procedendo verso il punto di ormeggio della banchina commerciale, urtava la suddetta vedetta della GDF, stringendola tra sé e la banchina.

Nella complessa situazione appena descritta, la Guardia di Finanza di Lampedusa procedeva all’arresto in flagranza del comandante Carola Rackete in relazione ai reati di cui agli artt. 1100 cod. nav. e 337 c.p.

 

Le questioni giuridiche

La pronuncia della Suprema Corte affronta due questioni giuridiche, corrispondenti al primo e al secondo motivo di impugnazione dell’ordinanza emessa dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, concludendo per il rigetto del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il medesimo Tribunale.

Il sindacato del Giudice delle indagini preliminari in sede di convalida dell’arresto in flagranza. L’illegittimità dell’arresto in flagranza eseguito in presenza di verosimile rappresentazione di una causa di giustificazione

La prima questione giuridica ha ad oggetto i poteri spettanti al Giudice delle indagini preliminari in sede di convalida e riguarda, in particolare, il sindacato dallo stesso esercitabile sull’arresto in flagranza eseguito dalla polizia giudiziaria.

La necessità di affrontale la tematica è sorta alla luce delle contestazioni avanzate dal Pubblico Ministero, il quale con il primo motivo di ricorso ha dedotto la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., l’erronea applicazione dell’art. 391, comma 4, c.p.p. e l’illogicità/contraddittorietà della motivazione relativa all’illegittimità dell’arresto.

Tali doglianze traggono origine dalla considerazione che il Giudice delle indagini preliminari, in sede di convalida dell’arresto, avrebbe travalicato i limiti del proprio sindacato, effettuando un penetrante giudizio sull’insussistenza della gravità indiziaria.

In particolare, il Pubblico Ministero ha sostenuto che la configurabilità della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., prospettata nell’ordinanza impugnata, avrebbe costituito l’esito di un giudizio sostanziale inibito al giudice della convalida, risultando in tale fase precluso ogni apprezzamento relativo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ovvero alla responsabilità penale.

A sostegno di tale assunto, viene osservato che il complesso percorso argomentativo che avrebbe condotto il Gip a ritenere sussistenti gli estremi dell’adempimento del dovere di soccorso in mare sarebbe incompatibile con il concetto di “apparenza” previsto dall’art. 385 c.p.p., disposizione che pone un divieto di arresto o fermo in determinate circostanze.

In altri termini, il Pubblico Ministero ha dedotto che la lettera dell’art. 385 c.p.p. (“L’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità”) escluderebbe implicitamente che si possa giungere alla non convalida dell’arresto sulla base di ragionamenti articolati come quelli compiuti dal Gip, come è desumibile dalla complessità del quadro giuridico illustrato nell’ordinanza impugnata nonché dal numero di pagine impiegate per dimostrare la sussistenza della predetta causa di giustificazione nel caso di specie. 

La Corte ha affrontato la questione soffermandosi innanzitutto sul contenuto dell’art. 13 Cost. ed ha fornito importanti chiarimenti sul sindacato esercitabile dal Gip in sede di convalida, proponendo un’interessante interpretazione dell’art. 385 c.p.p.

L’esame della questione giuridica in oggetto, pertanto, deve necessariamente iniziare da un’attenta lettura dell’art. 13 Cost., il quale, dopo aver sancito l’inviolabilità della libertà personale (“La libertà personale è inviolabile”, art. 13, comma 1, Cost.) ed aver precisato i limiti entro i quali la stessa può essere sottoposta a limitazioni (“Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” art. 13, comma 1, Cost.), detta una disciplina specifica per le ipotesi in cui “In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori” (art. 13, comma 3, Cost.).

Come precisato dalla stessa norma, questi provvedimenti hanno natura provvisoria, “devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto” (art. 13, comma 3, Cost.).

Tali misure, previste a livello costituzionale, sono dettagliatamente regolate dagli artt. 379 e ss. c.p.p, i quali, nel dare attuazione all’art. 13 Cost., disciplinano l’arresto in flagranza ed il fermo.

L’arresto in flagranza ed il fermo sono, pertanto, provvedimenti limitativi della libertà personale, adottabili dall’autorità di pubblica sicurezza in casi eccezionali di necessità ed urgenza oggetto di previsione legislativa.

Tali istituti sono generalmente definiti quali misure precautelari, in quanto aventi natura strumentale ed anticipatoria rispetto alla tutela apprestata mediante le misure cautelari, nonché presupposti applicativi autonomi rispetto a queste ultime.

Si caratterizzano per avere natura necessariamente temporanea, in quanto l’operato della polizia giudiziaria, che incida – limitandola – sulla libertà personale, è sottoposto in tempi strettissimi al controllo del Giudice, che è l’unico organo titolato a limitare tale bene attraverso l’adozione di un provvedimento motivato.

