Il CommentoCivile

I primi 50 anni della legge sul divorzio

All'epoca dell'entrata in vigore del codice civile, Alfredo Rocco affermava che "Il matrimonio non è un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma è un atto di dedizione e sacrificio degli individui nell'interesse della società di cui la famiglia è nucleo fondamentale".

di Valeria Cianciolo*


1. All'epoca dell'entrata in vigore del codice civile, Alfredo Rocco affermava che "Il matrimonio non è un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma è un atto di dedizione e sacrificio degli individui nell'interesse della società di cui la famiglia è nucleo fondamentale".

In quel quadro storico, il valore fondamentale era rappresentato dalla salvaguardia dell'unità della famiglia, "strumentalizzata agli obiettivi politici dello Stato".

E' noto che l'Assemblea Costituente rifiutò espressamente la costituzionalizzazione del principio di indissolubilità del matrimonio. La questione era stata posta nella seduta del 7 novembre 1946 della prima sottocommissione, incaricata di redigere il futuro art. 29 Cost., dall'on. La Pira, che aveva proposto il seguente testo normativo: «La legge regola la condizione giuridica dei coniugi allo scopo di garantire l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia».

Altri tempi dove imperava una mentalità retriva e provinciale che guardava la vita scorrere dietro le persiane di case e sussurrava incredula allo scandalo ai concubini che osavano rompere le regole in nome della libertà.

Chi non ricorda il bellissimo film di Pietro Germi "Divorzio all'italiana"?
Il barone di Cefalù, per gli amici Fefè, capelli impomatati di brillantina, il bocchino e il tic della bocca, interpretato magistralmente da un Marcello Mastroianni candidato all'Oscar, è devastato dal desiderio per la cugina, irraggiungibile a causa della presenza incombente della moglie Rosalia con la quale è sposato da quindici anni e che non sopporta più, tanto da sentirne quasi repulsione fisica e dunque, architetta l'uxoricidio con la scusa del delitto d'onore.

Il tema centrale era proprio quello dei delitti d'onore (in quegli anni erano circa più di mille all'anno). Alfredo Giannetti, che insieme a Ennio De Concini e allo stesso Germi ne scrisse il soggetto, ebbe l'idea di trasformare il tutto in una commedia dai contorni grotteschi e neri, muovendo così un forte atto d'accusa verso l'art. 587, figlio di un codice penale antico e fuori tempo e per la cui abrogazione si dovrà attendere il 1981. Era una norma arcaica, tipica di una società retriva e maschilista che proponeva pene attenuate per l'uomo che uccideva in flagrante adulterio la moglie o l'amante o entrambi, colpevoli di aver "disonorato" la famiglia e l'uomo stesso, legittimo consorte e tutore dell'onore. In fondo, un testo di legge che autorizza il delitto d'onore con una pena simbolica, non può che prestarsi all'irrisione.
Ma il film derideva quell' anacronistico retaggio della concezione pubblicistica del diritto di famiglia che rappresentava un inammissibile limite alla libertà imposto ai coniugi.

E se vogliamo capire come si sono evoluti i costumi sessuali degli italiani, basta scorrere una Rivista come Foro Italiano, testimone crudele di una mentalità retriva e provinciale e la sentenza della Cassazione dell'11 luglio 1973 n. 2007 si occupa di un caso degno di un soggetto caricaturale di un film di Pietro Germi.

La notte di nozze, il marito, constatata la pregressa deflorazione della moglie, (non ad opera sua), si recava (trascinandoci pure la moglie s'intende) presso il più vicino posto di Polizia ed esponendo l'accaduto al sottufficiale di servizio, veniva informato che il fatto non era penalmente perseguibile.

A questo punto conduceva la consorte nell'abitazione di una zia, dove, sempre alla presenza della svergognata moglie, di una cugina e del marito di quest'ultima riferiva quanto gli era capitato, provocando l'ammissione della moglie.

Iniziato il processo per separazione per colpa, le Corti precedenti respingevano la domanda di separazione per colpa della moglie così che il marito si rivolgeva alla Corte Suprema, rilevando che, la donna era riuscita a contrarre matrimonio mediante un inganno e cioè celando la perdita del proprio stato verginale.

