Famiglia

Corte EDU, no a "genitore 1" e "genitore 2" in sostituzione di "padre" e "madre" dopo la transizione di genere

La Corte ha osservato che non vi è consenso tra gli Stati europei sulla questione di come indicare, nei registri di stato civile relativi a un minore, le persone che hanno lo status di genitore transgender

di Giancarlo Cerrelli*

Mentre in Italia si discute della trascrizione della filiazione omogenitoriale di cui abbiamo trattato in nostri precedenti articoli (cfr. La filiazione omogenitoriale tra il rispetto dell'ordine pubblico e il miglior interesse del minore ; Filiazione omogenitoriale, le istanze del Parlamento UE trovano fondamento nell'ordinamento italiano? , la Corte EDU (Corte Europea dei diritti dell'uomo), nei giorni scorsi, ha emanato due importanti decisioni che prendono posizione riguardo alla dicitura da inserire nell'atto di nascita di figli di coppie transgender.

Le due decisioni della Corte EDU

Le due decisioni della Corte Edu risalgono al 4 aprile 2023 e riguardano i casi A. H. ed altri c. Germania e O.H. e G.H. c. Germania.

Le questioni, nello specifico, trattano i casi di persone transessuali e dei loro figli concepiti prima che queste facessero la transizione di genere. Queste persone transgender hanno chiesto, difatti, di essere registrate sull'atto di nascita dei minori nel ruolo corrispondente al sesso in cui si identificavano e non a quello che avevano alla nascita, come invece fatto dall'ufficiale di stato civile.

Esaminiamo brevemente i due casi.

Caso A. H. ed altri c. Germania

Il primo caso A. H. ed altri c. Germania prende spunto dal rifiuto delle autorità di stato civile di registrare un atto di nascita recante come madre un uomo che aveva concepito con i suoi gameti un bambino. L'uomo, in poche parole, pretendeva di essere dichiarato nell'atto di nascita come madre del bambino nonostante il riconoscimento giudiziale del suo cambiamento di sesso avvenuto prima del concepimento del minore. La seconda ricorrente, nella stessa questione, era la donna che ha dato alla luce la bambina, concepita con i gameti maschili dell'uomo che poi ha cambiato sesso.

Entrambi i ricorrenti hanno, infatti, chiesto all'ufficiale di stato civile di registrarli ambedue come mamme del bambino.

L'ufficiale di stato civile ha, però, informato i ricorrenti che lui avrebbe indicato nell'atto di nascita come madre del bambino, soltanto la donna che aveva partorito, negando l'iscrizione all'uomo transgender - divenuto nel frattempo donna - nella qualità di madre del minore, in quanto tale riconoscimento non avrebbe avuto alcun valore giuridico, anche perché la seconda ricorrente, in quanto madre biologica del bambino, era, tra l'altro, la sua madre legale.

I ricorrenti, pertanto, hanno fatto ricorso al tribunale distrettuale tedesco competente per chiedere di essere iscritti nel registro delle nascite entrambe come madri del bambino e, inoltre, richiedendo che la persona transgender fosse registrata con il suo nome femminile. Il tribunale distrettuale, la Corte d'appello e la Corte federale hanno, però, respinto il ricorso.

Caso O.H. e G.H. c. Germania

Il secondo caso O.H. e G.H. c. Germania riguarda il rifiuto delle autorità amministrative tedesche di registrare la prima ricorrente (il sig. O.H.) come padre della seconda ricorrente (la sig.ra G.H.); invero il primo ricorrente che è nata donna, aveva effettuato la transizione di genere diventando uomo e aveva partorito la seconda ricorrente dopo il riconoscimento giudiziario del suo cambiamento di sesso.

La ricorrente, infatti, ormai legalmente divenuta uomo, aveva chiesto all'ufficiale di stato civile di essere registrata come padre della bambina che aveva partorito. Davanti all'Ufficiale di stato civile precisò che il bambino non aveva madre, che lo spazio previsto per la registrazione del nome della madre doveva rimanere vuoto, che il bambino non aveva un secondo genitore legale e che era stato concepito utilizzando sperma donato. Ha inoltre chiesto che né il sesso né la religione del bambino comparissero sul certificato di nascita.

L'Ufficiale di stato civile avendo dubbi sul da farsi ha adito il tribunale distrettuale per dirimere la questione.