In particolare, come precisato dalla Corte nella sentenza in commento, “il meccanismo della convalida nel processo penale discende proprio dalla previsione, di rango costituzionale, per cui un organo <incompetente> è autorizzato, sussistendone determinate condizioni, a sostituirsi a un organo <competente> e, quindi, ad emettere, a titolo provvisorio, un atto rientrante, di regola, nelle attribuzioni dell’autorità legittimata, in via ordinaria, all’intervento diretto ad intaccare la sfera di libertà del singolo. Ne consegue che la convalida, quando interviene, non incide sugli effetti dell’atto provvisorio convalidato e, quindi, non comporta il consolidamento dei quegli effetti, risolvendosi solo in un controllo diretto a stabilire se l’intervento dell’organo “incompentente” sia stato bene o male interpretato”.

Compiute tali premesse, appare più agevole comprendere l’iter logico argomentativo condotto dalla Corte, nonché le considerazioni dalla stessa compiute in merito ai poteri esercitabili dal Giudice delle indagini preliminari in sede di convalida.

Il Collegio ha osservato che, conformemente a quanto sostenuto dal Pubblico Ministero nel ricorso proposto, il giudice della convalida deve verificare che l’arresto sia stato eseguito in presenza dei presupposti previsti dalla legge, che la polizia giudiziaria – alla quale è riconosciuta una sfera di discrezionalità nell’apprezzamento di tali presupposti – abbia fatto un uso ragionevole dei poteri alla stessa attribuiti e che i termini di legge siano stati osservati.

Ciò risulta del tutto coerente con la lettera dell’art. 391, comma 4, c.p.p., a mente del quale “Quando risulta che l’arresto o il fermo è stato legittimamente eseguito e sono stati osservati i termini previsti dagli articoli 386, comma 3, e 390, comma 1, il giudice provvede alla convalida con ordinanza”.

Il Gip, pertanto, in tale fase deve effettuare un controllo di legittimità e di ragionevolezza, con la precisazione che le valutazioni allo stesso spettanti devono essere compiute “in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari, valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive, né l’apprezzamento sulla responsabilità, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito”.

Le valutazioni circa la gravità indiziaria, in particolare, sono proprie del procedimento cautelare ossia della fase successiva alla convalida, nell’ambito della quale – indipendentemente dalla convalida dell’operato della polizia giudiziaria o del pubblico ministero – il Gip, su richiesta del Pubblico Ministero, si pronuncia sull’adozione di una misura cautelare alla luce dei presupposti della gravità indiziaria e delle esigenze cautelari.

La convalida, invece, “guarda al passato” e, come più volte ribadito dalla Suprema Corte, in tale ambito “il giudice è tenuto soltanto a valutare la sussistenza degli elementi che hanno legittimato l’adozione della misura con una verifica <ex ante>, dovendo tenere conto della situazione conosciuta dalla polizia giudiziaria ovvero da quest’ultima conoscibile con l’ordinaria diligenza al momento dell’arresto o del fermo, e con l’esclusione delle indagini o delle informazioni acquisite successivamente, ad esclusione delle dichiarazioni dell’arrestato che sono invece pienamente utilizzabili per l’ulteriore pronuncia sullo status libertatis” (nella pronuncia in commento vengono richiamati i seguenti precedenti: Cass., Sez. III, n. 37861/2014; Cass., Sez. III, n. 2454/2007; Cass., Sez. III, n. 15137/2019)

Pertanto, il Giudice dovrà esercitare il proprio sindacato tenendo conto della situazione in cui si trovava il soggetto che ha adottato il provvedimento precautelare nonché degli elementi in quel momento dallo stesso conosciuti o conoscibili; dovrà, quindi, verificare se la valutazione di procedere all’arresto è rimasta nei limiti della discrezionalità della polizia giudiziaria, operando un “controllo di ragionevolezza”.

Soffermandosi sul “controllo di ragionevolezza”, inoltre, la Corte ha osservato che lo stesso deve avere come parametro l’art. 13 Cost. e deve essere realizzato “sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individui”.

Applicando i principi enunciati al caso sottoposto alla propria attenzione, il Collegio ha affermato che “nel caso concreto, il giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 c.p.p.) alla luce dei principi di rango costituzionale”.

In quest’ottica, l’analitica narrazione dei fatti e la complessa ricostruzione della normativa nazionale e sovranazionale hanno consentito di contestualizzare un accadimento del tutto peculiare e di individuare la fonte del dovere di soccorso gravante in capo al capitano della Sea Watch 3.

