Il CommentoCivile

Il taglio dei parlamentari è un primo passo di una riforma non delinata

di Giulio M. Salerno

Superato il referendum popolare, è stata promulgata e pubblicata la legge costituzionale n. 1/2000 che ha disposto la riduzione del numero dei parlamentari, che, dunque, a partire dal prossimo scioglimento delle Assemblee, saranno 200 al Senato e 400 alla Camera. Va aggiunto che con questa legge costituzionale è stata anche riformulata la disposizione sulla nomina dei senatori a vita da parte del Capo dello Stato. E' una modifica che, per quanto più leggera, va sempre nello stesso senso. Infatti, con la riscrittura dell'articolo 59, comma 2, della Costituzione, il numero complessivo di questi senatori a vita non potrà mai essere superiore a cinque, così definitivamente evitando quell'ampliamento del numero dei senatori di nomina presidenziale che si è invece verificato in prassi (durante le Presidenze di Pertini e di Cossiga) in base ad un'interpretazione, per così dire, estensiva della precedente formulazione.

Le ragioni della riforma - Circa la "ragione" propria di questa riforma costituzionale, essa non può dirsi del tutto evidente. Del resto, non sono risultate pienamente convincenti le motivazioni collegate alla maggiore efficienza del Parlamento, alla contrazione dei costi e alla comparazione con le Assemblee presenti negli altri Stati democratici a noi simili per dimensioni. Le prime motivazioni perché controvertibili; le seconde perché il minor costo è piuttosto ridotto sia in termini assoluti che in rapporto alla spesa pubblica complessiva; e le ultime perché ogni confronto tra ordinamenti sconta la diversità delle condizioni di contesto in cui opera ciascun Parlamento, in particolare circa la struttura e le funzioni, oltre alla compresenza più o meno consistente di altri organi rappresentativi della collettività a livello territoriale.

Il ruolo del sentimento anti casta - Tuttavia, al momento del referendum, le posizioni contrarie alla riforma, per lo più concentrate sulla difesa del parlamentarismo, hanno sì raggiunto un risultato dignitoso, ma in definitiva non hanno fatto breccia sull'elettorato che, in definitiva, ha partecipato al voto con un interesse forse superiore alle attese. Il risultato finale è stato largamente condizionato, a nostro avviso, dalla sempre più diffusa sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche, e, in primis, nei riguardi della classe politica, sfiducia che si è nutrita del sentimento "anti-casta" largamente presente in ampi strati della popolazione. Mentre si può ragionevolmente presumere che chi ha votato a favore del merito della riforma, abbia ritenuto che la riduzione del numero dei parlamentari non comportasse una pericolosa contrazione delle possibilità di "essere rappresentati" nelle stanze del potere, forse anche perché già non si attribuisce particolare rilievo a tale possibilità. Insomma, la dislocazione del potere effettivo in "luoghi" e "forme" distanti dal Parlamento – fenomeno che da tempo è stato rilevato con crescente preoccupazione - non ha giocato a favore della difesa dell'attuale composizione del Parlamento. Del resto, chi ha sostenuto la riforma, ha sostenuto, anche con qualche acrobrazia numerica, che la corposa presenza dei consiglieri regionali può comunque supplire, in qualche misura, alla riduzione dei parlamentari, sottovalutando, però, che la rappresentanza della "nazione" non può certo essere equiparata alla rappresentanza delle comunità regionali.

