Il CommentoSocietà

Società in house pluripartecipata e condizioni legittimanti il mantenimento dell'affidamento diretto di un servizio pubblico

La Corte di giustizia dell'Unione europea si è recentemente pronunciata sulla questione della eurocompatibilità o meno della permanenza dell'affidamento diretto di un servizio pubblico a favore di una società originariamente qualificabile in house providing, la quale sia risultata, nel corso dell'esecuzione dell'appalto pubblico, priva del requisito del controllo analogo a seguito di un'operazione societaria di aggregazione

di Rossana Mininno

La Corte di giustizia dell'Unione europea si è recentemente pronunciata sulla questione della eurocompatibilità o meno della permanenza dell'affidamento diretto di un servizio pubblico a favore di una società originariamente qualificabile in house providing, la quale sia risultata, nel corso dell'esecuzione dell'appalto pubblico, priva del requisito del controllo analogo a seguito di un'operazione societaria di aggregazione.

Il modello organizzativo dell'in house providing: positivizzazione ed elementi tipizzanti

Un esempio emblematico della relatività e storicità dell'antinomia tra affidamento diretto e tutela della concorrenza è l'in house providing, modello organizzativo di gestione diretta del servizio pubblico tramite cui la Pubblica Amministrazione reperisce prestazioni rivolgendosi a un ente distinto sul piano formale, ma assimilabile, sul piano sostanziale, a un prolungamento organizzativo della medesima Amministrazione: si tratta, da un punto di vista prettamente ontologico, di un modello organizzativo opposto a quello dell'esternalizzazione (outsourcing).

L'istituto dell'in house providing è stato coniato a livello pretorio con l'intento di coniugare il principio di auto-organizzazione delle autorità pubbliche con la tutela della concorrenza nelle ipotesi in cui beneficiario dell'affidamento sia un soggetto societario formalmente distinto dall'ente pubblico affidante.

Principio - quello di auto-organizzazione - in virtù del quale è riconosciuta in capo alle autorità pubbliche la facoltà di organizzare e svolgere compiti di interesse pubblico attraverso proprie risorse amministrative, tecniche ed economiche senza alcun obbligo di rivolgersi all'esterno (Corte giust. UE, 13 novembre 2008, causa C-324/07; 10 settembre 2009, causa C-573/2009; 8 dicembre 2016, causa C-553/15).

La declinazione dell'istituto de quo risale all'anno 1999: in occasione del noto caso Teckal (cfr. Corte giust. UE, 18 novembre 1999, causa C-107/98) i Giudici europei - chiamati a pronunciarsi sull'interpretazione dell'articolo 6 della direttiva 92/50/CEE - hanno individuato le condizioni legittimanti l'affidamento diretto del servizio pubblico in deroga alle regole generali imperniate sul modello di selezione del contraente tramite procedura competitiva a evidenza pubblica, condizioni de facto presupponenti la mancanza di un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante e affidatario: la Pubblica Amministrazione è legittimata a procedere ad affidamenti diretti di appalti o concessioni a soggetti dotati di distinta personalità giuridica nei casi in cui la medesima Amministrazione affidante eserciti sull'affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (elemento c.d. strutturale) e, nel contempo, il soggetto affidatario svolga, prevalentemente, attività intra moenia a favore dell'ente pubblico affidante (elemento c.d. funzionale).

Il presupposto - individuato dai Giudici europei nel caso Teckal - della mancanza di un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante e affidatario è stato declinato, nella giurisprudenza nazionale, in termini di relazione organica (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1; Corte cost., 20 marzo 2013, n. 46 ): la società in house costituisce una «longa manus dell'ente pubblico affidante secondo un modello di organizzazione interno, articolato nel modo stimato più adatto per giungere a operare» ( Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2020, n. 964 ) e «agisce come un vero e proprio organo dell'Amministrazione dal punto di vista sostanziale (e, per questo, è richiesto il requisito del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi dall'amministrazione aggiudicatrice e della destinazione prevalente dell'attività dell'ente in house in favore dell'Amministrazione stessa)» ( Cons. Stato, Sez. II, 24 luglio 2020, n. 4728 ).

