Casi pratici

C.T.U. ed esame contabile: le S.U. del 2022 precisano poteri e nullità

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Come si connota la consulenza tecnica d'ufficio nell'ambito delle prove civili e come impatta la violazione del principio del contraddittorio sulla validità dell'istituto? Quali sono i poteri del C.T.U. messi in evidenza dalle Sezioni Unite nel febbraio 2022? Quali sono le delimitazioni fornite dalla stessa pronuncia?


In sede civile, la consulenza tecnica di ufficio è disciplinata ai sensi del combinato disposto degli artt. 61-64 e 191-201 c.p.c., nonché ai sensi degli artt. 13-23 e 89-92 disp. att.
Nel codice del 1865, in luogo della consulenza tecnica di ufficio (d'ora in avanti anche semplicemente c.t.u.), era codificata la "perizia" quale vero e proprio mezzo di prova, ammissibile anche per iniziativa d'ufficio del giudice. Il Legislatore del 1942, con una precisa scelta di campo, elimina l'istituto della perizia e introduce la figura della c.t.u. collocandola nell'ambito dell'istruzione probatoria ma all'esterno dei mezzi di prova in senso proprio. Peraltro, il relativo statuto giuridico viene tratteggiato, solo in via indiretta, per il tramite della figura del consulente tecnico, quale ausiliare del giudice e quale autore dell'attività di indagine peritale.
Tale connotazione prescrittiva e logistica è rimasta pressoché immutata anche alla luce della novella n. 69/2009, salvo che per un'accelerazione dei tempi processuali e una maggiore tutela del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti. Secondo una parte della dottrina, al mutamento terminologico e di collocazione logistica dell'istituto, non seguirebbe alcuna differenza di natura strutturale rispetto alla previgente "perizia". La consulenza tecnica d'ufficio avrebbe mantenuto la natura di mezzo di prova con tutte le conseguenze a questo connesse. Tra cui, in primis, la stretta connessione con le allegazioni delle parti e, quindi, con l'onere della prova. Per altra parte della dottrina, invece, il Legislatore del '42 avrebbe inciso profondamente sulla connotazione dell'istituto, trasformandone l'essenza da mezzo di prova a mero ausilio del giudice nella comprensione e valutazione del materiale probatorio già acquisito alla causa. Da parte sua, la giurisprudenza sembra aver recepito entrambi i filoni di pensiero, affermando che, se nella generalità dei casi la c.t.u. costituisce uno strumento di ausilio del giudice, qualora per l'accertamento dei fatti risulti indispensabile il ricorso a particolari cognizioni, competenze ed esperienze tecniche, la consulenza tecnica d'ufficio può assurgere a fonte oggettiva e autonoma di prova.
Già nella vigenza del codice del '65, la dottrina accostava la perizia (mezzo di prova in senso proprio) alla testimonianza tecnica (che invece configurava un semplice ausilio istruttorio del giudice); in alcuni casi sovrapponendo le due figure; in altre ipotesi, facendole coesistere nei rispettivi ambiti di operatività.
È proprio da tale commistione che si è evoluta l'attuale figura del consulente tecnico (d'ufficio), quale esperto "deducente" (che, al pari del testimone tecnico, agisce quale ausiliare del giudice nella valutazione ex post di fatti già provati nella loro ontologica esistenza) ovvero, a seconda dei casi, esperto "percipiente" (che, al pari del (ex) perito, opera quale mezzo di prova, accertando ex ante la sussistenza o meno dei fatti controversi). Da qui la possibile definizione della consulenza tecnica d'ufficio quale istituto a "geometria variabile", a seconda della veste (deducente ovvero percipiente) ricoperta dal consulente incaricato del suo espletamento. In particolare, nel caso in cui il consulente si limiti a "illuminare" e "consigliare" il giudice fornendogli le necessarie nozioni per apprezzare i fatti (già acquisiti al processo), il consulente svolgerà un ruolo "deducente" e la relativa attività si sostanzierà in un mezzo istruttorio in senso improprio, ossia in uno strumento utilizzato dal giudice per sua propria scienza, al fine di integrare le proprie cognizioni tecniche durante il corso dell'istruttoria. In questa accezione, peraltro, si è sostenuto che il giudice sarebbe libero di utilizzare anche solo alcune parti della consulenza tecnica. Per converso, nel caso in cui al consulente vengano richieste particolari competenze tecniche, in assenza delle quali lo stesso accertamento dei fatti sarebbe impossibile, allora la consulenza tecnica si connoterebbe come fonte di prova in senso proprio.