Le possibilità di completare la riforma - Può dirsi, allora, che tale riforma costituzionale, soprattutto dopo l'acquisizione del consenso popolare, si presenti come un ulteriore e decisivo passo verso un progressivo indebolimento della centralità del Parlamento? Per rispondere alla domanda, occorre analizzare gli effetti per così dire consequenziali della riforma costituzionale appena approvata, cioè il rapporto tra la revisione costituzionale relativa alla riduzione del numero dei parlamentari e le ulteriori prospettive di riforma della Costituzione che sono in corso di esame da parte delle Camere. Soprattutto, occorrerebbe accertare se sia individuabile un "disegno complessivo" di riforma della Costituzione che stia prendendo corpo proprio a partire dalla legge di revisione costituzionale appena approvata.
Innanzitutto, occorre considerare la proposta di introduzione del referendum propositivo connesso all'iniziativa legislativa popolare, proposta che, dopo una prima approvazione parlamentare, si è fermata, anche a seguito delle numerose critiche che, a ragione, sono state formulate da più parti. In particolare, ciò che appare preoccupante è la "sostenibilità" di un tale innovativo strumento da parte dell'attuale sistema parlamentare, che, come noto, è ormai assai infiacchito. Nulla esclude che siffatta proposta, accantonata al momento della costituzione del secondo Governo Conte, possa essere adesso ripresa, a dispetto del fatto che le obiezioni di una parte delle stesse forze dell'attuale maggioranza, e di quelle dell'opposizione, dovrebbero rendere problematico il raggiungimento delle maggioranze previste dall'articolo 138 Cost.
Vi sono poi quelle modifiche costituzionali, per così dire di aggiustamento, che dovrebbero accompagnare la riduzione del numero dei parlamentari e che, da qualche tempo, sono oggetto dell'esame delle Camere. Si tratta, essenzialmente, della soppressione della "base regionale" nell'elezione dei senatori (per evitare collegi senatoriali troppo vasti), la riduzione dei delegati regionali nell'elezione del Capo dello Stato (per ripristinare il rapporto esistente prima di questa riforma tra delegati regionali e parlamentari), o ancora l'abbassamento dell'età dell'elettorato attivo – ed eventualmente passivo – nell'elezione del Senato (per evitare che, con la riduzione del numero dei componenti, si radicalizzi la differenziazione tra le due Assemblee). Ma, come noto, una componente dell'attuale maggioranza ha adesso richiesto una sospensione dei lavori parlamentari su questi temi, così imponendo il rinvio di queste riforme "a data da definirsi".
Che ciò sia un bene o un male, dipende dai punti di vista. In ogni caso, tutte queste ulteriori modifiche puntuali della Costituzione, appaiono accomunate da una stessa filosofia di fondo: rendere le Assemblee parlamentari sempre più omogenee tra loro, in modo da favorirne il funzionamento più organico e concorde. Insomma, queste proposte, nel loro complesso, tendono ad incidere sul bicameralismo che abbiamo conosciuto sinora, certo "paritario e perfetto", ma così "strutturalmente differenziato" da condizionare in non poche occasioni l'azione – e talora anche l'esistenza – degli esecutivi.

Il monocameralismo di fatto - Allora ci si può domandare, non senza qualche ragione, se la strada che si intende percorrere mediante questo "pacchetto" di riforme di accompagnamento, sia quella di formalizzare quel "monocameralismo di fatto" che già caratterizza alcuni aspetti dell'attuale bicameralismo, così come avviene, ad esempio, con il ricorso al meccanismo – praticato da tutte le maggioranze che si sono susseguite da più di vent'anni – che riunisce decreto-legge, maxi-emendamento governativo e questione di fiducia. In sostanza, i decreti-legge sono effettivamente discussi ed esaminati in una sola Assemblea, quella dove i decreti-legge sono inizialmente presentati a discrezione del Governo e poi emendati in blocco con il maxi-emendamento sempre di iniziativa governativa. Così restando all'altra Assemblea la sola ratifica finale del decreto-legge, praticamente imposta dal Governo con la questione di fiducia.
Se, poi, si considera il disegno di legge costituzionale recentemente presentato da alcuni senatori del PD in relazione ad una riforma complessiva della nostra forma di governo, si intravede una strada ulteriore ed intermedia, quella cioè caratterizzata dall'introduzione di una "terza Camera" rappresentata dal Parlamento in seduta comune al quale sarebbero attribuite rilevanti funzioni legislative e di indirizzo politico, inerenti, ad esempio, alla legge di bilancio o al voto sul rapporto di fiducia. Ma anche questa proposta non sembra, almeno per il momento, raccogliere sufficienti consensi, neppure tra le file della stessa maggioranza.

Legge elettorale e regolamenti parlamentari - Ciò che è invece appare meno improbabile è l'intervento sugli attuali sistemi elettorali, intervento che è indispensabile almeno da un punto di vista tecnico-operativo: il nuovo e più ridotto formato delle Assemblee, infatti, richiede necessariamente la rideterminazione dei collegi elettorali. A tal fine, con la legge n. 51/2019 si è prevista un'apposita delega legislativa per la rideterminazione dei collegi elettorali proprio per questa evenienza. Appare più problematica, invece, l'individuazione di un nuovo sistema elettorale, date le difformi posizioni delle forze politiche sul punto.
Infine, è evidente che la riduzione del numero dei parlamentari comporta inevitabili contraccolpi sull'attuale organizzazione delle Camere e sulle modalità di funzionamento. Già i Presidenti delle due Assemblee hanno attivato dei comitati ristretti per valutare quali innovazioni apportare, dunque, ai regolamenti parlamentari. A questo proposito, taluno ritiene che si debba cogliere l'occasione e dare vita a "nuovi" regolamenti parlamentari, che siano davvero all'altezza delle sfide che il Parlamento deve affrontare. Pur non negandosi l'opportunità di tale prospettiva, deve rilevarsi che l'attuale momento politico ed istituzionale non sembra favorire, in seno alle Assemblee parlamentare, quel clima "costituente e collaborativo" che sarebbe indispensabile per compiere un passo così importante, sostituire cioè i Regolamenti parlamentari del 1971.
In definitiva, con l'approvazione della legge costituzionale n. 1/2020 si è dimostrato che la riforma delle istituzioni è possibile, ma, nello stesso tempo, si è aperto un tracciato aperto a soluzioni non predeterminate.