In particolare, nella sentenza in commento è stato rilevato che la ricostruzione della vicenda processuale contenuta nel provvedimento impugnato ha svolto la funzione di “inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto” e che la necessità di comprendere la situazione nella quale è stato effettuato l’arresto ha imposto una “valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti”.

La valutazione globale delle circostanze dei fatti, pertanto, si è resa necessaria al fine di consentire al Giudice di tenere conto della situazione conosciuta o conoscibile dalla polizia giudiziaria al momento dell’arresto, nonché di individuare gli elementi che nel caso di specie hanno fatto sorgere in capo a Carola Rackete il dovere di soccorso.

In merito alla natura articolata della motivazione dell’ordinanza impugnata, il Collegio ha precisato che la stessa non è che il riflesso della complessità della vicenda fattuale e della delicatezza del bene giuridico compresso (la libertà individuale), osservando che “non è certo la presenza di una articolata motivazione del provvedimento ad escludere di per sé che l’esimente <appaia> sussistente”.

La valutazione circa la “apparenza” di una scriminante nel caso di specie ha reso necessaria, inoltre, un’analisi della portata dell’art. 385 c.p.p., nell’ambito della quale la Corte ha offerto un’interpretazione innovativa della suddetta disposizione.

A tal proposito, si rende opportuno osservare che l’art. 385 c.p.p. viene generalmente interpretato nel senso che l’arresto o il fermo siano vietati laddove, tenendo conto delle circostanze del caso concreto, “risulta evidente” (cfr. ex multis Cass., Sez. III, n. 35962/2010) ovvero “si manifesti chiaramente” (cfr. ex multil Cass., Sez. VI, n. 7470/2017) che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere, nell’esercizio di una facoltà legittima o in presenza di una causa di non punibilità.

In altri termini, al verbo “apparire”, rinvenibile nella lettera della norma (“appare che”), è attribuito il significato di “essere evidente”.

Nella sentenza in commento, la Corte, ribadendo la necessità di adottare una lettura costituzionalmente orientata delle norme di rango primario, ha interpretato l’art. 385 c.p.p. nel senso che tale norma ponga un divieto di l’arresto o di fermo laddove una causa di giustificazione sia “ragionevolmente/verosimilmente esistente sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza”.

Tale soluzione ermeneutica viene avanzata in quando “si impone…tenuto conto del rango costituzionale dei beni in gioco” e risulta “l’unica percorribile” alla luce di un confronto con il dettato dell’art. 273 c.p.p.

Con riferimento a tale ultimo aspetto, è stato osservato che l’art. 273 c.p.p., in materia di condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari, prevede al comma 2 che tali provvedimenti non possano essere adottati laddove “risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione”, facendo sorgere in capo al Gip il dovere di valutare se il fatto sia stato compiuto in presenza di una scriminante “con elevato o rilevante grado di probabilità” (nella pronuncia in commento vengono richiamati i seguenti precedenti: Cass, Sez. I pen., n. 72/2010; Cass., Sez. I pen, n. 6630/2010) e non in termini di certezza.

Secondo l’iter condotto dalla Corte, da tali premesse discende che se il Gip in fase di adozione di una misura cautelare deve valutare nei termini appena illustrati la sussistenza di una causa di giustificazione, “non può ritenersi che la polizia giudiziaria, nell’effettuare un arresto in flagranza, abbia più ampi poteri rispetto all’autorità giudiziaria che è competente in via generale alla restrizione della libertà personale”.

Conseguentemente, è stato statuito che “In presenza di verosimile rappresentazione di una causa di giustificazione, opera quindi il divieto di cui all’art. 385 c.p.p. e l’atto di arresto eventualmente compiuto non è legittimo”.

Alla luce di tale interpretazione dell’art. 385 c.p.p., la Corte ha, pertanto, concluso nel senso che “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto che non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 c.p.p., è corretta”.

In altri termini, essendo verosimile nel caso di specie l’esistenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, si deve “escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete”, anche sulla base della considerazione che le fonti internazionali, di natura pattizia e consuetudinaria, del dovere di soccorso sono ben conosciute non solo da chi realizza le operazioni di salvataggio in mare, ma anche da chi svolge in mare attività di polizia marittima.

La suddetta causa di giustificazione, pertanto, oltre ad essere concretamente configurabile nel caso di specie, era anche percepibile da parte della polizia giudiziaria al momento dell’arresto.