Esempi tipici di tale tipologia di consulenza sono l'esame contabile e la consulenza a oggetto scientifico. Nel primo caso, la giurisprudenza è sempre più propensa a connotare l'attività dell'esperto come mezzo probatorio, in quanto l'attività accertativa non si presenta soltanto in chiave strumentale ma si configura come "il" mezzo per rilevare (o negare l'esistenza) dei fatti di causa (come ad esempio l'esame contabile contratti bancari). Nel secondo caso, il cui esempio emblematico è costituito dalle indagini di tipo immunoematologico e genetico (DNA-test), si sostiene che il giudice può (anzi deve) utilizzare pienamente le risultanze ivi contenute, alla stregua di ogni altra prova libera, condividendone i medesimi requisiti di autonomia e autosufficienza, e potendo fondare anche da sola il convincimento decisorio del giudice.

Consulente tecnico d'ufficio: requisiti, incarico, doveri
Requisiti: al pari del custode e degli altri ausiliari, tutti collocati nel Capo III, del Titolo I dedicato agli organi giudiziari, il consulente è "istituzionalmente" estraneo all'ordine giudiziario, pur prestando "su chiamata" attività di collaborazione e supporto in favore dell'amministrazione della giustizia.
La denominazione "consulente tecnico" sta a indicare le caratteristiche precipue di tale figura: è un professionista, dotato di "particolari competenze tecniche", che presta la propria attività intellettuale a supporto del giudice, per singoli atti o per tutto il processo qualora quest'ultimo lo ritenga necessario (art. 61 c.p.c.).
Le particolari competenze che deve possedere il consulente spaziano - senza limitazioni aprioristiche - in tutti i settori dello scibile umano anche quando queste concernano l'utilizzo di nuove strumentazioni tecnologiche, con esclusione delle competenze giuridiche, in quanto (assunte) nella piena disponibilità cognitiva del giudice. La nomina del consulente è rimessa al potere discrezionale del giudice (sul punto si tornerà diffusamente al paragrafo successivo). Il giudice può anche nominare più di un consulente, ma soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo preveda (ex combinato disposto artt. 61, comma 1, e 191, comma 2, c.p.c.). L'ipotesi deve essere eccezionale e può ricorrere solo per l'estrema difficoltà dell'indagine e la conseguente necessità di affrontare questioni che comportino diverse competenze tecniche in un unico accertamento ovvero per assicurare il deposito della relazione in un termine ragionevole. Nel caso di nomina plurima, l'incarico si presume collegiale. Ma è ammessa anche la nomina plurima ma non collegiale, ciò può avvenire nel caso in cui il giudice, nella medesima ordinanza, ammetta più consulenze coordinate e contestuali, ma separate e distinte in ragione della distinta materia affidata. Nel caso in cui la nomina plurima sia anche collegiale, tutti i consulenti devono partecipare alle indagini e devono contribuire con i rispettivi apporti "tecnici" a redigere un'unica relazione finale. Tale unicità documentale è stata ritenuta possibile solo in caso di accordo unanime. In caso di disaccordo, si ritiene ammissibile la coesistenza di una relazione scritta (frutto del pensiero maggioritario) con allegate separate opinioni dei periti dissenzienti oppure, in assenza di una maggioranza di pensiero, la predisposizione di più pareri tecnici motivati, redatti da ciascuno dei membri del collegio. In tali casi, il giudice sarà sempre e comunque libero di preferire (ove occorra) alla relazione di maggioranza quella della minoranza oppure il parere espresso dall'unico perito dissenziente; salvo il limite dell'adeguata e non contraddittoria motivazione. Una volta nominato, il consulente viene investito di un particolare status pubblicistico, con tutti i diritti, i doveri e le responsabilità a questo connessi. In particolare il consulente tecnico deve essere terzo e imparziale, e cioè non deve essere legato a nessuna delle parti del processo, analogamente a quanto prescritto per il giudice. Tali presupposti sono garantiti (rectius, mirano a essere garantiti) dalla legge con la previsione della nomina da parte di un organo terzo (il giudice) e con il meccanismo dell'astensione-ricusazione previsto, ex combinato disposto degli artt. 51 e 52 c.p.c., con riferimento al giudice ed estensibile per analogia al consulente. I consulenti tecnici d'ufficio sono di norma iscritti in un albo speciale appositamente tenuto presso ogni Tribunale. La verifica - in sede di istanza e di aggiornamento dell'albo - dei prescritti requisiti morali e professionali è demandata al comitato di tecnici istituto presso ogni Tribunale e presieduto dal Presidente (artt. 13-18 e 146 disp. att.).
