Il processo e la mediazione tra “vero” e “verosimile”
Le ADR come Sistemi Complementari del Processo
In occasione di un recente convegno sull’intelligenza artificiale e la giustizia predittiva ho posto due domande: “la scienza deve dire la verità?” e “la Giustizia deve dire la verità?”. Qui interessa riflettere su quest’ultimo quesito.
Una risposta affrettata sarebbe: sì. Nell’immaginario collettivo la verità viene ritenuta come una serie di giudizi successivi che permettono di rispondere con un Si o un NO all’aderenza di un concetto alla realtà. Viene diffusamente affermato che giustizia significa dare al cittadino ciò che gli è dovuto, e ciò non è necessariamente sinonimo di legale o di buono o di etico. Pertanto, si adatta bene nel sistema computazionale, tecnologico, ove il concetto di giustizia potrebbe esser tradotto nei termini di vero o falso, acceso o spento, esistente o assente, corrispondente o non corrispondente. Ma ciò è vero?
Forse occorre preliminarmente porci un’altra domanda: quale verità si prefigge di raggiungere la Giustizia?
Questa domanda non è un gioco semantico ma ha dei riflessi molto concreti.
Il processo è un sistema organizzativo a struttura formale. Il formalismo del processo assume una doppia valenza poiché identifica sia il contenitore (il processo) sia i suoi contenuti (gli atti processuali) . Le forme sono essenziali e sono direzionate verso lo scopo fondamentale del processo, e cioè quello della tutela dei diritti e del rispetto della legalità
Si noti bene: legalità . Non ho scritto: rispetto della giustizia (come ci si sarebbe aspettato). Infatti, a ben vedere legalità non è sinonimo di giustizia.
Giustizia (quella che di fondo invoca il cittadino quando si affida al processo) è il diritto di ognuno a vedersi attribuito quanto si aspetta. Legalità è il diritto di ognuno a vedersi attribuito quanto gli è dovuto secondo la legge. Quindi, una “cosa” ben diversa.
Il conflitto è parte strutturale dell’essere, è parte inevitabile della complessità della vita e della convivenza. Il conflitto inteso come divergenza e confronto permette all’individuo di crescere, maturare, crearsi una propria identità. Sottolinea continuamente un principio fondamentale: il modo in cui vediamo le cose non è l’unico possibile.
Perché il conflitto non sia distruttivo, non degeneri in scontro violento e non comprometta la coesione sociale ma, anzi, aiuti la crescita, occorre ricondurlo a regole. Ed il processo giudiziario è il sistema organizzativo a struttura formale destinato a disciplinare il conflitto.
Ma la legge è per definizione (e per fortuna) generale ed astratta .
C’è chi ha definito le norme come algoritmi : o è bianco o è nero e se è bianco derivano certe conseguenze e se è nero ne derivano altre. La legge, quindi, non può prevedere l’immensità di grigi che caratterizzano le vicende umane e, cercando di bilanciare il principio della legalità ed il principio di libertà di ogni cittadino, si deve limitare a disciplinare quelle circostanze necessarie per assicurare il benessere della collettività e la migliore organizzazione della società. Galgano ha definito la legge “l’unità elementare del sistema del diritto”. Tanto è vero che si parla di applicazione analogica della legge laddove occorre dare dei contenuti a dei vuoti normativi e dare risposte ad eventi non esattamente categorizzati.
Ebbene, nel processo viene esposta la narrazione dell’attore, che rivendica un diritto violato e pretende che gli venga resa giustizia. Tale narrazione si pone in contrapposizione con la narrazione del convenuto. Vi sono due narrazioni a confronto, narrazioni che contengono dolori, sofferenze, pene silenziose, parole non dette.
Queste narrazioni riproducono una realtà oggettiva? Le scienze cognitive ci hanno ormai insegnato che la realtà che ogni individuo si raffigura è frutto di un complesso lavoro di una rete neurale, influenzato da stimoli ambientali, familiari, esperienze, ecc. Oltre i filtri che selezionano le informazioni esterne vi sono poi meccanismi automatici mentali, veri e propri programmi delle stimolazioni neuronali (sinapsi) installati nella nostra mente (pensiamo all’attenzione selettiva, ai programmi autorafforzanti ed autoconvalidanti, ecc.).
La vita è una continua manipolazione di simboli.
In tale contesto le narrazioni delle parti non potrebbero entrare nel gioco processuale, poiché sarebbe troppo dispersivo e confuso. Occorre un soggetto che traduca dette narrazioni nel linguaggio giuridico e negli schemi processuali: occorre l’Avvocato .
