Casi pratici

Diligenza, obbedienza e fedeltà del lavoratore, doveri immanenti al rapporto di lavoro

Obbligo di prestazione lavorativa conforme

di Paolo Patrizio

la QUESTIONE
Quali sono i principali obblighi del lavoratore nel corso del rapporto di lavoro? In cosa consistono i doveri di diligenza, obbedienza e fedeltà posti a carico del lavoratore? Quali rimedi può adottare il datore di lavoro in caso di violazione di detti obblighi da parte del lavoratore?

All'interno del sinallagma contrattuale, la principale obbligazione del lavoratore è quella di offrire la propria prestazione lavorativa conformemente alle mansioni assegnate, secondo l'orario di lavoro concordato e nel luogo stabilito.
Tale fondamentale dettame sostanziale in termini di concretizzazione dell'apporto lavorativo, tuttavia, è arricchito dalla previsione di una serie di ulteriori obblighi aggiuntivi, che non sono considerati autonomi e accessori rispetto all'obbligazione lavorativa, ma ne costituiscono una concreta specificazione e integrazione, in coerenza con il principio secondo cui la prestazione di lavoro deve essere eseguita secondo la diligenza richiesta dalla prestazione dovuta e dall'interesse dell'impresa, con le modalità impartite dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori.
Sono così cristallizzati i doveri di diligenza, di obbedienza e di fedeltà del lavoratore, che trovano la propria traduzione normativa, in ambito codicistico, negli artt. 2104 e 2105 c.c.
In particolare, l'art. 2104 c.c. enuncia il dovere di diligenza, disponendo, al primo comma, che "Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale".
Non si tratta di una decisione opzionale che il lavoratore più prendere in maniera autonoma, ma di una prestazione dovuta in quanto dipendente.
Ma non solo.
Il secondo comma del medesimo articolo pone il dovere di obbedienza, enunciando come il lavoratore "Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende."
Ecco allora che il contenuto specifico del dovere di diligenza si caratterizza in relazione alla natura della prestazione dovuta, variando il livello di intensità richiesta man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente ed esplicandosi nel dovere di rispettare tutte le prescrizioni concrete che siano in un qualche modo connesse alla prestazione lavorativa, con ciò non escludendosi la rilevanza di comportamenti avvenuti al di fuori dell'orario di lavoro.
L'art. 2105 c.c è, invece, dedicato al c.d. obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato, in stretta connessione con i principi generali di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375, Codice civile, e, pertanto, tale da imporre al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente.
Tale dovere di fedeltà si connota e comporta, più nel dettaglio, l'osservanza di due distinti obblighi: da una parte, il c.d. obbligo di riservatezza; dall'altra, il c.d. obbligo di non concorrenza.
Il primo impone al lavoratore di non divulgare notizie di carattere confidenziale che riguardano l'organizzazione dell'impresa.
Il secondo, comporta invece il divieto in capo al lavoratore di compiere atti concorrenziali potenzialmente idonei ad arrecare pregiudizio all'imprenditore, essendo sufficiente in tal senso il compimento di attività in fase anche solo progettuale.
Trattasi, dunque, di una attività potenzialmente lesiva, che prescinde dalla causazione effettiva di danno e che vige per tutta la concomitanza del rapporto lavorativo, potendo nondimeno le parti prevederne l'estensione anche ultrattiva, mediante sottoscrizione di un patto di non concorrenza relativo al periodo successivo allo scioglimento del contratto. Si tratta, in ogni caso, di una modalità che deve rispettare alcuni requisiti di durata, cioè un massimo di 5 anni per i dirigenti e 3 anni per tutti gli altri e che richiede il versamento di un corrispettivo in favore dell'ex dipendente, finalizzato a compensare il sacrificio connesso alla non accettazione di offerte di lavoro in diretta concorrenza con l'ambito operativo proprio di parte datoriale.
All'inadempimento dei suddetti obblighi il datore di lavoro può reagire esercitando il potere disciplinare, che si estrinseca nell'irrogazione, all'esito di un procedimento regolato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, di sanzioni che debbono risultare proporzionate alla gravità dell'inadempimento, e che possono giungere, nei casi più gravi, al licenziamento per giustificato motivo soggettivo o addirittura per giusta causa.
