Amministrativo

Tutela sociale degli appalti, quel salto in lungo ( forse ) spiccato con la Legge Delega

Danilo Tassan Mazzocco

di Danilo Tassan Mazzocco

La legge delega in materia di contratti pubblici, approvata lo scorso mese di giugno (la n. 78/22), affronta anche uno dei temi più dibattuti e attuali del diritto vivente degli appalti, quello delle clausole sociali, da inserire nella documentazione di gara e nelle pattuizioni contrattuali che conseguono all'aggiudicazione: tema, questo, dagli importanti risvolti applicativi, destinati a operare non solo sul terreno del rispetto delle regole concorrenziali nell'ambito delle procedure evidenziali di affidamento, ma anche e soprattutto sul piano della tutela sociale del lavoro prestato da tutti coloro che sono chiamati a fornire un contributo, "col sudore della fronte", alla realizzazione di un determinato appalto, perché impiegati alle dipendenze dell'appaltatore.

L'obbiettivo del legislatore delegante traspare piuttosto nitidamente dai lavori preparatori: rafforzare il sistema di tutela del personale salariato utilizzato nell'esecuzione degli appalti, soprattutto con riferimento al momento della successione di rapporti (esce un appaltatore e ne entra un altro), ove la questione si pone, essenzialmente, in termini di salvaguardia occupazionale dei lavoratori in forza al contraente cessato, attraverso un meccanismo di garanzia che consenta loro la possibilità di essere reimpiegati alle dipendenze di quello entrante.

Tale rafforzamento oggi assume anche una dimensione proattiva, stante la dichiarata scelta di "promuovere meccanismi e strumenti anche di premialità per realizzare le pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con disabilità o svantaggiate", e ciò, indirettamente, con lo scopo – questo non dichiarato, ma comunque virtuoso – di orientare il mercato a fini socialmente rilevanti, favorendo e alimentando diffusione e crescita, nell'ambito delle commesse in cui sia controparte una pubblica amministrazione, di imprese interessate a perseguire, nello svolgimento della propria attività economica, anche obbiettivi di responsabilità sociale.

E' già in quest'estensione del perimetro di rilevanza della "questione sociale" nella materia dei pubblici appalti che si coglie uno sforzo sicuramente apprezzabile, volto a traghettare il concetto stesso di clausola sociale verso approdi ancora più tutelanti che nel passato, ove la clausola sociale – alla quale, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, era stato inizialmente assegnato il (solo) compito di garantire il rispetto generalizzato, per i dipendenti degli appaltatori e dei concessionari, delle condizioni economiche e normative fissate dalla contrattazione collettiva, anche al fine di contrastare dinamiche competitive improntate a strategie di dumping sociale – si era poi evoluta fino a diventare strumento di preservazione del posto di lavoro e, quindi, di protezione della stabilità occupazionale dei dipendenti in caso di avvicendamento tra contratti, specie quelli labour intensive, caratterizzati da un'elevata componente di manodopera e frequentati da una popolazione lavorativa particolarmente fragile, a costante rischio di esclusione sociale.

Se il testo in uscita in prima lettura dal Senato ancora rimetteva al legislatore delegato la scelta se configurare l'inserimento da parte delle stazioni appaltanti della clausola sociale all'interno della legge speciale di gara come obbligo ovvero come semplice facoltà, l'intervento della Camera e poi la definitiva approvazione della delega rappresentano espressione, sul punto, di una significativa scelta di campo: obbligo generalizzato di inserimento, sempre e comunque. E qui il passo in avanti lungo la traiettoria di sviluppo normativo dell'istituto appare fin d'ora chiaramente percepibile, per quanto rimesso, nella sua concreta esplicitazione, alle valutazioni che saranno proprie della sede attuativa della delega.

Si consideri infatti che, nel vigente ordinamento dei contratti pubblici (ove il tema è oggetto della disciplina portata dall'art. 50 del Codice del 2016, oltre che delle indicazioni, non vincolanti, rilasciate agli operatori dall'ANAC con le Linee guida n. 13), un tema di inserimento di clausola sociale si pone SOLO nelle concessioni e negli appalti di lavori e servizi diversi da quelli con natura intellettuale, in termini di obbligo, sì, per i contratti ad alta intensità di manodopera, ma in termini di semplice facoltà per tutti quelli in cui il costo della manodopera sia invece inferiore al cinquanta per cento dell'importo totale del contratto.

Vero è che l'inciso "tenuto conto della tipologia di intervento, in particolare ove riguardi beni culturali", che compare nella delega, sembra preludere all'elaborazione, nel decreto attuativo, di una norma-elenco, contenente la catalogazione delle fattispecie al cui ricorrere l'obbligo di inserimento della clausola sociale è in concreto predicato, senza "se" e senza "ma" (le materie escluse dalla sfera di operatività della norma restando invece probabilmente assoggettate a un regime facoltativo, come anche oggi previsto); tuttavia, lo sforzo richiesto al legislatore delegato di enumerare le ipotesi "a inserimento obbligatorio" sembra muoversi nella direzione di un allargamento, rispetto a oggi, della portata dell'obbligo in comparazione con quella riservata alla mera facoltà.

Forse si sarebbe potuto osare di più, nella delega, in relazione a uno dei nervi scoperti dell'attuale disciplina delle clausole sociali "di riassorbimento": quello relativo alla sua possibile estensione "a valle", in modo che a beneficiarne siano anche le maestranze dei subappaltatori impiegati, per l'esecuzione della commessa, nell'ambito di uno o più rapporti derivati dall'appalto principale.

L'ANAC, pur rinvenendo elementi a favore della tesi per cui anche i dipendenti dei subappaltatori, in applicazione della clausola sociale ex art. 50, dovrebbero poter transitare nella forza lavoro dell'esecutore subentrante (quali la ratio della normativa, volta al mantenimento delle posizioni occupazionali dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto, e le interferenze, che pure sussistono, e sono indiscutibili, tra contratto d'appalto e contratto di subappalto), ha ritenuto comunque prevalenti gli argomenti ostativi fondati sul fatto che il legame giuridico, a livello del rapporto principale, risulta in realtà e comunque stretto solo tra committente e appaltatore (non riguarda cioè anche il subappaltatore), lasciando però in ogni caso salva la possibilità di deroga da parte della contrattazione collettiva.

Conclusione, questa, che a molti pare fonte di discriminazione, oltre a implicare un rischio concreto di vanificazione, totale o parziale, degli obiettivi sociali che la normativa si prefigge.

Ciò soprattutto se si considera che il ricorso al subappalto è sempre più diffuso, anche in ragione del superamento dei limiti quantitativi un tempo stabiliti in modo generalizzato dalla normativa domestica e poi rivelatisi in contrasto con il diritto dell'Unione europea.

La delega, sul punto, pare fare "orecchie da mercante", limitandosi ad affermare il principio per cui ai lavoratori in subappalto vanno garantite le stesse tutele economiche e normative "rispetto ai dipendenti dell'appaltatore e contro il lavoro irregolare" (principio, questo, già oggi affermato e normato dall'art. 105, c. 9 del Codice, e di certo non "nuovo", costituendo, fin dagli albori, componente essenziale della disciplina del subappalto, addirittura già nel testo dell'art. 18 della legge n. 55/90: parliamo, dunque, di trentadue anni fa).

di Danilo Tassan Mazzocco, partner di SZA Studio legale

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