Se normalmente il giudice sceglie il consulente tra i soggetti iscritti all'albo del Tribunale di appartenenza, in alcuni casi può anche decidere di nominare - per le peculiari caratteristiche professionali ovvero per ragioni di incompatibilità ambientale - un esperto esterno ovvero iscritto all'albo di altro distretto. In questo caso, visto il carattere ordinatorio delle norme che disciplinano la scelta del consulente tecnico, non è prevista alcuna sanzione, né tanto meno la nullità per gli atti compiuti dall'esperto nominato al di fuori dell'albo di riferimento. Unico adempimento rimesso al giudice è la richiesta di un parere preventivo del Presidente del Tribunale, nonché l'indicazione nel provvedimento di nomina delle motivazioni alla base della scelta. Con la riforma del 2009, è stato reso più stringente il controllo e la vigilanza sulla distribuzione degli incarichi tra gli iscritti all'albo; infatti a norma del novellato art. 23, comma 1, disp. att., gli incarichi devono essere equamente distribuiti con il limite, per ogni professionista, del 10% del numero complessivo degli incarichi affidati. La nomina del consulente si perfeziona con l'accettazione dell'incarico e, secondo alcuni, con il relativo giuramento. In relazione all'accettazione della nomina, occorre operare una distinzione a seconda che il professionista sia "battitore libero" ovvero iscritto all'albo speciale. Il professionista esterno, una volta ricevuta la nomina ai sensi dell'art. 192 c.p.c. può liberamente decidere di rifiutare l'incarico; mentre se è iscritto all'albo non può sottrarsi all'ufficio, salvo il caso che ricorrano i motivi di astensione di cui all'art. 51 c.p.c.; in tale caso dovrà farne apposita denuncia o istanza al giudice che l'ha nominato, e ciò entro i tre giorni precedenti l'udienza fissata per la comparizione e il giuramento. Qualora il giudice riconosca l'effettiva sussistenza dei suddetti motivi di astensione, provvede con ordinanza non impugnabile a norma dell'art. 192 c.p.c. Secondo le medesime modalità, le parti possono proporre al giudice istruttore istanza di ricusazione del consulente, per i medesimi motivi previsti - ai sensi dell'art. 52 c.p.c. - in relazione al giudice. Il consulente, una volta nominato, deve accettare l'incarico nell'udienza di comparizione all'uopo fissata. In tale sede deve prestare giuramento di «bene e fedelmente adempiere alle funzioni affidategli» «al solo scopo di fare conoscere ai giudici la verità». Si ritiene che il rifiuto di prestare giuramento equivalga a rifiuto di accettare l'incarico. Si assume altresì che il giuramento possa essere validamente prestato in un momento successivo al conferimento dell'incarico e addirittura al momento del deposito della relazione scritta. Il consulente tecnico d'ufficio deve adempiere il proprio mandato con la diligenza tecnica richiesta per le prestazioni d'opera professionale a norma del combinato disposto degli artt. 1176 e 2236 c.c.