L'art. 2106 c.c. dispone, infatti, che «l'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari secondo la gravità dell'infrazione».
Ma il datore di lavoro può anche agire in giudizio per il risarcimento del danno sia in via contrattuale, sia in via extracontrattuale.
Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato la violazione degli obblighi sanciti dal combinato disposto degli artt. 2104 e 2015 c.c., fa, infatti, sorgere a carico del medesimo due tipi di responsabilità: quella risarcitoria, per inadempimento contrattuale, stabilita dalla regola generale dell'art. 1218 c.c. e quella speciale, la disciplinare, derivante sempre dal medesimo inadempimento, prevista per il rapporto di lavoro dall'art. 2106 c.c.
Il datore di lavoro, a fronte della mancanza del dipendente, può indifferentemente limitarsi all'esercizio dell'azione disciplinare o cumulare tale rimedio con quello, risarcitorio, offerto dal diritto comune, oppure ancora optare per l'esercizio della sola azione diretta al ristoro del danno, senza essere obbligato, in tal caso, alla preventiva contestazione dell'addebito ai sensi dell'art. 7, 2° comma, della legge n. 300 del 1970 e all'adozione di provvedimenti disciplinari.

Diligenza come misura della prestazione
Sotto un profilo più generale, circa l'adempimento delle obbligazioni sappiamo che, in ossequio al disposto dell'art. 1176 c.c., il debitore è chiamato a adottare il parametro della "diligenza del buon padre di famiglia" e, con riguardo all'adempimento delle obbligazioni aventi ad oggetto un'attività professionale, quello della diligenza occorrente «secondo la natura dell'attività esercitata».
È allora in tale cornice che si inserisce, a pieno titolo, la previsione dell'art. 2104 c.c., per la quale il lavoratore è tenuto a «usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall'interesse dell'impresa».
In dottrina (Carinci-De Luca, Buoncristiano, Magrini) si è propensi a ritenere che l'obbligo di diligenza non sia oggetto di una obbligazione autonoma, in quanto tale dovere si caratterizzerebbe, di volta in volta, in relazione alla natura della prestazione oggetto delle mansioni in concreto affidate, crescendo proporzionalmente, man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente, il livello di intensità richiesta.
L'obbligo di diligenza, dunque, trova la propria declinazione e specificazione nei compiti assegnati al dipendente e nelle relative, particolari regole e caratteristiche effettive, sicché, allorquando costui rivesta, in esecuzione del rapporto di lavoro, ruoli che sono soggetti a una particolare disciplina, gli specifici doveri previsti dalla legge o dalla normativa di settore divengono essi stessi oggetto dei suoi particolari obblighi verso il datore di lavoro (Cass. n. 13530/2008).
Ne consegue, pertanto, che un'eventuale modifica delle mansioni non potrebbe che influire direttamente anche sulla valutazione dell'adempimento dell'obbligo di diligenza, da effettuarsi considerando la scrupolosità e l'esattezza seguite nello svolgimento del proprio lavoro.
Ciò, in quanto l'obbligo di diligenza si esplica, di fatto, nel dovere di rispettare non solo tutte quante le prescrizioni concrete che siano in un qualche modo connesse alla prestazione lavorativa oggetto principale dell'obbligazione contrattuale, ma anche quelle fissate dalle norme di legge e di contratto collettivo applicabili al rapporto.
Ciò sembrerebbe escludere i comportamenti che attengono invece alla sfera privata del lavoratore, senza dimenticare, tuttavia, come in più occasioni la giurisprudenza abbia individuato una serie di ipotesi nelle quali il comportamento del lavoratore, anche se posto in essere al di fuori dell'orario di lavoro, deve essere coerente con la diligenza richiesta nello svolgimento dell'attività lavorativa.
Possiamo, dunque, ora procedere con l'analisi del primo parametro di ancoraggio rappresentato dall'"interesse dell'impresa", che qualifica la c.d. diligenza in senso tecnico.
Tale parametro può essere oggetto di due diversi tipi di lettura: (i) da un punto di vista oggettivo, come interesse dell'impresa in sé, che prescinde dalla persona del datore di lavoro; oppure (ii) da un punto di vista soggettivo, come l'interesse del singolo datore di lavoro a utilizzare le prestazioni di lavoro in coerenza con uno specifico contesto organizzativo e produttivo.