Il tribunale distrettuale ha, dunque, ordinato all'ufficiale di stato civile di registrare la prima ricorrente come madre e non come padre della seconda ricorrente. La Corte d'appello e la Corte federale tedeschi hanno confermato la decisione del tribunale distrettuale rigettando il ricorso dei ricorrenti.

La decisione della Corte EDU

Entrambe le coppie hanno, così, adito la Corte EDU che nelle sue decisioni ha ritenuto che, alla luce delle sue precedenti conclusioni, l'attribuzione del ruolo di madre, debba essere concesso soltanto a chi dà alla luce un figlio e ciò, in ogni caso, tale decisione rientra nel margine di discrezionalità degli Stati.

Agli Stati deve essere concesso in materia un ampio margine di apprezzamento

La Corte ha osservato che non vi è consenso tra gli Stati europei sulla questione di come indicare, nei registri di stato civile relativi a un minore, le persone che hanno lo status di genitore transgender. Infatti, come risulta dai dati pubblicati dall'organizzazione Transgender Europe solo cinque Stati hanno previsto la possibilità di inserire in tali registri l'indicazione del sesso riconosciuto legalmente, mentre la maggioranza degli Stati continua a designare quale madre del bambino la donna che partorisce, riconoscendo, comunque, la paternità del bambino alla persona che ha contribuito alla fecondazione con il suo sperma.

Questa mancanza di consenso – afferma la Corte EDU - riflette il fatto che la genitorialità di una persona che ha cambiato genere solleva delicate questioni etiche e conferma che agli Stati deve essere concesso in linea di principio un ampio margine di apprezzamento.

La Corte EDU ha inoltre ribadito che i giudici nazionali aditi da uno dei genitori (o entrambi) e anche dal suo (loro) figlio non possono prendere in considerazione solo gli interessi invocati dal genitore o dai genitori, ma devono dare priorità all'interesse superiore del bambino, (in conformità con l'articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diritti del fanciullo).

A tal proposito gli Stati contraenti godono di un certo margine di discrezionalità nel determinare - se e in che misura - differenze tra situazioni altrimenti analoghe giustifichino distinzioni di trattamento. L'ampiezza del margine di discrezionalità varia a seconda delle circostanze, delle aree e dal contesto; la presenza o l'assenza di un denominatore comune negli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti può essere un fattore rilevante a questo riguardo (Z. c. Germania, n. 22028/04, §§ 42 e 49-50, 3 dicembre 2009).

NO a "genitore 1" e "genitore 2" in sostituzione di "padre" e "madre"

La Corte EDU, inoltre, aderendo alle osservazioni del Governo tedesco, ha ritenuto opportuno rigettare, senza mezzi termini, la proposta dei ricorrenti, di sostituire i termini "madre" e "padre" con "genitore 1" e "genitore 2", perché ciò non proteggerebbe né i ricorrenti, né il minore contro la divulgazione, in quanto "genitore 1" rimarrebbe associato alla persona che ha partorito il figlio. La Corte ha, inoltre, osservato che poiché i termini "madre" e "padre" utilizzati dalla legge corrispondono all'uso comune, sarebbe difficile convincere i consociati della necessità di sostituirli con altri termini, come "genitore 1" e "genitore 2".

L'interesse superiore del minore deve avere la precedenza

La Corte ha, poi, sottolineato che le scelte effettuate dallo Stato tedesco, anche entro i limiti di questo margine, non sfuggono al suo controllo. Spetta ad esso soltanto esaminare attentamente gli argomenti presi in considerazione per giungere alla soluzione prescelta e determinare se sia stato raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli delle persone direttamente interessate da questa soluzione. A tal fine, si deve tener conto del principio essenziale secondo cui, ogni volta che è in questione la situazione di un minore, l'interesse superiore del minore deve avere la precedenza (cfr. M. c. France, no 65192/11, § 81; M. c. France, no 30955/12, § 53 e L.D. et P.K. c. Bulgarie, nos 7949/11 et 45522/13, § 61).

La Corte ha osservato, ancora, che un certificato di nascita da cui risultasse che un genitore è transgender non solo lederebbe il diritto del minore all'esatta conoscenza, all'integrità ed alla trasparenza delle proprie origini, ma lo esporrebbe a forme di discriminazione e a situazioni di disagio.