Secondo il ricorrente, i giudici di merito avrebbero errato nel non aver identificato in detto celamento, un fatto ingiurioso in danno di colui che aveva ragione di confidare nell'integrità fisica e morale della giovane, alla quale stava per unirsi in matrimonio.

La Cassazione accoglieva il ricorso statuendo che la Corte Suprema in casi analoghi, aveva sempre affermato che "il celamento del difetto di verginità da parte della sposa, costituisce normalmente un'ingiuria grave nei confronti del marito."

Questo accadeva in Italia perché questa era l'Italia. Questo ci raccontano i repertori giurisprudenziali.

Sembrano trascorse ere geologiche, se si pensa che oggi includiamo nel concetto di famiglia non solo la famiglia legittima fondata sul matrimoni, ma anche quella ricomposta da vedovi e da persone reduci da un divorzio, quella dell'unione tra persone, anche dello stesso sesso, che abbiano già vissuto un'esperienza familiare fondata sulla convivenza, o che, pur non avendo mai formato una coppia unita, abbiano generato un figlio con una persona diversa dal nuovo partner o, ancora, ricorrendo come singoli alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Il boom economico e la rottura del '68, col protagonismo dei movimenti collettivi e giovanili di protesta che riusciranno a condizionare il sistema politico e istituzionale, hanno contribuito non poco ad arrivare alla Legge sul Divorzio e alla famiglia "liquida" del XXI secolo.

2. La storia della Legge Fortuna Baslini parte nel 1965. Il nostro paese era l'unico Paese del MEC in cui lo scioglimento del matrimonio per cause diverse dalla morte del coniuge non era contemplato, sebben poi lo Stato del Vaticano, oltre ai diversi casi di annullamento del matrimonio, ammettesse il "divorzio" in ben due casi: il matrimonio rato e non consumato e per il privilegio paolino accordato quando, fra due persone non battezzate, una, convertitasi alla fede cattolica, manifesti esplicita volontà di contrarre nuove nozze con persona di fede cattolica.

"Non è vero che in Italia il matrimonio è indissolubile- sbottava Calamandrei- il divorzio c'è, ma si è trovato il modo di far servire la nullità a scopo di divorzio". Sagge parole da cui trapelava attraverso il diritto tutta l'ipocrisia della società della quale il primo non è che il riflesso.

La Legge Fortuna partita nel 1965, ottiene alla Camera, nella prima votazione del novembre 1969 a scrutinio segreto, 325 voti favorevoli e 283 contrari. Nel segreto della camera caritatis si dice sempre la verità…La discussione passa al Senato che vota il 9 ottobre 1970 un testo emendato con l'obbligo del tentativo di conciliazione e l'innalzamento da cinque a sette anni del periodo di separazione approvandolo con 164 voti favorevoli e 150 contrari. Il testo emendato ritorna alla Camera che, nella seduta più lunga del parlamento – dal 24 novembre al 1 dicembre 1970 – approva in via definitiva la legge Fortuna-Baslini (319 sì e 286 no) a cinque anni dalla sua prima proposizione e dopo un iter parlamentare lungo, difficile e conflittuale.


Si mette in moto contro il divorzio la macchina per il referendum abrogativo subito dopo l'approvazione della Legge Fortuna- Baslini: il quotidiano della CEI e della Curia milanese "Avvenire" pubblica il 2 dicembre 1970 un appello per indire il referendum che deve spazzare via la legge sul divorzio. Lo firmano 25 personalità della cultura e della scienza, fra cui Antonio Ciampi, Augusto Del Noce, Giorgio La Pira, Alberto Trabucchi. Viene fondato celermente un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio (CNRD) presieduto dal giurista cattolico Gabrio Lombardi e da Lina Merlin, come vicepresidente. L'obiettivo immediato è la raccolta delle 500.00 firme necessarie alla promozione del referendum abrogativo sul divorzio.

Anche lo stesso Partito Comunista era diviso e Togliatti voleva scongiurare il pericolo del referendum.