Quest'ultima pare essere l'interpretazione scelta anche dalla giurisprudenza più recente, essendo stato evidenziato che, per adempiere al proprio obbligo di diligenza, non basta che il lavoratore metta a disposizione dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma è necessario e indispensabile che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro l'uso effettivo e proficuo delle sue energie. Ciò comporta che, ai fini della configurabilità della violazione dell'osservanza della diligenza richiesta dall'interesse dell'impresa, è necessario che tale interesse sia stato specificatamente indicato dai soggetti preposti, dovendosi escludere che il lavoratore sia tenuto a rivolgersi ad altri.
Il secondo parametro menzionato dall'art. 2104 c.c. riguarda, invece, il superiore "interesse della produzione nazionale", che tuttavia risulta essere molto meno utilizzato e rilevante ai fini della valutazione dell'adeguatezza e correttezza della prestazione lavorativa, visto che la soppressione dell'ordinamento corporativo, cui tale parametro è sempre stato strettamente connesso, ha indotto la dottrina maggioritaria a ritenerlo ormai implicitamente abrogato. A ciò si aggiunga, inoltre, come la qualificazione di "superiorità" di tale interesse lo renda, di fatto, completamente svincolato da qualsiasi assetto contrattuale, dissociandolo dagli interessi specifici dell'organizzazione in cui ha ragione di inserirsi un determinato rapporto di lavoro.

Contenuto del dovere di diligenza
L'attività plasmante degli effettivi contorni giuridici, propria dell'apporto giurisprudenziale, ci ha consegnato, nel tempo, un quadro definitorio più o meno stabile, di quelle che potrebbero essere ritenute le condotte violative tipiche del dovere di diligenza del lavoratore.
La violazione di tale obbligo potrebbe, invero, certamente conseguire ad una condotta caratterizzata da negligenza o imprudenza, ma, nondimeno, potrebbe a buon diritto essere connessa anche all'adozione di un comportamento tecnicamente inadeguato rispetto alle regole di comune esperienza.
La norma, inoltre, va interpretata estensivamente, in quanto pone in capo al lavoratore l'obbligo di eseguire con diligenza anche quei comportamenti di carattere strumentale e complementare rispetto all'obbligazione di lavoro, anche qualora posti in essere al di fuori dell'orario e/o del contesto lavorativo, potendo a tal fine rilevare in sede di valutazione complessiva del rispetto del dovere dipendente dell'obbligo di diligenza, anche in senso disciplinare.
Ciò, in quanto, come visto, il carattere extra-lavorativo di un comportamento non esclude a priori la possibilità di valutare a più livelli la condotta serbata dal lavoratore, specialmente se la natura della prestazione dovuta impone allo stesso di non assumere determinati atteggiamenti o porre in essere determinate azioni.
Ecco, allora, che si moltiplicano gli esempi di condotte ritenute violative dell'obbligo di diligenza, quali:
il comportamento di una lavoratrice addetta di un supermercato, condannata per il reato di furto tentato commesso dalla medesima in un altro supermercato, dove si era recata fuori dall'orario di lavoro (Cass. n. 5428/1987);
così come la condotta di un dipendente bancario trovato in possesso di sostanze stupefacenti al ritorno da un viaggio in Thailandia (Cass. n. 5321/1988);
ovvero il comportamento di un lavoratore che aveva detenuto, in ambito extralavorativo, un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio (Cass. n. 8132/2017);
piuttosto che la condotta di un dipendente bancario che abbia emesso assegni privi di copertura bancaria, evidenziandosi come, la peculiarità del lavoro bancario richieda l'affidamento, non solo del datore di lavoro, ma anche del pubblico nella correttezza dei funzionari anche al di fuori dell'orario di lavoro (Cass. n. 11437/1995);
o anche quello di un dipendente delle Poste che ha patteggiato per il reato di violenza sessuale, dove è stata attribuita rilevanza al forte disvalore sociale dei fatti e alle ripercussioni mediatiche dell'evento, nonché al ruolo del dipendente quale coordinatore di circa trenta unità addette al recapito (Cass. n. 2168/2013);
o ancora quello di un dipendente delle Poste che ha patteggiato per il reato di usura ed estorsione, dove è stato ritenuto rilevante il requisito di affidabilità richiesto per lo svolgimento di un pubblico servizio, anche se svolto in regime privatistico (Cass. n. 3136/2015).