La scelta delle autorità interne di indicare il ruolo del genitore in base al sesso biologico, anziché a quello in cui s'identifica è lecita

La Corte ritiene, infine, che la decisione di trattare il ricorrente allo stesso modo di qualsiasi persona che possa aver contribuito al concepimento del bambino mediante i suoi gameti maschili, vale a dire di consentirgli di stabilire ufficialmente il suo legame biologico con il ricorrente mediante il riconoscimento della sua paternità, rientra anch'esso nel margine di apprezzamento dello Stato.

La Corte ha, dunque, concluso che la scelta delle autorità interne di indicare il ruolo del genitore in base al sesso biologico, anziché a quello in cui s'identifica, è lecita e rispettosa dei diritti di tutti i soggetti coinvolti.

La genitorialità della persona transessuale in Italia

Il transessualismo, fino al 2008, era inserito nel Manuale statistico e diagnostico delle malattie mentali (DSM IV) come un disturbo dell'identità di genere; tuttavia, le pressioni dei movimenti transessuali, che mirano alla depatologizzazione del transessualismo, hanno propiziato il processo di revisione dei criteri del DSM, avviato dalla American psychiatric association a partire dal 2008, e conclusosi nel 2013 con la pubblicazione della quinta edizione del DSM (DSM-5) e che ha portato a conservare una diagnosi connessa all'identità di genere, ma sotto la definizione di Disforia di genere. Il transessuale, in poche parole, è colui che sente il suo corpo «di nascita» non conforme all'identità di genere e per questa ragione vuole trasformarlo irreversibilmente. Si parla di MtF (male to female) per indicare la transizione da uomo a donna e FtM (female to male) per la transizione da donna a uomo.

Sulla genitorialità della persona transessuale vi è scarsa giurisprudenza.

Uno dei primi casi giurisprudenziali riguarda la decisione del Tribunale dei minorenni di Torino di allontanare il padre transessuale MtF sulla base del comportamento "obiettivamente pregiudizievole" tenuto da questi nei confronti del figlio di dieci anni. Infatti, dopo "anni di separazione dalla famiglia", il genitore transessuale è ricomparso nella vita del minore dopo aver assunto una nuova identità femminile a seguito della sua transessualità "causando grave turbamento nel bambino che non accettava una così sconcertante figura di padre-madre con fisico, abbigliamento e professione (spogliarellista) profondamente diversi da quelli del normale modello paterno" (Trib. Min. Torino, 20 luglio 1982). Altra giurisprudenza di merito ha invece dimostrato un orientamento verso l'esigenza di assicurare tanto al genitore quanto alla prole "una serena presa di coscienza del cambiamento in vista di una armonica prosecuzione del rapporto genitoriale" (Trib. Fermo, 28 febbraio 1996) ed ha disposto, su istanza del genitore transessuale, la sola sospensione dei contatti tra padre e figlia "fino al raggiungimento della sua maturità psicologica, in modo da consentire di affrontare senza traumi l'avvenuta modificazione dei caratteri sessuali del padre".

Sono da annoverare anche due decisioni del Tribunale per i minorenni di Milano che si sono occupate della difficile situazione di un transessuale straniero consentendo all'uomo di ristabilirsi nel domicilio familiare, dopo che le tensioni tra questi e il figlio avevano indotto il ragazzo a richiedere il ricovero in una comunità protetta (Trib. min. Milano, decr., 15 gennaio 2010). In seguito a questa vicenda i rapporti tra i due si sono poi rasserenati ed il minore è rientrato nel domicilio familiare.

Sebbene i casi giurisprudenziali circa la filiazione di persone transessuali siano scarsi il principio cardine che viene in gioco è senz'altro quello del "best interest of the child".

In tale prospettiva sarà, sicuramente, da valutare se il rapporto giuridico di filiazione sia sorto prima o dopo il mutamento di sesso del genitore. Ma questo aspetto merita una trattazione a parte.

Com'è disciplinato il transessualismo in Italia?

Con la Legge 14 aprile 1982, n. 164, "norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso" il legislatore ha disciplinato la delicata questione riguardante la rettifica dell'attribuzione del sesso anagrafico. Tale legge ha ammesso un'eccezione all'articolo 5 del Codice civile che vieta atti di disposizione del proprio corpo, consentendo il cambiamento del sesso enunciato all'atto di nascita "a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali".

La Corte Costituzionale ha sancito la legittimità di tale legge con la sentenza del 24 maggio 1985, n.161.