I requisiti di conio giurisprudenziale, la cui sussistenza è ritenuta necessaria affinché una società possa essere definita in house e, conseguentemente, risultare affidataria diretta di appalti pubblici, hanno trovato una definizione positiva in sede di recepimento delle direttive europee in materia di contratti pubblici dell'anno 2014.

Nel nostro ordinamento la trasposizione dell'istituto dell'in house providing dal piano giurisprudenziale a quello normativo è avvenuta con il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 ("Codice dei contratti pubblici"), mediante il quale il legislatore nazionale ha fissato positivamente i requisiti che la società in house deve possedere e - in linea con le corrispondenti previsioni delle direttive eurounitarie (cfr. articolo 12 della direttiva n. 24/2014/UE - c.d. Direttiva appalti, articolo 17 della direttiva n. 23/2014/UE - c.d. Direttiva concessioni e articolo 28 della direttiva n. 25/2014/UE - c.d. Direttiva settori speciali) - ha eccettuato il modello dell'in house dall'applicazione delle regole del Codice dei contratti pubblici, positivizzando le condizioni che lo rendono configurabile.

In seguito il legislatore è intervenuto - in chiave tipologica - introducendo l'archetipo normativo della società in house in sede di emanazione del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" - c.d. TUSP), provvedimento di attuazione della delega conferita con la legge 7 agosto 2015, n. 124 ("Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche") «al fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza, con particolare riferimento al superamento dei regimi transitori» (art. 18, co. 1) e volto al riordino strutturale della disciplina delle partecipazioni pubbliche in società in capitali.

Per quanto attiene alla forma e all'oggetto sociale per le società in house valgono le medesime limitazioni valevoli, in generale, per le società a partecipazione pubblica: le società alle quali le Pubbliche Amministrazioni possono partecipare devono essere «costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa» (art. 3, co. 1); l'oggetto sociale non può prevedere lo svolgimento di «attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle […] finalità istituzionali» proprie della P.A. (art. 4, co. 1); le attività consentite sono esclusivamente quelle tassativamente previste dal medesimo TUSP (cfr. art. 4, co. 2).

La partecipazione di capitali privati nella compagine societaria è ammessa, in via eccezionale, a condizione che sia «prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l'esercizio di un'influenza determinante sulla società controllata» (art. 16, co. 1).

La disposizione de qua, come chiarito dai Giudici amministrativi, «non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le "prevedono". Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che "prescrivono" e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente "prevedono" la partecipazione. […] Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, nell'ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti» ( Cons. Stato, Sez. III, 25 febbraio 2020, n. 1385 ).

Per quanto attiene, invece, agli elementi tipizzanti la società in house è tenuta a operare «in via prevalente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti» (art. 4, co. 4): la prevalenza è declinata con riferimento al fatturato e in termini percentuali, dovendo lo statuto societario prevedere che «oltre l'ottanta per cento del fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti […] affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci» (art. 16, co. 3).

Il Consiglio di Stato ha ritenuto l'eurocompatibilità della disposizione che sancisce il limite quantitativo di fatturato, in quanto, «in conformità alla direttiva UE 2014/23, ha lo scopo di assicurare che il funzionamento della società in house sia improntato ad una regola interna in grado di conformarne l'operatività» ( Cons. Stato, Sez. V, 20 gennaio 2020, n. 444 ): il mancato rispetto di detto limite costituisce una «grave irregolarità» (art. 16, co. 4), la quale «è suscettibile di essere sanata dalla società in house ai sensi del comma 5, optando tra la rinunzia a una parte dei rapporti con soggetti terzi e conseguente scioglimento dei relativi contratti – sicché i contratti con i terzi eccedenti il limite di legge non possono dirsi neanche affetti, a monte, da nullità – e la rinunzia agli affidamenti diretti da parte dell'ente o degli enti pubblici soci» (Cons. Stato n. 444/2020 cit.).