Nell'espletamento dell'incarico, il consulente può avvalersi dell'ausilio di esperti specialisti al fine di acquisire, mediante gli opportuni e necessari sussidi tecnici, tutti gli elementi di giudizio. Si sostiene, in particolare, che non sia necessaria una preventiva autorizzazione del giudice, né una nomina formale, purché il consulente assuma la responsabilità morale e scientifica dell'operato del collaboratore. È comunque fatta salva una valutazione ex post da parte del giudice in ordine alla necessità del ricorso a tale esperto "esterno". Il consulente tecnico deve espletare il proprio incarico, con professionalità, probità e indipendenza, prestando adeguato e pronto ausilio al giudice nella comprensione e nella valutazione dei fatti di causa ovvero, nel caso di indagine a scopo probatorio, fornendo il proprio contributo diretto all'accertamento dei fatti materia del contendere. Inoltre, in considerazione del particolare status e funzione assunti, il consulente ha l'obbligo di rispettare, oltre che i tempi processuali all'uopo prescritti, il principio del contraddittorio e il diritto di difesa delle parti, e ciò con riferimento a tutte le fasi dell'incarico, dall'avvio dell'indagine, all'acquisizione dei documenti e/o informazioni, sino alla sua conclusione, con il deposito di una relazione comprensiva delle osservazioni e istanze dei privati. Nel caso in cui il consulente non adempia, o non adempia correttamente, ai suddetti doveri incorre in responsabilità di natura penale, civile ovvero disciplinare.

Responsabilità
A norma dell'art. 64 c.p.c. la responsabilità del consulente tecnico è codificata essenzialmente secondo tre profili. Il primo, operando un mero rinvio alle corrispondenti disposizioni del codice penale, configura la responsabilità penale del consulente alla stessa stregua di quella del perito in ambito penale. Si tratta soprattutto di delitti contro l'amministrazione della giustizia e contro l'attività giudiziaria. Il secondo, a seguito dell'art. 25 della legge n. 281/1985, delinea una nuova ipotesi di reato contravvenzionale, applicabile in ogni caso, qualora «il consulente tecnico incorra in colpa grave nell'esecuzione degli atti che gli sono richiesti» e punibile con la pena alternativa e rafforzata con la pena accessoria della sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte (ai sensi dell'art. 35 c.p.). Il terzo attiene al profilo risarcitorio. Infatti l'art. 64, ult. comma, c.p.c. riconosce in ogni caso alle parti il risarcimento del danno subito. Si è discusso in dottrina e giurisprudenza circa la natura giuridica della responsabilità civile del consulente. L'orientamento prevalentemente qualifica tale responsabilità come aquiliana o da fatto illecito, piuttosto che contrattuale, e ciò sulla base della natura di pubblico servizio dell'attività espletata dal consulente. Il riferimento alla colpa grave ha fatto discutere gli interpreti in merito ai confini di "imputabilità" del danno. In particolare se da una parte viene sostenuta un'interpretazione restrittiva del dato codicistico, ritenendo il consulente responsabile solo in caso di dolo o colpa grave, secondo una diversa cordata di pensiero la responsabilità del consulente dovrebbe essere trattata in base ai canoni normalmente applicati al prestatore d'opera intellettuale, e ciò secondo il principio di gradazione della responsabilità ex combinato disposto degli artt. 2236 e 1176, comma 2, c.c. Infatti, connotata secondo i dettami dell'art. 1176, comma 2, c.c., la responsabilità del consulente può essere ravvisata, con una diversa gradualità, in tutte le fasi dell'incarico, dagli iniziali adempimenti burocratici (giuramento, convocazione ecc.) alla fase dell'acquisizione documentale e/o dei rilievi tecnici e obiettivi, sino alla fase della valutazione conclusiva e del deposito della relazione finale. Si sostiene, inoltre, che la colpa del consulente possa configurarsi, ai fini risarcitori, anche nell'errore ovvero nell'imperizia come tale, soprattutto quando le risultanze della consulenza siano state assunte dal giudice a fondamento della propria decisione. Imprudente, in ultimo, dovrà essere considerato il consulente che esprima la sua valutazione senza le dovute competenze specifiche, ovvero senza l'ausilio di specialisti in materia. La prova della responsabilità del consulente incombe sulla parte che si assume lesa. Questo rende evidenti le difficoltà pratiche connesse all'esercizio dell'azione civile di responsabilità, in termini di prova del danno subito e del relativo nesso causale (immediato e diretto) rispetto alla condotta del consulente. Da ultimo occorre rilevare che l'operato del consulente tecnico potrà formare oggetto di autonoma azione disciplinare (artt. 19-21 disp. att.) per violazione di regole ricollegabili in generale a quelle contenute nel codice deontologico dell'albo di appartenenza. In tale caso sarà attivato un apposito procedimento in danno dei consulenti che «non hanno tenuto una condotta morale (e politica) specchiata e non hanno ottemperato agli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti».

