Penale

È reato storpiare il cognome per deridere

La Cassazione esclude l'attenuante del "diritto di satira" per aver storpiato il cognome del sindaco-farmacista

di Marina Crisafi

Diritto di satira sì, ma fino a un certo punto. Non c’è scriminante, infatti, se l’offesa riguarda l’aspetto fisico perché trasmoda in insulto spregiativo e disprezzo personale. Questo quanto si ricava dalla recente sentenza della quinta sezione penale della Cassazione n. 320/2022 chiamata a pronunciarsi sulla condanna per diffamazione comminata a un uomo che per rivendicare il diritto ad avere un’abitazione aveva offeso il titolare di una farmacia nonché sindaco del relativo comune.

  La vicenda
Nella vicenda, l’imputato veniva condannato a 1.500 euro di multa oltre al risarcimento del danno per diffamazione, per avere, nel corso di una manifestazione pubblica con al centro la rivendicazione del diritto ad avere un'abitazione (dopo aver subito uno sfratto insieme alla propria famiglia), nei pressi della farmacia di cui era titolare il diffamato, sindaco dello stesso comune, indossato un camice bianco su cui aveva appuntato la copia di un distintivo dell'ordine dei farmacisti che recava, al posto del nome esatto della persona offesa, la scritta “Bruttocesso”.

  Scriminante diritto di satira
L’imputato, tramite il proprio difensore, ricorre in Cassazione eccependo innanzitutto violazione di legge e omessa motivazione quanto alla ritenuta insussistenza della scriminante del diritto di critica e di satira politica, poiché - secondo il giudice - tale causa di giustificazione non potrebbe applicarsi al chiaro epiteto offensivo personale costituito dalla storpiatura del cognome della vittima del reato.
La tesi del ricorrente, che aveva subito uno sfratto di recente, insieme alla sua famiglia, ritiene, invece, sussistente la scriminante, fondata sul legittimo esercizio del diritto di criticare le politiche di edilizia residenziale pubblica adottate dal comune, di cui la persona offesa era sindaco.

  La liceità del diritto di satira
La Cassazione innanzitutto premette che la sentenza va annullata senza rinvio, agli effetti penali, perché il reato ex articolo 595 del Cp in relazione al quale l’imputato è stato condannato si è estinto per prescrizione. Il collegio passa quindi a esaminare il ricorso agli effetti civili, considerato che l’uomo era stato condannato anche alle statuizioni civili in favore della persona offesa.

La disamina degli Ermellini ritiene le tesi dell’imputato infondate.

La Corte risponde innanzitutto alla doglianza sulla scriminante del diritto di satira, affermando che pur essendo certamente molto ampia la sfera di liceità penale che l'interpretazione della giurisprudenza ha riservato all'esercizio di quella peculiare forma di pensiero critico-dissenziente che si esprime nella satira, anzitutto nel contesto di rivendicazioni su tematiche di rilievo pubblico, deve essere precisata quanto al manifestarsi della satira sotto forma di dileggio o disprezzo personali.
Richiamando il proprio orientamento, il Palazzaccio ribadisce quindi che “in tema di diffamazione (anche a mezzo stampa), sussiste l'esimente del diritto di critica quando le espressioni utilizzate, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, consistano in un'argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti, mediante una forma espositiva strettamente funzionale alle finalità di disapprovazione e che non si risolve in un'aggressione gratuita alla sfera morale altrui o in disprezzo personale, sebbene possano utilizzarsi termini oggettivamente offensivi se insostituibili nella formazione del pensiero critico (cfr., tra le altre, Sez. 1, n. 5695 del 5/11/2014).

  Il confine tra legittima satira o disprezzo gratuito
Deve essere ben chiaro, pertanto, proseguono i giudici, “il confine tra la legittima espressione satirica di ludibrio o ironico scherno e, di contro, il disprezzo personale gratuito”. E ancora, il giudicante, “nell'apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale della satira, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell'espressione, restando, comunque, fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali dell'individuo, che deve ritenersi superato quando la persona pubblica (quale è, nel caso di specie, un sindaco, amministratore locale), oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo personale”.

  La decisione
Nel caso di specie, fermi i suddetti principi ermeneutici, detta causa di giustificazione non può applicarsi al chiaro e gratuito epiteto offensivo personale, coinvolgente l'aspetto fisico della vittima del reato, costituito dalla storpiatura del suo cognome, benché la condotta si inscriva nella legittima manifestazione del diritto di critica alle politiche abitative sviluppate dal comune, del quale il ricorrente si è reso portatore partecipando a una manifestazione pubblica sul tema, anche perché direttamente interessato (la sua famiglia aveva subito uno sfratto) e, dunque, sicuramente legittimato ad esprimere un dissenso, pur aspro e vibrato, sulle scelte amministrative in tale ambito.

Per cui, nonostante, la matrice della sua condotta sia senza dubbio lecita, “l'imputato – concludono da piazza Cavour - ha superato i limiti posti dall'interpretazione nomofilattica per ritenere sussistente la scriminante di cui all'art. 51 c.p., anzitutto quanto alla forma espositiva della critica manifestata, poiché definire una persona (omissis), pur se con una finalità latamente satirica e benché ispirandosi ironicamente al suo cognome, non configura ‘l'espressione di un pensiero’ che, per quanto forte ed offensivo, faccia ‘riflettere sorridendo’ sul tema in relazione al quale si manifesta la propria idea ma si risolve nel gratuito insulto spregiativo e nel disprezzo personale”.

Da qui il rigetto del ricorso agli effetti civili. Sul fronte penale, invece, l’imputato si salva grazie alla prescrizione.

 

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