Altro elemento tipizzante la società in house è il controllo analogo, intendendosi tale «la situazione in cui l'amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata» (art. 2, co. 1, lett. c).

Il controllo analogo è suscettibile - nell'ipotesi in cui la società in house sia partecipata da una pluralità di Pubbliche Amministrazioni - di esercizio in forma congiunta (cfr. Corte giust. UE, Sez. III, 13 novembre 2008, causa C-324/07 e 10 settembre 2009, causa C-573/07).

Il TUSP definisce ‘controllo analogo congiunto' «la situazione in cui l'amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi» (art. 2, co. 1, lett. d).

Per quanto attiene alle condizioni in presenza delle quali il requisito del controllo analogo possa ritenersi soddisfatto in caso di società in house partecipata da una molteplicità di enti pubblici non è indispensabile che ciascuna Amministrazione partecipante «detenga da sola un potere di controllo individuale» sulla società, essendo sufficiente, al fine della configurabilità del controllo analogo congiunto, che «ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi» della società (Corte giust. UE, Sez. III, 29 novembre 2012, cause riunite C-182/11 e C-183/11).

La giurisprudenza nazionale ha ulteriormente chiarito che al fine della qualificazione di una società in house è sufficiente la verifica della sussistenza di un controllo esercitato da un socio pubblico di maggioranza, non essendo normativamente richiesta, per il caso di controllo analogo esercitato congiuntamente da più Amministrazioni, «la coincidenza di queste ultime con tutte quelle titolari di una partecipazione al capitale sociale» ( Cass. civ., Sez. Un., 1 ottobre 2021, n. 26738 ).

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia eurounitaria

Con l'ordinanza n. 7161 del 18 novembre 2020 i Giudici della Quarta Sezione del Consiglio di Stato - chiamati a pronunciarsi, in sede giurisdizionale, con riferimento alla (perdurante) legittimità dell'affidamento diretto del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani in ambito provinciale a una società per azioni in origine qualificabile come in house, la quale abbia, tuttavia, perso, a seguito di un'operazione societaria di aggregazione, i requisiti del controllo analogo pluripartecipato rispetto a taluno degli originari enti locali che avevano affidato il servizio - hanno sollevato «questione di pregiudizialità» ai sensi dell'articolo 267 del TFUE.

Nella fattispecie scrutinata la società in questione, inizialmente a totale partecipazione pubblica e a capitale ripartito tra i Comuni della Provincia interessata, ha dovuto, versando in stato di crisi, ricercare - tra le altre società a partecipazione pubblica di gestione di servizi pubblici attive sul mercato italiano - un soggetto adatto a concludere un'operazione aggregativa ai sensi dell'articolo 1, comma 611, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)").

Norma - quest'ultima - finalizzata, tra l'altro, al «contenimento della spesa» pubblica mediante la limitazione, rectius la «razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute» dagli enti territoriali, da attuare anche attraverso la «aggregazione di società di servizi pubblici locali di rilevanza economica» (art. 1, co. 611, lett. d, legge n. 190/2014).

Per l'ipotesi di successione, «a seguito di operazioni societarie effettuate con procedure trasparenti, comprese fusioni o acquisizioni», di un operatore economico all'originario concessionario l'articolo 3-bis, comma 2-bis, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 ("Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo"), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, ha stabilito che il nuovo operatore economico «prosegue nella gestione dei servizi fino alle scadenze previste».

Il punctum dolens rilevato dai Giudici amministrativi ha riguardato l'eurocompatibilità del modello di subentro riveniente dal combinato disposto delle citate disposizioni, modello in virtù del quale l'oggetto della pubblica gara indetta per la selezione dell'operatore economico con cui effettuare l'aggregazione sarebbe limitato all'attribuzione del pacchetto azionario della società deputata allo svolgimento del servizio e non comprenderebbe (anche) l'affidamento del servizio.