Compenso
A fronte dell'incarico espletato, il consulente ha diritto di percepire dalle parti il compenso, e ciò al pari del custode, dell'interprete e degli altri ausiliari. La relativa obbligazione grava in solido sulle parti medesime.
Sulla liquidazione dei compensi si pronuncia lo stesso giudice che ha nominato il/i consulente/i, e ciò mediante decreto motivato avverso il quale le parti interessate (consulente incluso) possono proporre ricorso in opposizione, entro venti giorni dall'avvenuta comunicazione. La materia è oggi regolata, anche con riferimento al procedimento di liquidazione e all'eventuale fase di opposizione, ai sensi D.P.R. n. 115/2002 (Testo Unico in materia di spese di giustizia) e successive modifiche e integrazioni. In questa sede giova evidenziare che a fronte dell'ormai consolidato principio - ricavato dall'art. 91 c.p.c. - che esclude ogni onere di pagamento in capo alla parte vittoriosa, si sta profilando un nuovo filone di pensiero secondo il quale l'obbligo di pagamento ha natura solidale e il consulente può agire autonomamente nei confronti di ognuna delle parti, tanto in mancanza di un provvedimento giudiziale di liquidazione quanto nel caso in cui il decreto emesso a carico di una parte sia rimasto inadempiuto, e ciò in quanto il criterio della soccombenza opera solo inter partes e, come tale, non è opponibile al consulente. Inoltre, in caso di compensazione delle spese giudiziali è ormai principio consolidato che la parte provvisoriamente onerata delle spese del consulente, poi risultata soccombente, non possa ripetere, neppure per la metà, le spese anticipate che restano definitivamente a suo carico.

Poteri del giudice e c.t.u.: ammissione
L'ammissione in giudizio della c.t.u. è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice. Può avvenire su istanza di parte ovvero d'ufficio. A norma del combinato disposto degli artt. 61 e 191 c.p.c., il giudice qualora lo ritenga necessario, nomina il consulente, formulando nella medesima ordinanza i quesiti oggetto dell'incarico. L'ordinanza in questione può essere quella di cui all'art. 183, comma 7, c.p.c. ovvero altra successiva ordinanza. Il giudice è libero di valutare ex ante la necessità ovvero l'opportunità di ammettere o non ammettere (se richiesto dalle parti) ovvero di disporre o non disporre d'ufficio la c.t.u.; e tale valutazione discrezionale è, di regola, insindacabile in cassazione qualora sufficientemente e non contraddittoriamente motivata in relazione al punto di merito da decidere. È stato, peraltro, sostenuto che la discrezionalità di cui si avvale il giudice, per quanto assoluta, è comunque di natura tecnica; pertanto il giudice, anche qualora si ritenga in grado di affrontare senza ausilio di un esperto i quesiti posti dall'accertamento dei fatti di causa, deve necessariamente confrontarsi con il divieto di scienza privata e con il dovere di motivare adeguatamente tale scelta, e ciò a tutela, rispettivamente, dei principi costituzionali della terzietà del giudice e del diritto al contraddittorio. In alcuni casi, il ricorso al consulente tecnico viene configurato come obbligatorio. Si tratta soprattutto di ipotesi in cui la natura tecnica dei quesiti è stata considerata ragione sufficiente per rendere obbligatorio l'ausilio tecnico di un esperto. Peraltro, codificando un principio ormai consolidato in giurisprudenza, l'art. 38 del decreto legge 6 luglio 2011 n. 98, ha introdotto in tema di controversie su domande di invalidità/inabilità, l'art. 445-bis c.p.c. intitolato accertamento tecnico preventivo obbligatorio.