Va in ogni caso sottolineato come la violazione dell'obbligo di diligenza estrinsecata mediante condotte che costituiscono reato possa rilevare anche qualora le stesse siano state realizzate prima dell'instaurazione del rapporto lavorativo, laddove vengano giudicate con sentenza di condanna e risultino incompatibili con il vincolo fiduciario che caratterizza un dato rapporto di lavoro (Cass. n. 24259/2016).
La diligenza del lavoratore deve, inoltre, essere valutata anche nell'esecuzione dei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro a un'utile prestazione. Senza dimenticare come, in capo al lavoratore, venga posto anche un obbligo di diligenza "preparatoria", richiesta, ad esempio, durante le pause di lavoro al fine di facilitare il corretto adempimento dell'obbligo di lavoro; o all'inizio del turno di lavoro per l'attività necessaria a indossare l'abbigliamento di servizio (Cass. n. 9215/2012).
Al contrario, l'omissione di una condotta non prevista contrattualmente né utile ai fini delle condotte complementari o accessorie alla prestazione non integra alcuna violazione dell'art. 2104 (Cass. n. 1978/2016). E così, ad esempio, la Suprema Corte ha considerato illegittimo il licenziamento di un dipendente a cui era stato contestato di non aver allertato il datore della presenza di un soggetto estraneo e in stato di disagio psichico che si intratteneva con altri dipendenti sul luogo di lavoro e durante l'orario lavorativo, atteso che tale obbligo di vigilanza non era stato oggetto di accordo contrattuale né inerente alle mansioni espletate.
Qualche cenno sul dovere di obbedienza
Il datore di lavoro ha il potere di impartire, durante lo svolgimento del rapporto, una serie di disposizioni volte a garantire l'esecuzione e la disciplina del lavoro, precisando anche, di volta in volta, il contenuto della prestazione lavorativa.
Egli può, nell'esercizio del potere di direzione, impartire direttive che riguardano le scelte economico-produttive dell'azienda, il mutamento di mansioni, le ristrutturazioni, le riconversioni aziendali, i trasferimenti dei dipendenti.
Questo potere, rientrante nel generale principio di libertà di organizzazione dell'attività dell'impresa garantito dall'art. 41 Cost., può essere esercitato dal datore di lavoro in via diretta o indiretta, mediante propri collaboratori, ma sempre nel rispetto di alcuni limiti essenziali volti a tutelare la libertà e la dignità personale del prestatore.
Ecco allora che il secondo indice parametrale posto dall'articolo 2104 c.c. richiama l'obbligo per il lavoratore di osservare, nell'esecuzione della prestazione, le disposizioni e la disciplina del lavoro impartiti dall'imprenditore e dai suoi collaboratori sul piano gerarchico, rappresentando, dunque, il dovere di obbedienza, non un elemento accessorio del contratto di lavoro, ma una delle modalità con cui deve essere adempiuta l'obbligazione lavorativa.
E pur tuttavia, la soggezione del lavoratore al dovere di obbedienza non può ritenersi totalizzante ed illimitata, dovendo la stessa essere circoscritta entro i limiti previsti dalla legge, dai contratti collettivi, dalle norme comunitarie e da altre fonti di diritto (in primis, gli stessi regolamenti aziendali) volti a impedire l'esercizio arbitrario del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro.
In particolare, la soggezione al dovere di obbedienza sussiste solo nella misura in cui il potere direttivo del datore di lavoro sia esercitato nelle forme ed entro i limiti consentiti dall'ordinamento, dovendo la facoltà del datore di organizzare e dirigere il lavoro nell'impresa, con la conseguente soggezione dei lavoratori alle scelte datoriali, essere gestita in maniera funzionale alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell'impresa (Cass. n. 1892/2000).
Al contrario, sono da ritenersi illegittimi e, quindi, possono essere disattesi senza che tale comportamento costituisca violazione del dovere di obbedienza, gli ordini del datore di lavoro che si palesino totalmente privi di fondamento logico o che non presentino alcun collegamento funzionale con l'organizzazione produttiva dell'impresa (Cass. n. 24334/2013), con conseguente obbligo per il dipendente di disattenderli.