Pertanto, i Giudici del Consiglio di Stato, dopo aver osservato che «lo scopo ultimo delle norme di diritto europeo […] è quello di promuovere la concorrenza» e che «questo risultato nell'affidamento dei servizi pubblici si raggiunge, in termini sostanziali, quando più operatori competono, o possono competere, per assicurarsi il relativo mercato nel periodo di riferimento, indipendentemente dalla qualificazione giuridica dello strumento con il quale ciò avviene», hanno sollevato «questione di pregiudizialità» ai sensi dell'articolo 267 del TFUE e formulato il seguente quesito: «se l'art. 12 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014 osti ad una normativa nazionale la quale imponga un'aggregazione di società di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a seguito della quale l'operatore economico succeduto al concessionario iniziale a seguito di operazioni societarie effettuate con procedure trasparenti, comprese fusioni o acquisizioni, prosegua nella gestione dei servizi sino alle scadenze previste, nel caso in cui: (a) il concessionario iniziale sia una società affidataria in house sulla base di un controllo analogo pluripartecipato; (b) l'operatore economico successore sia stato selezionato attraverso una pubblica gara; (c) a seguito dell'operazione societaria di aggregazione i requisiti del controllo analogo pluripartecipato più non sussistano rispetto a taluno degli enti locali che hanno in origine affidato il servizio di cui si tratta».

La decisione della Corte di giustizia eurounitaria: sentenza del 12 maggio 2022, causa C-719/2020

I Giudici europei, dopo aver riprodotto il testo dell'articolo 12 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici (e che abroga la direttiva 2004/18/CE), hanno richiamato l'articolo 72 della medesima direttiva, il quale individua le ipotesi in cui i contratti relativi ad appalti pubblici «possono essere modificati senza una nuova procedura d'appalto»: tra questi il legislatore eurounitario ha incluso il caso di mutamento del soggetto aggiudicatario, avvenuto durante il periodo di vigenza dell'appalto pubblico e dovuto alla successione, «in via universale o parziale, a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, acquisizione o insolvenza»; il nuovo operatore economico, tuttavia, deve soddisfare «i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato ad eludere l'applicazione» della direttiva (art. 72, co. 1, lett. d, n. ii).

Come rilevato dai Giudici europei, l'ambito di applicazione di tale disposizione «è limitato all'ipotesi in cui il successore dell'aggiudicatario originale prosegua l'esecuzione di un appalto pubblico che è stato oggetto di una procedura di aggiudicazione iniziale conforme ai requisiti imposti dalla direttiva 2014/24».

Esaurita la (necessaria) premessa normativa, i Giudici della Corte di giustizia hanno ritenuto che il mutamento della compagine sociale della società (originariamente) affidataria dell'appalto pubblico non sia una vicenda neutra: «l'acquisizione di detta società da parte di altro operatore economico, durante il periodo di validità dell'appalto in parola, è tale da costituire un cambiamento di una condizione fondamentale dell'appalto che necessiterebbe di indire una gara».

Il mutamento de quo sarebbe suscettibile di «comportare che l'ente affidatario non possa più essere in pratica assimilato ai servizi interni dell'amministrazione aggiudicatrice […] non potendosi più ritenere che tale amministrazione aggiudicatrice ricorra alle proprie risorse».

Pertanto, ove si tratti di un appalto pubblico «inizialmente affidato ad un ente «in house», senza gara», la società che sia succeduta all'aggiudicatario originario è legittimata a proseguirne l'esecuzione «solo dopo essere stata designata come aggiudicataria di detto appalto, al termine di una procedura di aggiudicazione conforme ai requisiti della direttiva 2014/24/UE» .

Conclusivamente i Giudici europei dichiarato quanto segue: «La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa o a una prassi nazionale in forza della quale l'esecuzione di un appalto pubblico, aggiudicato inizialmente, senza gara, ad un ente «in house», sul quale l'amministrazione aggiudicatrice esercitava, congiuntamente, un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi, sia proseguita automaticamente dall'operatore economico che ha acquisito detto ente, al termine di una procedura di gara, qualora detta amministrazione aggiudicatrice non disponga di un simile controllo su tale operatore e non detenga alcuna partecipazione nel suo capitale ».