L'ordinanza con la quale il giudice decide di ammettere o di rigettare l'istanza sulla c.t.u. (o la sua rinnovazione) non può essere oggetto di impugnazione immediata, sia in secondo grado che (a maggior ragione) in cassazione, potendo la censura essere rivolta esclusivamente attraverso la successiva impugnazione della sentenza definitiva, trattandosi di provvedimento privo dei caratteri di definitività e decisorietà in quanto preparatori e strumentali alla futura decisione e in quanto tali sempre revocabili o modificabili dal giudice che li ha emessi. Nell'ottica di risparmio dei tempi processuali, la novella n. 69/2009, a norma dell'art. 191 c.p.c., ha anticipato la formulazione del quesito nell'ambito dell'ordinanza di nomina del consulente. Tale innovazione, già presente nella prassi di alcuni Tribunali, è stata accolta dalla dottrina in maniera difforme.
È stato notato, peraltro, che la nuova disposizione non contiene alcuna sanzione processuale nel caso di omissione dei quesiti nell'ordinanza di nomina, che pertanto potrebbe essere effettuata senza rischio di invalidità anche nell'udienza di comparizione del consulente.

Risultanze
Ai sensi dell'art. 195 c.p.c., una volta esaurita l'attività peritale, le conclusioni del consulente sono recepite nel processo verbale oppure in una relazione scritta. Quest'ultima è obbligatoria nel caso in cui le indagini siano state svolte senza l'intervento del giudice e deve comprendere anche le osservazioni e le istanze delle parti. Una volta depositata la relazione presso la cancelleria del Tribunale competente, le conclusioni peritali sono messe a disposizione del giudice, il quale può decidere se aderirvi oppure dissentire. Il giudice, infatti, non è mai vincolato al parere reso e alle conclusioni espresse dal consulente in relazione ai quesiti oggetto dell'incarico. Tale discrezionalità valutativa, però, soggiace a una precisa condizione di validità e incensurabilità , e cioè la dimostrazione, con adeguata motivazione immune da vizi di logica o di diritto, delle ragioni alla base del dissenso rispetto alle conclusioni della c.t.u. (ovvero nel caso di c.t.u. collegiale non unanime, alle base dell'adesione all'una piuttosto che alla altra tesi). Ma non solo, il giudice deve anche indicare, nell'ambito della medesima motivazione, gli altri elementi probatori o valutativi di cui egli si sia avvalso per giungere alla decisione finale, e ciò proprio in virtù del già citato principio di divieto di scienza privata. Invece, qualora il giudice ritenga di aderire alle conclusioni del consulente, l'onere motivazionale diventa(va) meno stringente; e, in alcuni casi, addirittura superfluo ritenendolo assolto anche con un mero rinvio per relationem alle conclusioni peritali. Negli ultimi tempi, invece, in un'ottica progressivamente incentrata sul "giusto processo", l'orientamento sembra modificato, giungendo a sostenere l'adozione di una particolareggiata motivazione (non importa se in termini adesivi o dissenzienti), ogni qual volta una delle parti ovvero entrambe abbiano criticato le indagini e le conclusioni del consulente con precise e specifiche deduzioni, tali da poter condurre, se fondate, alla formulazione di un giudizio tecnico diverso da quello ricavabile dalla c.t.u. Tale obbligo diventa più rigoroso qualora le parti (secondo il regime ante riforma del 2009) abbiano sviluppato le rispettive censure soltanto dopo il deposito della relazione peritale, producendo - per esempio - specifici elementi di prova, documentale o critica, a supporto della relativa tesi. Tale rigore argomentativo, peraltro, risulta essenziale qualora si verta in tema di c.t.u. quale mezzo autonomo e oggettivo di prova, e ciò anche (se non soprattutto) qualora sia la parte a richiedere l'ammissione del suddetto mezzo di prova, in quanto - per le specifiche connotazioni dei fatti di causa - sia nell'impossibilità oggettiva di adempiere in via diretta al relativo onere probatorio (si pensi al Dna-test in tema di prova o disconoscimento della paternità). In tali casi il giudice non potrebbe, senza violare la legge processuale, limitarsi a respingere l'istanza immotivatamente ovvero imputando - in fase di decisione - alla parte istante il mancato assolvimento dell'onere probatorio.