La notte del 12 maggio 1974 il 59,26 per cento degli elettori dice no alla proposta di abrogare la Legge in vigore dal 3 dicembre 1970 che regola "i casi di scioglimento" del matrimonio, ribattezzata la Legge sul Divorzio. Fu una vittoria strepitosa, incredibile che rivelò un'Italia divisa (con il NO in vantaggio al Nord, ad eccezione del Veneto e alle isole, Sicilia e Sardegna, e il SI vincente al Sud) tanto quanto lo fu il referendum fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1945.

L'intervento del legislatore con la Legge 1 dicembre 1970 n. 898 era strutturalmente e funzionalmente da ascrivere al mutamento profondo attraversato dalla società e dai costumi di quegli anni. Gli strascichi del '68, la rivoluzione sessuale in mezzo gli anni di piombo davanti.

3. La riforma del 1970 ha segnato una svolta ed ha presentato negli anni una casistica giurisprudenziale dominata da passioni e drammi nell'affrontare i conflitti familiari da cui emergono interessi di fatto, diritti, doveri fino ad associare matrimonio e contratto e confondendo l'obbligo familiare con l'obbligazione contrattuale. Gli obblighi matrimoniali possono essere violati sia con una condotta attiva, che omissiva. Anzi, per alcuni di essi, la forma omissiva è quella maggiormente tipica o frequente.

Il dovere di assistenza morale e materiale, ad esempio, può risultare violato in caso di disinteresse ed assenteismo e, quindi, in assenza di qualunque comportamento attivo. Analogamente può avvenire per il dovere di collaborazione nell'interesse della famiglia.
Talora, per integrare la violazione, azioni ed omissioni possono intrecciarsi e sommarsi e perché si configuri l'addebito della separazione, non si richiedono forme tipizzate di comportamenti o violazioni, dovendosi guardare alla realtà dei fatti ed ai concreti risultati, cui i comportamenti, attivi od omissivi, hanno condotto.

Una breve cronaca può trarre spunto da una sentenza del Tribunale di Roma (Trib. Roma, 17.9.1989, in Giur. di Merito, 1991, 754 ss.) chiamato a decidere su una storia di ordinaria infedeltà. Lei, lui, l'amante, dipendente del marito. Scoperta la tresca il fedifrago è allontanato dal luogo di lavoro ma il licenziamento è annullato dal pretore. Da qui una causa civile, per danni morali e patrimoniali. L'amante si difende sostenendo che l'adulterio non è più reato, sicchè non esiste il danno morale, e sostiene che la violazione dell'obbligo di fedeltà rileva come addebito della separazione e non come illecito aquiliano. Ciò per il peculiare regime di rilevanza dei doveri coniugali e della comunità familiare.

La sentenza segue una via contorta e singolare applicando istituti e principi del rapporto obbligatorio. Gli obblighi matrimoniali non hanno natura pubblica, ma privata; la violazione della fedeltà può essere fonte di un danno che può derivare anche da un contegno di cooperazione o induzione di un terzo, il quale può aver tenuto un contegno positivo o aver subito invece le «profferte amorose» del coniuge infedele. In assenza di prova sul punto si rigetta la domanda, lasciando intravedere che era la moglie parte attiva del rapporto adulterino ed il convenuto solo una vittima «delle voglie sessuali di una donna inquieta».

L'aspetto più criticabile non è la decisione ma la sua motivazione, perché i problemi di responsabilità e di danno nella famiglia si risolvono in base ai principi generali delle obbligazioni, ed emerge il disagio di affrontare la sessualità e gli affetti con la categoria dell'inadempimento e dell'interferenza nel rapporto coniugale equiparato a qualsiasi altro contratto. D'altra parte il problema del risarcimento da parte di un coniuge del danno causato dalla violazione del dovere coniugale è affrontato nelle sentenze di legittimità con incertezze e oscillazioni.