L'intento del legislatore, con l'approvazione della legge 164/1982, è stato quello di dare tutela a esigenze riferibili a cerchie (più o meno estese) di consociati, i quali ritenevano di avvertire una dissociazione tra soma e psiche, tra sesso fisico e identità sessuale psichica.
Negli anni passati, è stato a lungo dibattuto nella giurisprudenza di merito il tema dell'obbligatorietà dell'intervento chirurgico ai fini della rettificazione dell'atto di nascita: a un orientamento più restrittivo, in base al quale l'adeguamento dei caratteri sessuali primari era ritenuto condizione indefettibile per la rettificazione anagrafica (tra le ultime, il Tribunale di Vercelli, 12 dicembre 2014, n. 159) si è contrapposto un orientamento più "liberale", consolidatosi in particolar modo nei casi in cui la persona transessuale non poteva sottoporsi a una operazione medica invasiva degli organi genitali, per ragioni di età o di salute (cfr. Tribunale di Bari, 10 marzo 2016, n. 1335; Tribunale di Genova, 5 marzo 2015; Tribunale di Messina, 4 novembre 2014).

Il contrasto è stato ricomposto dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. civ. 20 luglio 2015, n. 15138. La questione dibattuta riguardava la necessità dell'intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari per i transessuali che vogliano ottenere la rettificazione anagrafica. La Cassazione si è espressa per la risposta negativa, purché ciò sia accompagnato dal pieno benessere psico-fisico del soggetto, dalla sua irreversibile scelta di riassegnazione del sesso anagrafico e dalla modificazione dei caratteri sessuali (almeno) secondari: «per ottenere la rettificazione dello stato civile, infatti, non occorre più che sia attuato un intervento chirurgico che modifichi i caratteri sessuali primari. La mancata operazione non può, infatti, essere di per sé ragione sufficiente a escludere il cambio di sesso all'anagrafe, essendo sufficiente dimostrare, attraverso i trattamenti medici e psicologici subiti, la radicalità della scelta intrapresa». Tale opinione è stata peraltro avallata, a pochi mesi di distanza, dalla Corte Costituzionale con sentenza del 5 novembre 2015, n. 221.

Non è più necessario la demolizione degli organi sessuali primari

Se, dunque, fino a qualche anno fa per ottenere la rettificazione anagrafica era necessario sottoporsi a un intervento chirurgico, ora secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale, l'intervento è divenuto del tutto eventuale e ciò al fine di garantire il cosiddetto "diritto all'identità di genere" come espressione dell'identità personale e piena realizzazione del diritto alla salute. Prevale, così, più la percezione di come e cosa ci si sente, piuttosto che il dato biologico.

Il criterio alla base del nuovo orientamento giurisprudenziale è il benessere e l'autodeterminazione dell'individuo; dunque, il rapporto che il soggetto ha col proprio sé (fisico, psichico e sociale) e la sua volontà rispetto ad un eventuale intervento chirurgico.

Diventa centrale, pertanto, l'esperienza individuale: le esigenze, i tempi, la volontà e lo stato fisio-psichico della persona in transizione di genere.

Le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione sull'illegittimità dello scioglimento automatico del matrimonio in caso di sentenza di rettificazione di sesso di uno dei due coniugi

La Corte Costituzionale, con sentenza dell'11 giugno 2014, n. 170, ha ritenuto che è costituzionalmente illegittima la mancata previsione della facoltà, in caso di sentenza di rettificazione dell'attribuzione del sesso di uno dei coniugi e qualora questi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato, che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi.

La Corte di Cassazione, sulla scorta di tale pronuncia, con sentenza del 21 aprile 2015, n. 8097, ha dovuto risolvere il caso sottoposto alla sua valutazione sulla base della detta sentenza della Corte costituzionale. Nel solco, dunque, delle argomentazioni contenute in tale sentenza, che ha, infatti, dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della Legge 164/1982, nella parte in cui «non prevedono che la sentenza di rettificazione di sesso di uno dei due coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con modalità da statuirsi dal legislatore», la Suprema Corte ha deciso che i coniugi, divenuti omosessuali, conservino i diritti ed i doveri propri del matrimonio legittimamente contratto, sottoposti, tuttavia, «alla condizione temporale risolutiva, costituita dalla futura regolamentazione legislativa delle unioni civili omosessuali ».