Alcuni dei suddetti rilievi valgono anche in tema di rinnovazione delle indagini (con lo stesso o con diverso consulente tecnico). Infatti se in linea di principio, stando anche agli attuali approdi della giurisprudenza, il giudice conserva la propria potestà decisoria anche con riferimento a tali attività, è chiaro – sempre nell'ottica del giusto processo – che la rinnovazione della consulenza, accompagnata o meno dalla sostituzione del consulente, soggiaccia agli stessi oneri motivazionali qualora tali attività siano oggetto di specifica istanza di parte. Si pensi al caso di richiesta di rinnovazione della c.t.u. per vizio di nullità delle attività peritali esperite ovvero alla richiesta di sostituzione del consulente, anche in corso di espletamento dell'incarico, qualora si ravvisino motivi di incompatibilità soggettiva, negligenza, imperizia ecc. In tali casi il giudice non può rigettare le relative istanze senza fornire un'adeguata e precisa motivazione in merito, pena la censurabilità in cassazione del relativo operato.

Principio del contraddittorio
L'istituto della consulenza tecnica d'ufficio, così come codificato nel vigente Codice di procedura civile, mira in via di principio a contemperare le necessità istruttorie del giudice con la tutela del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti. Secondo le intenzioni del Legislatore, infatti, l'espletamento della c.t.u. sarebbe dovuto avvenire di norma in «forma semplice e pratica», secondo i principi dell'oralità, dell'immediatezza e dell'economia processuale, «rispondendo direttamente ai quesiti che gli vengono posti»; dovendo risultare come ipotesi eccezionali sia l'espletamento delle indagini peritali in assenza del giudice sia la trasposizione delle risultanze peritali in una relazione scritta. Nella prassi, invece, il rapporto regolaeccezione è stato invertito, con la conseguente necessità - avvertita a livello codificatorio - di approntare una più stringente tutela al diritto di partecipazione e difesa della parti nell'espletamento delle operazioni peritali.
Tre sono i passaggi chiave. Il primo è costituito dall'obbligo del consulente di comunicare alle parti l'avvio delle operazioni peritali, al fine di consentire alle parti e ai rispettivi consulenti tecnici di partecipare a tutte le fasi dell'indagine (art. 91 disp. att.). Il secondo è rappresentato dall'obbligo di includere nella relazione finale le osservazioni e istanze delle parti, e ciò al fine di consentire al giudice di formare il proprio convincimento anche sulla base delle censure mosse dalle parti in merito alle conclusioni del c.t.u. (art. 195 c.p.c.). Il terzo attiene al rispetto del principio della domanda e dell'onere della prova nell'acquisizione delle informazioni e/o documenti e nell'accertamento dei fatti di causa da parte del c.t.u., e ciò sempre nell'ottica di garantire alle parti il rispetto del giusto processo. Tali preclusioni subiscono due temperamenti. Il primo è dato dalla peculiare natura del fatto "dedotto" nella causa, qualora per il relativo accertamento risulti indispensabile il ricorso alle competenze tecniche di un esperto. In tali casi, si sostiene che il consulente possa acquisire ogni elemento necessario e/o utile all'accertamento, purché si tratti di elementi meramente accessori e comunque strettamente connessi all'aspetto tecnico della consulenza e non di fatti immediatamente posti a fondamento delle domande e/o delle eccezioni che devono sempre e comunque essere accertati dalle parti. Il secondo si riscontra nel c.d. fatto notorio ossia nelle «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» (art. 115, comma 2, c.p.c.) che possono essere comunque utilizzate dal giudice per fondare il proprio convincimento.
L'interpretazione data sul punto dalla giurisprudenza è alquanto restrittiva, connotando come "notorio" solo il fatto che una persona di media cultura conosce in un dato tempo e in un dato luogo ed escludendo, per esempio, dal suo cono d'ombra le informazioni assunte da internet, in quanto non assunte come dati incontestabili nelle conoscenze della collettività. La violazione dei suddetti doveri, così come tutte le altre ipotesi di lesione dei principi alla base del "giusto processo", comportano la nullità della c.t.u.

Nullità della c.t.u.