Ad esempio, la giurisprudenza ha qualificato come in violazione degli standard di diligenza imposti dall'art. 2104 c.c. il comportamento di un impiegato delle Poste che, obbedendo in modo acritico agli ordini fraudolenti del suo superiore, aveva posto in essere una condotta di falsa autenticazione delle sottoscrizioni di clienti erogando bonifici relativi a prestiti a soggetti diversi dagli aventi diritto (Cass. n. 13149/2016).
Tali considerazioni, dunque, ci traghettano, quasi in maniera naturale, alla disamina dell'ulteriore dovere proprio del rapporto di lavoro subordinato, concretizzato nel c.d. obbligo di fedeltà del lavoratore.

Obbligo di fedeltà in generale
L'obbligo di fedeltà, posto dall'articolo 2105 c.c. in capo al lavoratore, comporta il rispetto di due distinti divieti: da una parte, il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore (c.d. divieto di concorrenza); e, dall'altra, il divieto di divulgare notizie riguardanti l'organizzazione e i mezzi di produzione, oppure di utilizzare tali notizie per recare pregiudizio all'impresa (c.d. obbligo di riservatezza).
Tale obbligo di fedeltà si inserisce, dunque, negli obblighi di protezione della sfera giuridica del creditore della prestazione e, più in particolare, nell'ambito dei generali principi di correttezza e di buona fede nell'adempimento delle obbligazioni, così come previsti dagli articoli 1175 e 1375 c.c..
Tale portata estensiva comporta che l'obbligo di fedeltà si estenda anche a quei comportamenti che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell'impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso (Cass. n. 25759/2017).
Se così è, sulla scorta del collegamento instaurato tra il dovere di fedeltà ed i principi di correttezza e di buona fede, il lavoratore sarà tenuto ad astenersi, oltre che dai comportamenti indicati dall'articolo 2105 c.c., anche da qualsiasi altro comportamento che possa concretizzarsi in condotte sleali rispetto alle finalità e agli interessi dell'impresa, di fatto concretizzandosi, per molti, in un vero e proprio dovere di leale cooperazione lavorativa, incombente sul dipendente anche al di fuori dell'orario di lavoro, nonché durante la sospensione del contratto.
Non può, tuttavia, non evidenziarsi come tale orientamento non riscontri unanimità di consenso, essendo diverse le posizioni differenziali e le perplessità rilevate da parte della dottrina e della stessa giurisprudenza.
È stato, infatti, osservato come, nel nostro ordinamento, non trovi cittadinanza la configurazione di un obbligo generale di fedeltà e come il modesto contenuto precettivo della norma non individui un generale dovere di astenersi da tutto ciò che potrebbe essere pregiudizievole per il datore di lavoro o per l'azienda, per cui l'ambito di estensione dell'obbligo non può essere dilatato oltre gli specifici precetti espressamente contemplati dalla previsione di legge.
Ne discende che, per tali commentatori, il dovere di fedeltà sarà rilevabile esclusivamente entro i confini propri dell'ambito precettivo dell'articolo 2105 c.c., potendo al più, l'autonomia contrattuale (individuale o collettiva) delle parti, validamente stabilire piccole estensioni operative, senza tuttavia comportare un'estensione generalizzata ed incontrollata della portata normativa, che rischierebbe di tramutarsi in contenitore evanescente, di difficile compatibilità con la voluntas legis e l'impianto dispositivo di riferimento.
Obbligo di fedeltà e divieto di concorrenza
Oltremodo varia e sempre in costante aggiornamento è la casistica giurisprudenziale sui comportamenti che possono portare a una violazione dell'obbligo di fedeltà, nelle sue due sopramenzionate articolazioni.
Il divieto di concorrenza, in particolare, che a norma dell'art. 2105 c.c., costituisce uno dei contenuti tipici dell'obbligo di fedeltà, impone al lavoratore di astenersi, proprio per il fatto di essere ancora in servizio, dal compiere affari, per conto proprio o di terzi, che siano in concorrenza con l'attività dell'impresa o che possano arrecarle un danno, potendo implicare lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite nello svolgimento del rapporto.
