Professione e Mercato

L’avvocato deve fatturare il premio del cliente

Anche il palmario ottenuto per il buon risultato è rilevante per il fisco. Per il codice deontologico vige un dovere di lealtà e corretteza fiscale

di Guglielmo Saporito

Le sezioni unite della Cassazione si occupano della gratitudine (in danaro) che il cliente mostra al professionista (nel caso specifico, un avvocato), all’indomani di un risultato favorevole.

La sentenza 16252 affronta il caso di un legale che concorda un compenso a tariffa con il cliente per la riscossione di un credito di 75mila euro prevedendo anche un “premio” (di ulteriori 7mila euro) in caso di esito integralmente favorevole della lite. Dopo avere ottenuto il risultato auspicato e riscosso quanto concordato, è sorto un contrasto sulla fatturazione: il legale riteneva infatti che il premio fosse stato previsto come mera liberalità, mentre il cliente insisteva sulla fatturazione dell’importo del “premio”.

Il contrasto si è svolto sui binari della deontologia professionale, senza che il cliente procedesse ad autofatturazione (articolo 6 del Dlgs. 471/1997): il privato si è rivolto all’ordine professionale, chiedendo di accertare se l’omessa fatturazione del “premio” violasse il codice di comportamento degli avvocati (articolo 29 Cnf 2014), che impone l’emissione di fattura per ogni “pagamento ricevuto”.

Investita del dubbio, la Cassazione ha chiarito la natura della somma in discussione: anche se si tratta di un importo previsto come atto di liberalità (per generosità, gratitudine) da parte del cliente, in correlazione al risultato conseguito, l’importo va fatturato. Perchè il premio (denominato usualmente “palmario” in quanto consegnato a mano) è attratto nella generale categoria della retribuzione fiscalmente rilevante.

L’importo costituisce infatti una componente aggiuntiva del compenso, riconosciuta dal cliente all’avvocato in caso di esito favorevole della lite a titolo di premio o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale. Inoltre, la connotazione premiante del “palmario” non fa venir meno la sua natura di compenso: come tale, esso soggiace agli obblighi fiscali previsti dalla legge e al relativo obbligo di fatturazione. E, sui compensi, il codice deontologico forense impone appunto il dovere di adempimento fiscale, che esprime il dovere di solidarietà e correttezza fiscale, cui l’avvocato è tenuto, non soltanto in funzione della giusta redistribuzione degli oneri, ma anche a tutela dell’immagine e, più in generale, della credibilità della classe forense.

Il dovere di lealtà e correttezza fiscale nell’esercizio della professione è infatti un canone generale dell’agire di ogni avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività. Facendo un passo indietro nel tempo, la romana “lex Cincia” (204 a.C.) vietava agli avvocati di farsi versare “doni” prima di trattare una causa. Successivamente (41 d.C.) l’imperatore Claudio, consentì agli avvocati di ricevere fino a 10mila sesterzi (circa 50mila euro).

L’attuale legge della professione legale (247/2012) vieta all’avvocato di percepire come compenso una quota del bene oggetto di prestazione, ma ammette che il compenso sia determinato a percentuale su quanto si prevede che il cliente possa giovarsi della lite «non soltanto a livello strettamente patrimoniale». Quindi, la particolare soddisfazione del cliente che abbia vinto una lite, può anche essere retribuita a parte: ma comunque la gratitudine va fatturata.

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