In materia di c.t.u., in assenza di una specifica disposizione al riguardo, si applica il regime della nullità relativa degli atti (art. 157 c.p.c.) e a norma del quale la nullità viene sanata qualora non eccepita entro i termini decadenziali all'uopo previsti. Per giurisprudenza consolidata, nella fattispecie in esame il termine decadenziale è rappresentato dalla prima udienza successiva a quella del deposito della relazione; intendendosi per tale anche un'udienza di mero rinvio. Analizzando l'attuale panorama giurisprudenziale, in disparte gli intenti del Legislatore, si è rilevata una progressiva tendenza a privilegiare l'economia delle risorse probatorie e la salvaguardia tendenziale del fatto compiuto, rispetto alla tutela del principio del contraddittorio e dei connessi diritti di difesa delle parti. Con l'effetto di ridurre a ipotesi di mera irregolarità, condotte del consulente non conformi ai precetti normativi e, quindi, potenzialmente lesive del diritto di difesa delle parti. Casi emblematici sono rappresentati, tra gli altri, dal mancato giuramento del consulente ovvero dalla mancata sottoscrizione del verbale d'udienza nel quale abbia reso il giuramento, in relazione ai quali la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere tale "mancanza" come ipotesi di mera irregolarità, non rilevante ai fini dell'(in)attendibilità dell'attività peritale svolta. Si sostiene, inoltre, che i vizi inerenti l'affidamento dell'incarico ovvero la formulazione dei quesiti rappresentino delle mere irregolarità. Così come, secondo gli ultimi approdi della giurisprudenza, non sarebbe nulla una c.t.u. per mancata comunicazione alle parti delle fasi successive delle indagini peritali, e ciò in quanto detta informativa sarebbe dovuta dal consulente solo con riferimento all'avvio della procedura. Si ritiene, invece, la nullità della c.t.u. nel caso in cui, nell'espletamento dell'incarico, il consulente si sia avvalso di documenti non allegati dalle parti e/o non autorizzati, qualora su tali elementi si sia formato il convincimento del giudice; ovvero nell'ipotesi di consulenza tecnica che, in aperta violazione dei precetti di cui al primo comma dell'art. 194 c.p.c., proceda a un accertamento di fatti, principali o secondari, che non siano dimostrati dalle parti cui compete il relativo onere probatorio (art. 2697 c.c.); e ancora, nel caso in cui il consulente tecnico - nell'effettuare accertamenti ovvero nell'assumere informazioni - venga a eccedere i limiti del mandato peritale. Ma sul punto, un differente orientamento della giurisprudenza sostiene che la consulenza "esorbitante" possa comunque essere utilizzata dal giudice, quale perito peritorum, per trarne materiale di convincimento in ordine ai fatti oggetto di causa. La nullità della c.t.u., se ritualmente eccepita, rende inutilizzabili, in qualsiasi fase e grado, le relative risultanze probatorie o valutative e, qualora il giudice decida di utilizzarle a sostegno del proprio decisum, la stessa sentenza.
Nel caso in cui, invece, la nullità della c.t.u. non venga tempestivamente eccepita, il vizio - qualunque esso sia - viene sanato e il giudice è libero di utilizzarla a fondamento del proprio convincimento, e ciò anche qualora la c.t.u. abbia valenza di fonte autonoma di prova, con tutte le abnormi conseguenze a questo connesse. Alla luce di quanto sopra, emerge chiaro che il discrimen tra nullità e irregolarità della c.t.u. sia da rinvenire nella valutazione (lasciata al libero apprezzamento del giudice) dell'intervenuta violazione, in concreto, del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, e ciò soprattutto nel caso in cui le risultanze peritali (nulle) siano state assunte a fondamento del convincimento del giudice medesimo.

Considerazioni conclusive
Le Sezioni Unite, con la Sentenza resa il I° febbraio 2022, pronunciando su una questione di massima e di particolare importanza, hanno chiarito che in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell'osservanza del contraddittorio delle parti, può: a) accertare tutti i fatti inerenti all'oggetto della controversia il cui accertamento si renda necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali i quali risultano onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio; b) acquisire, anche a prescindere dall'attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a comprovare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d'ufficio; c) acquisire, in materia di esame contabile, ai sensi dell'art. 198 del codice di rito civile, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni; d) l'accertamento di fatti differenti dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio, o l'acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti, è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all'atto viziato o alla notizia di esso; e) l'accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio, che il consulente accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice, viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d'ufficio o, in difetto, è motivo di impugnazione ex art. 161 del codice di procedura civile.