Il caso più frequente che integra la violazione del divieto di concorrenza è senza dubbio quello relativo alla costituzione, da parte del dipendente, di una società avente a oggetto lo svolgimento della medesima attività imprenditoriale del datore di lavoro ovvero che operi nel medesimo settore produttivo o commerciale.
Tale comportamento viene ritenuto illegittimo anche in caso di attività meramente preparatoria e progettuale, indipendentemente dall'effettiva operatività della società concorrente o dall'esistenza di un profitto per il lavoratore o di un danno per il datore di lavoro, rilevando a tal fine anche prestazioni rese a titolo meramente occasionale.
In altri termini, già la semplice costituzione di una società avente oggetto sociale coincidente con quello del datore di lavoro viene ritenuta come produttiva di una lesione, sebbene solo potenziale, agli interessi del datore, essendo sufficiente a integrare la violazione dell'obbligo anche il solo compimento di un atto idoneo ad arrecare pregiudizio all'imprenditore (Cass. n. 19096/2013), quand'anche non integri un atto di concorrenza sleale in senso stretto (Cass. n. 2239/2017; conf. Corte appello Genova, sez. lav., n. 97/2017).
Il divieto di cui in discorso riguarda la concorrenza svolta dal prestatore nel corso del rapporto di lavoro attraverso lo sfruttamento di conoscenze acquisite grazie al rapporto stesso, e non già quella svolta, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro (Cass. n. 18459/2014; Cass. n. 13394/2004).
Ne deriva che non può configurarsi l'illecito previsto da detta norma qualora i comportamenti denunziati siano successivi alla cessazione del rapporto di lavoro (Trib. Bologna n. 690/2006; Cass. n. 3301/1985). L'attività concorrenziale post cessazione può infatti essere limitata solo con un apposito patto rispettoso dei limiti dell'art. 2125 c.c.
Integrano altresì la violazione del divieto di concorrenza i casi di storno della clientela (Cass. n. 2822/1990) o di dipendenti, di amministrazione di una società concorrente (Cass. n. 11657/1990), di acquisizione in nome proprio o tramite un prestanome di quote di una società concorrente.
Con riferimento poi alla rilevanza del divieto di concorrenza dopo la cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento e prima della reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, lo svolgimento di un'attività professionale nell'arco di quel periodo alle dipendenze di una impresa concorrente integra la violazione del dovere di fedeltà e ciò anche se, in precedenza, tale attività era stata tollerata (Cass. n. 9925/2009). Così come è vincolato al rispetto degli obblighi di fedeltà il lavoratore collocato in CIGS a zero ore (Cass. n. 5929/2008) o durante il periodo di preavviso fino alla cessazione del rapporto (Cass. n. 299/1988).
L'obbligo di fedeltà è stato, invece, progressivamente esteso dalla giurisprudenza a qualsiasi attività capace di porsi in contrasto con l'interesse del datore di lavoro.
Ad esempio, è stata ritenuta violativa del divieto di concorrenza la condotta dell'addetto alle vendite porta a porta di cosmetici che propone contestualmente anche prodotti assicurativi. In questo caso, nonostante la totale diversità di prodotto, tale comportamento è stato comunque considerato capace di orientare la clientela verso un prodotto differente da quello del datore (Cass. n. 7529/1995); o l'acquisto e la successiva vendita di quote azionarie del maggior concorrente della società datrice di lavoro da parte del dipendente (Cass. n. 2474/2008, sebbene, in tale caso, la Suprema Corte abbia ritenuto ingiustificato il licenziamento poiché la condotta aveva leso esclusivamente gli interessi dei soci di maggioranza e non quelli della società datrice di lavoro).
Inoltre, il dipendente che durante il normale orario di lavoro presta attività a favore di terzi, lucrando la retribuzione, mentre finge di svolgere il lavoro che gli era stato affidato, non viola solo l'obbligo di fedeltà, ma pone in essere anche una condotta rilevante sotto il profilo penale, integrando gli estremi del reato di truffa (Cass. n. 5629/2000).
Una ricca casistica riguarda infine i comportamenti del lavoratore assente per malattia.