L'accertamento dell'avvenuta transizione dell'identità di genere deve essere rigoroso

Una recentissima sentenza della Corte Costituzionale del 27 dicembre 202, n. 269, stabilisce, tuttavia, che in tema di rettificazione di attribuzione di sesso, l'interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente diescludere il requisito dell'intervento chirurgico di normoconformazione. E tuttavia ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell'intento, ma anche dell'intervenuta oggettiva transizione dell'identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l'intento così manifestato. Va infatti escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell'accertamento della transizione; pertanto, il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato individuato affidando al giudice nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l'entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l'identità personale e di genere.

L'"identità alias"

Collegato alla transizione di genere vi è un fenomeno, che interessa centinaia di istituti scolastici e Atenei universitari in Italia, che è la cosiddetta "identità alias" e che consiste in una procedura amministrativa che prevede la possibilità di acquisire "un'identità alias", ovvero utilizzare un nome differente da quello risultante dall'anagrafica dell'Ateneo, in attesa che il percorso della rettificazione di attribuzione anagrafica di sesso, di cui alla legge 164/1982, porti al rilascio di una documentazione definitiva.

L'identità alias costituisce un'anticipazione dei provvedimenti che si renderanno necessari al termine del procedimento di transizione di genere, quando il soggetto sarà in possesso di nuovi documenti di identità personale a seguito di sentenza del Tribunale, passata in giudicato, che ne rettifichi l'attribuzione di sesso e - di conseguenza - il nome attribuito alla nascita.

Sotto il profilo normativo, per suffragare la concessione della carriera alias da parte dei singoli istituti scolastici, in assenza di una norma che disciplini tale pratica, si richiamano, oltre l'art. 3 comma 2 della Costituzione, il d.P.R. 275/1999 recante la disciplina in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche.

Tale riferimento, tuttavia appare improprio perché l'autonomia scolastica non consiste nella libertà di autodeterminazione delle politiche e dei percorsi formativi, ma nella flessibilità di operare all'interno di un quadro normativo precostituito dai soggetti titolari di potestà legislativa ex art. 117 cost. (Stato, Regioni, Province Autonome). Ciò significa che l'autonomia è concessa alle scuole non per fini generali ma in funzione della realizzazione degli obiettivi di educazione, formazione ed istruzione fissati dalla legge, nonché nel rispetto della libertà di insegnamento e della libertà di scelta educativa delle famiglie.

La carriera alias, pertanto, attuata in vari istituti di istruzione, in assenza di una copertura normativa, presenta a nostro avviso alcune criticità sotto il profilo giuridico.

Si tratta, infatti, di una procedura che prevede l'alterazione di documenti ufficiali della scuola, fra cui i registri di classe, che tecnicamente sono atti pubblici finalizzati a documentare gli aspetti amministrativi della classe e che in quanto tali, per legge, devono riportare l'elenco e i dati anagrafici degli alunni, le presenze, le assenze, eventuali note disciplinari ecc. Tutte le attestazioni contenute nei registri di classe, come affermato anche dalla Cassazione, sono espressione della pubblica funzione dell'insegnamento.

Occorre, tuttavia, riflettere sul fatto, che senza una copertura legislativa, inserire nei registri della scuola nomi difformi a quelli presenti sui documenti anagrafici e all'atto dell'iscrizione scolastica può avere delle conseguenze giuridiche, fra cui l'integrazione del reato di falso ideologico in atto pubblico previsto dall'art. 479 del codice penale. Gli insegnanti, infatti, nel compilare i registri, rivestono la qualifica di pubblici ufficiali. La Cassazione ha più volte ribadito che il dirigente scolastico o l'insegnante che altera i dati sui registri scolastici relativi a presenze, assenze, note disciplinari ecc. commette il reato di falso in atto pubblico in quanto la condotta è tale da ledere la pubblica fede, ossia la fiducia che la collettività ripone sulla veridicità di quel determinato atto.

L'art. 6 del codice civile, tra l'altro, stabilisce che «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito […] non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati».

Se, infatti, l'identità alias è prevista ormai da varie CCNL in diversi comparti di lavoratori della P.A, come anche dal recentissimo "Piano di Uguaglianza di genere 2023-2025" predisposto dal Ministero della Giustizia con decreto ministeriale del 22 febbraio 2023, non è così per quegli atenei e istituti scolastici che hanno adottato arbitrariamente l'identità alias e che in assenza di una copertura legislativa, sembrano utilizzarla illecitamente.

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*A cura del Prof. Avv. Giancarlo Cerrelli, Partner 24 ORE Avvocati


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