Famiglia

La revoca dell’assegnazione della casa familiare non fa sempre scattare l’assegno divorzile

La Cassazione boccia la sentenza d’appello che si limita a valorizzare la sperequazione economica tra gli ex e commisura il contributo al canone di locazione

di Giorgio Vaccaro

Non vi è alcun automatismo tra la revoca del godimento della ex casa coniugale e il riconoscimento di un contributo economico in favore di chi perda questo diritto personale di godimento. Lo ha affermato l’ordinanza 11832 del 5 maggio 2023, con cui la Cassazione, in riforma di un provvedimento della Corte d’appello di Genova, ha escluso il riconoscimento di un assegno divorzile, basato sulla perdita del godimento della casa coniugale e sul presupposto dell’avere la richiedente «verosimilmente» dedicato le proprie energie alla vita familiare.

I giudici di legittimità hanno cassato la pronuncia d’appello rilevando come – per riconoscere il contributo divorzile – ci si sia limitati a «valorizzare la sperequazione economica esistente tra le parti, incrementata dalla riduzione degli oneri di mantenimento dei figli già gravanti sull’ex marito e dalla revoca dell’assegnazione della casa, commisurando l’assegno al canone di locazione» che l’ex beneficiaria della casa coniugale, avrebbe dovuto sostenere. Questo ragionamento non fa un buon uso dei principi espressi dalle Sezioni Unite (sentenza 18287/2018), che ora regolano il riconoscimento dell’assegno divorzile e in forza dei quali «il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza, ma ancorata a un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive» e ancora, ha specificato come «la differenza reddituale, coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, è ormai irrilevante ai fini della determinazione dell’assegno, perché l’entità del reddito dell’altro coniuge non giustifica di per sé la corresponsione di un assegno in proporzione alle sue sostanze».

Alla luce di questi principi, la Cassazione ha rilevato come la pronuncia cassata, errando, non abbia indagato «se le risorse della richiedente fossero effettivamente sufficienti a consentirle una vita dignitosa in autonomia, limitandosi a mettere in relazione il venir meno dell’assegnazione con il dovere dell’ex marito di corrispondere alla moglie una somma per coprire i costi di un canone di locazione». Occorre infatti considerare come «l’assegnazione della casa coniugale abbia la finalità di assicurare l’habitat domestico dei figli minorenni e non già di beneficiare economicamente l’ex coniuge, pur se si tratta di un’utilità suscettibile di apprezzamento economico»; nessun automatismo, dunque, e in più la necessità di valutare, anche in questo caso, come per il riconoscimento vi sia l’obbligo di indagare «sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta di dedicarsi prevalentemente all’attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali» in mancanza dei quali non vi può essere il riconoscimento dell’assegno divorzile.

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