A tale proposito, la giurisprudenza ha affermato che lo svolgimento di altra attività lavorativa, prestata meno a titolo oneroso, da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il licenziamento per violazione sia del divieto di diligenza che di quello di fedeltà, laddove tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, oltre che nel caso in cui la medesima attività, valutata con un giudizio ex ante relativo alla patologia e alla natura delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (Cass. n. 21253/2012; Cass. n. 12902/2017).
In senso conforme (Cass. n. 19187/2016), si è ritenuto che i comportamenti, anche solo potenzialmente idonei a pregiudicare la rimessione in salute e la ripresa dell'attività lavorativa, integrino una violazione dei principi di buona fede, diligenza e fedeltà.
Dovere di riservatezza
Come evidenziato in precedenza, la seconda parte dell'art. 2105 c.c. prevede, quale distinta ipotesi di violazione dell'obbligo di fedeltà, il dovere del lavoratore di non divulgare notizie riguardanti l'organizzazione e i mezzi di produzione, oppure di farne un uso pregiudizievole per l'impresa.
Il dovere di riservatezza non si riferisce alle conoscenze che di volta in volta vengono a integrare il bagaglio professionale del lavoratore, bensì quelle notizie che rimangono estrinseche a tale know-how, che hanno carattere prettamente confidenziale e che riguardano essenzialmente l'organizzazione dell'impresa.
Il contenuto concreto del divieto riguarda, dunque, a titolo esemplificativo: le notizie concernenti le modalità tecniche per l'esercizio dell'impresa, l'utilizzazione di scoperte e invenzioni, le caratteristiche tecniche e di rendimento dei macchinari, i progetti di modificazione o di rinnovamento degli impianti, l'organizzazione della pubblicità o della concorrenza nei riguardi di altre imprese, i bilanci non ancora pubblicati, le delibere dei consigli di amministrazione, la corrispondenza, i rapporti con i fornitori e i clienti in genere, i rapporti con le autorità amministrative, con gli enti pubblici, con le associazioni sindacali e il trattamento del personale.
Va nondimeno evidenziato come il generico obbligo di non divulgare documenti aziendali sia distinto dallo specifico obbligo di segretezza concernente aspetti caratterizzanti e significativi della realtà aziendale (Cass. n. 12804/2017).
Non viene, invece, ritenuta violativa dell'obbligo di riservatezza la divulgazione di fatti inerenti alle attività illecite poste in essere dal datore (ad esempio, illeciti fiscali o di natura penale) (Cass. n. 8077/2014; Cass. n. 519/2001; Cass. n. 6501/2013), così come è parimenti ritenuta lecita la diffusione di notizie relative alle condizioni di lavoro, da parte di un lavoratore nella sua qualità di sindacalista o di politico e nell'esercizio del diritto di critica (Trib. Milano 23 marzo 2005). Si badi però che l'esercizio di tale diritto è ritenuto legittimo solo se condotto nel rispetto della verità oggettiva, in quanto, in caso contrario, la lesione del decoro datoriale può provocare anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, che il dipendente può essere tenuto a risarcire (Cass. n. 11220/2004).
E' stato inoltro precisato, come i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza di tutela della persona umana, debbano essere rispettati anche nel caso in cui la critica venga espressa nella forma della satira, con la conseguenza che, ove tali limiti siano superati, «con l'attribuzione all'impresa datoriale o ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio», il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costituitivi della fattispecie penale della diffamazione (Cass. n. 7091/2001).
Analogamente, operando un difficile bilanciamento tra il dovere di fedeltà e il diritto di critica, la giurisprudenza ha ritenuto in violazione dell'art. 2105 c.c. il comportamento del lavoratore che abbia esercitato il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare anche un danno economico (Cass. n. 21362/2013).
È stato altresì considerato in contrasto con il dovere di fedeltà il comportamento del lavoratore che sottrae dei documenti aziendali riservati (Cass. n. 12528/2004). Tuttavia, anche recentemente, la Suprema Corte non ha riscontrato la medesima violazione per il caso in cui un lavoratore, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, produca copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, dovendosi ritenere prevalente il diritto alla difesa in giudizio rispetto alle esigenza di riservatezza dell'azienda e tenuto conto che la corretta applicazione della normativa processual-civilistica è idonea ad impedire che i documenti aziendali siano effettivamente divulgati (Cass. n. 25682/2014; Cass. n. 3038/2011).