Ma in tutto questo ci si chiede se ha ancora un senso parlare di separazione giudiziale che se venisse meno travolgerebbe l'addebito (come dice Quadri «dannosa eredità (...) di quella configurazione in termini sanzionatori della separazione personale, intimamente legata al sistema matrimoniale indissolubile») impedendo di sanzionare, al momento della crisi, le violazioni dei doveri matrimoniali che sono l'anima del matrimonio. Quando la legge sul c.d. divorzio breve era ancora in discussione in Parlamento, ci si domandava se la soluzione ai problemi generati dalla compresenza nell'ordinamento della separazione e del divorzio potesse essere rappresentata dalla drastica riduzione della durata della separazione, ovvero se non fosse preferibile prendere atto dell'alternatività dei due istituti ed abrogare la separazione giudiziale, lasciando ai coniugi soltanto la possibilità di separarsi consensualmente, nel rispetto della loro libertà di coscienza, come si auspica da oltre un ventennio.

4. Tante le riforme che si sono avvicendate nel frattempo. L'art. 709-bis cod. proc. civ., introdotto nel 2005, ha riconosciuto la possibilità di pronunciare sentenza parziale sulla separazione, ammettendo avverso di essa solo l'appello immediato da decidersi in camera di consiglio. Il termine di durata della separazione, necessario per la proposizione della domanda di scioglimento del matrimonio, è stato ulteriormente ridotto ad un anno dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale in caso di separazione giudiziale e a sei mesi in caso di separazione consensuale (l. 6 maggio 2015, n. 55, sul c.d. «divorzio breve»).

Il Governo, nell'ambito di un più generale intento di "riforma della giustizia civile" ha adottato il d.l. 12 settembre 2014, n. 1324, poi convertito nella legge n. 162 del 10 novembre 20145, prevedendo, agli artt. 6 e 12, due distinti procedimenti con l'obiettivo dichiarato di "semplificare" le procedure di separazione personale dei coniugi, scioglimento del matrimonio e cessazione degli effetti civili, nonché di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio. E' intuitivo che l'introduzione di questi istituti, ed in particolare di quello previsto dall'art. 12 del d.l. n. 132 del 2014 innanzi al Sindaco, abbia lacerato il dogma secondo il quale la modifica dello status dovesse trovare nella giurisdizione il suo luogo naturale, per affidare, invece, la traslazione dallo stato di "coniuge" a quello di "coniuge separato" o "ex coniuge" a provvedimenti amministrativi o solo latamente giurisdizionali.

Le Sezioni Unite hanno operato una rilettura dell'art. 5, comma 6, l. div. che, senza sconfessare il principio dell'autoresponsabilità del richiedente, conferma la fondamentale rilevanza del "valore" della solidarietà post-coniugale e dell'assegno divorzile quale strumento che, ponendosi nell'alveo dell'art. 29 Cost., assolve ad una "funzione equilibratrice", la quale, seppur non "finalizzata alla ricostruzione del tenore di vita endoconiugale", mira al "riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole" al ménage familiare.

Non può tralasciarsi la proposta di legge "Delega al Governo per la revisione del codice civile", con la quale si prevede che il Governo dovrà operare per "consentire la stipulazione tra i nubendi, tra i coniugi, tra le parti di una programmata o attuata unione civile, di accordi intesi a regolare tra loro, nel rispetto delle norme imperative, dei diritti fondamentali della persona umana, dell'ordine pubblico e del buon costume, i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell'eventuale crisi del rapporto, nonché a stabilire i criteri per l'indirizzo della vita familiare e l'educazione dei figli".

La previsione è rivolta a consentire, anche nel nostro ordinamento, quelli che vengono comunemente indicati come accordi, o patti, "prematrimoniali". Emerge dalla delega una duplice diversificazione: da un lato, si distinguono i rapporti personali dai rapporti patrimoniali, che potranno essere oggetto di accordo tra i coniugi o tra gli uniti civilmente; dall'altro, gli accordi destinati alla fase della fisiologia, da quelli stretti in previsione della crisi.

Nuovi orizzonti che si dischiudono. Sono lontani i tempi di Fefè, Barone di Cefalù.

* di Valeria Cianciolo, Foro di Bologna