Soffermandosi sul fondamento e sulla portata del dovere di soccorso in mare, inoltre, la Corte ha osservato che dalla Convenzione SAR di Amburgo (del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147/1989, alla quale è stata data attuazione con il d.P.R. n. 662/1994) e dalle Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, allegate alla medesima Convenzione, emerge che l’obbligo di soccorso in mare si concretizza non solo nella sottrazione dei naufraghi dal pericolo di perdersi in mare, ma anche nel conseguente sbarco degli stessi in un luogo sicuro (c.d. place of safety), identificabile in una località in cui possano essere soddisfatte le necessità umane primarie, non siano più minacciate la sicurezza e la vita dei sopravvissuti e possa essere organizzato il loro trasporto in una destinazione vicina o finale.

A ciò si aggiunge che, per espressa previsione delle suddette Linee Guida, una nave che presta assistenza può esse considerata un luogo sicuro solo temporaneamente, fino a quando non risultano prospettabili soluzioni alternative.

La Corte ha, pertanto, affermato che “Non può quindi essere qualificato <luogo sicuro>, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave”.

Tale statuizione, insieme all’innovativa lettura dell’art. 385 c.p.p., consentono di riconoscere alla sentenza in commento una portata centrale nel panorama giurisprudenziale attuale.

In particolare, l’interpretazione dell’art. 385 c.p.p., frutto di un’operazione ermeneutica che tiene conto sia dei principi costituzionali che della necessità di adottare una lettura sistematica delle disposizioni dell’ordinamento, ha consentito alla Corte di ribadire l’esigenza di procedere ad una lettura costituzionalmente orientata delle norme di rango primario.

Anche alla luce della lettura dell’art. 273 c.p.p., richiamato dal Collegio, la soluzione adottata, imponendo un approccio maggiormente garantista, risulta effettivamente conforme alla necessità di tutelare il bene della libertà personale e di non giungere al paradosso che alla polizia giudiziaria sia riconosciuto un potere più ampio rispetto a quello spettante al Giudice, organo istituzionalmente titolato a disporre con atto motivato la restrizione della libertà personale.

Inoltre, la pronuncia in commento assume particolare rilevanza anche in ragione della statuizione avente ad oggetto la portata del dovere di soccorso in mare.

Traendo spunto dalle circostanze del caso concreto, infatti, la Corte ha offerto dei preziosi chiarimenti sul significato da attribuire ai doveri nascenti da fonti di rango interazionale, precisando i contorni della nozione di place of safety ed il contenuto degli obblighi derivanti in capo al capitano di un’imbarcazione in seguito alla realizzazione di operazioni di salvataggio.

La nozione di “nave da guerra” integrante l’elemento costitutivo del reato di cui all’art. 1100 cod. nav.

La seconda questione giuridica affrontata dalla Corte ha avuto ad oggetto la qualificazione della motovedetta omissis della Guardia di Finanza quale “nave da guerra”.

Secondo la prospettazione del Pubblico Ministero, il Gip avrebbe erroneamente escluso la natura di nave da guerra della predetta imbarcazione, facendo da ciò discendere l’insussistenza del reato di cui all’art. 1100 cov. nav.

Pertanto, con il secondo motivo di ricorso, sono state dedotte la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., l’erronea applicazione dell’art. 1100 cod. nav. e la mancanza nonché la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla qualifica di nave da guerra.

Ricostruendo la normativa rilevante in materia, la Corte ha considerato infondato tale motivo di doglianza, rilevando che nel caso in esame non era stato dimostrato che la predetta motovedetta fosse in possesso dei requisiti previsti dalla legge ai fini del riconoscimento della qualifica di nave da guerra.

Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 239 del Codice dell’ordinamento militare, è definibile come tale “una nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare”.

Compiute tali premesse, il Collegio ha rilevato che la motovedetta omissis della Guardia di Finanza apparteneva alle Forze Armate (essendo la Guardia di Finanza un “Corpo di polizia ad ordinamento militare”), portava i segni distintivi esteriori delle navi militari italiane e imbarcava un equipaggio sottoposto alle regole della disciplina militare. Tuttavia, nel caso in esame non era stato dimostrato che al comando dell’imbarcazione ci fosse un Ufficiale di Marina al servizio dello Stato ed iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente.

Inoltre, soffermandosi sui precedenti richiamati nel ricorso e nel provvedimento impugnato, la Corte ha osservato che tali pronunce sono antecedenti all’entrata in vigore del codice dell’Ordinamento militare, approvato con d.lgs. n. 66/2010, che fornisce una definizione di nave militare e di nave da guerra dalla quale non si può prescindere.

Ad ogni modo, la Corte ha precisato che, anche laddove alla motovedetta della Guardia di Finanza fosse stata riconosciuta la qualificazione di nave da guerra e fosse stato conseguentemente integrato il reato di cui all’art. 1100 cod. nav., la ricorrenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso in mare avrebbe operato anche con riferimento a tale fattispecie criminosa.

 

 

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