La ratio del dovere di riservatezza si può rinvenire nell'esigenza di tutelare l'integrità dell'impresa nei confronti della concorrenza, che potrebbe essere agevolata dalla conoscenza dei meccanismi produttivi; ma talvolta può essere collegata al pregiudizio che potrebbe derivare al datore dalla comunicazione di informazioni che denigrano l'azienda.
Controversa è invece la durata di tale divieto.
Dottrina e giurisprudenza si interrogano se tale divieto si estingua unitamente all'estinzione del rapporto di lavoro ovvero, in considerazione della natura dell'interesse protetto, perduri in capo al lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro fino a quando permanga l'esigenza per cui esso è finalizzato.
La giurisprudenza, anche se piuttosto risalente, parrebbe aderire al primo orientamento, muovendo dal presupposto che tale divieto rientri all'interno del più ampio obbligo di fedeltà che presuppone la sussistenza del rapporto di lavoro e che cessa al cessare di esso (Cass. n. 3011/1991).
La dottrina maggioritaria ritiene, invece, che la natura dell'interesse protetto è tale da far ritenere che il divieto in questione persista in capo al lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto, fino a quando permanga l'esigenza cui esso stesso è finalizzato.
L'inosservanza dei suddetti divieti comporta una responsabilità del prestatore di lavoro di natura contrattuale, responsabilità che coesiste con quella penale per il delitto di rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.), con quella prevista dagli artt. 98 e 99 del Codice della Proprietà Intellettuale (D.Lgs. n. 30/2005), nonché eventualmente, sussistendone i presupposti, anche con la responsabilità extracontrattuale, per concorrenza sleale.
Considerazioni conclusive
L'ordinamento nostrano, all'interno del sinallagma contrattuale regolativo del rapporto lavorativo, pone, accanto alla principale obbligazione del lavoratore di offrire la propria prestazione lavorativa conformemente alle mansioni assegnate, secondo l'orario di lavoro concordato e nel luogo stabilito, una serie di ulteriori obblighi aggiuntivi, niente affatto autonomi e accessori, ma costituenti, in sé, una concreta specificazione e integrazione della corretta prestazione della forza lavoro.
Sono i doveri di diligenza, di obbedienza e di fedeltà del lavoratore, che trovano la propria traduzione normativa, in ambito codicistico, negli artt. 2104 e 2105 c.c. e che costituiscono, di fatto, una specificazione applicativa, in ambito lavorativo, dei principi di cui agli artt. 1175, 1176 e 1375 c.c.
Ciò comporta, a caduta, la conseguenza per cui l'obbligo di diligenza previsto dall'art. 2104 c.c., invero, richiamando il principio generale di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, debba essere valutato con ampio e complessivo riguardo alla natura dell'attività esercitata, sostanziandosi, il contenuto stesso dell'obbligo, non solo nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico), ma anche nell'esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro ad un'utile prestazione.
In tal senso, allora, l'obbligo di diligenza si caratterizza, di volta in volta, in relazione alla natura della prestazione oggetto delle mansioni in concreto affidate, crescendo proporzionalmente, man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente, il livello di intensità richiesta.
E pur tuttavia, la soggezione del lavoratore a tale dovere prestazionale non può ritenersi totalizzante ed illimitata, dovendo la stessa essere circoscritta entro i limiti previsti dalla legge, dai contratti collettivi, dalle norme comunitarie e da altre fonti di diritto (in primis, gli stessi regolamenti aziendali) volti a impedire l'esercizio arbitrario del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro.
Medesima considerazione valga per l'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2015 c.c., siccome comportante, quale espressione dei principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c,, l'obbligo del lavoratore di astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ovvero crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
Non può, tuttavia, non evidenziarsi come tale orientamento non riscontri unanimità di consenso, essendo stato, infatti, osservato come, nel nostro ordinamento, non trovi cittadinanza la configurazione di un obbligo generale di fedeltà e come il modesto contenuto precettivo della norma non individui un generale dovere di astenersi da tutto ciò che potrebbe essere pregiudizievole per il datore di lavoro o per l'azienda, per cui l'ambito di estensione dell'obbligo non può essere dilatato oltre gli specifici precetti espressamente contemplati dalla previsione di legge.

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Camilla Insardà

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