Nel 1921 Pietro Calamandrei ha ben descritto il ruolo dell’Avvocato: “In un sistema giudiziario inevitabilmente complicato com’è quello dei moderni Stati civili, la giustizia non potrebbe funzionare se non esistessero i professionisti legali; poiché le difficoltà del giudicare sarebbero enormemente accresciute, fino a costituire ostacoli in pratica insormontabili, quando il giudice, aboliti gli avvocati, fosse posto a contatto diretto coll’imperizia giuridica e colla mala fede delle parti in causa... Il professionista legale è un prezioso collaboratore del giudice, perché lavora in vece sua a raccogliere i materiali di lite, a tradurre in linguaggio tecnico frammentarie e slegate affermazioni della parte, a trar fuori da queste l’ossatura del caso giuridico e a presentarlo al giudice in forma chiara e precisa e nei modi processualmente corretti; onde in grazia di questo professionista paziente, che nel raccoglimento del suo studio sgrossa, interpreta, sceglie e riordina gli informi elementi fornitigli dal cliente, il giudice è messo in condizione di vedere a colpo, senza perder tempo, il punto vitale della controversia che è chiamato a decidere”.
L’Avvocato, quindi, “lavora” la narrazione del cliente, la inquadra nel contesto normativo e la porta all’ascolto del Giudice. E farà tutto questo dominando la complessità, con lealtà (art. 88 c.p.c.), rispettoso della dignità delle persone e delle regole deontologiche ma ovviamente con spirito competitivo. L’agire dell’Avvocato è infatti un agire strategico, fatto di persuasione. La persuasività del ragionamento giuridico non poggia solo sulla bontà degli enunciati, ma anche sulla organicità con cui il ragionamento è stato impostato, sulla coerenza interna dello stesso, e sull’efficacia dell’esposizione. E poggia anche su un’attenzione particolare a confrontare le narrazioni degli assistiti con lo schema delle norme generali ed astratte delle leggi ordinarie e processuali. Soprattutto processuali .
Negli ultimi decenni, sono divenuti dei pilastri di riferimento primario la velocità e l’efficienza . Soprattutto con le pretese prioritarie del PNRR. Non si contesta che la Giustizia debba essere veloce ed efficiente, anzi. Ma occorre ricordare che la Giustizia non è un’impresa, la velocità non deve tradursi in fretta e l’efficienza deve accompagnarsi all’efficacia nel raggiungimento dello scopo primario della Giustizia: la tutela dei diritti.
Ebbene, l’affanno per rendere sempre più veloce ed efficiente il processo ha determinato nel tempo l’introduzione nel processo ordinario di cognizione un sistema di rigide preclusioni, un sistema rigidamente formalistico. Pensiamo ad es. alle preclusioni iniziali, alla disciplina della contestazione (art. 115 c.p.c.).
Con l’obiettivo di ridurre ulteriormente le tempistiche e concentrare l’attività processuale, la riforma Cartabia (Legge delega n. 206 del 26 novembre 2021 e D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149) è intervenuta spostando il sistema delle preclusioni e delle decadenze prima della prima udienza, creando ulteriori aspetti critici (soprattutto in particolari materie, come in materia di persone, minorenni e famiglia). Ha poi dettato precise regole per la redazione di tutti gli atti processuali.
Senza contare il particolare favore del legislatore verso la trattazione scritta anche delle udienze (sistema avviato nel periodo d’emergenza Covid e poi rimasto), limitando il più possibile l’oralità e la presenza fisica delle parti in aula, e cioè nel luogo preposto per la trattazione e la discussione delle questioni e dei temi controversi. Non solo, ma eliminando anche quella ritualità che da sempre si è rivelata importante per conferire autorità e legittimità al processo giudiziario e per comunicare valori e norme sociali.
Con il D.M. del 7 agosto 2023 n. 110 il legislatore è persino intervenuto per imporre una precisa “definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo”. E ciò per venire incontro alla variabile utilizzata dall’Europa per valutare il funzionamento dei sistemi giudiziari, e cioè la durata dei processi ( PNRR ). In materia amministrativa tale disciplina è già peraltro in vigore dal 2016.
Vi è chi ha scritto che tutto il nuovo sistema di trattazione e di redazione degli atti giudiziari rischia di comportare una limitazione o una menomazione del diritto di difesa del cittadino (si stanno avviando istanze di incostituzionalità di alcune norme della Riforma, in particolare dell’art. 46 disp. att. c.p.c.). Ma se non vi è una violazione del diritto di difesa del cittadino è certo che questi viene sempre più allontanato da quel risultato che egli che sperava di ottenere dalla Giustizia.
Infatti, dopo tutti i filtri formalistici del processo, quali narrazioni giungeranno alla fine al Giudice , il quale dovrà poi dovrà con procedura sillogistica dare ragione o torto ad uno dei contendenti.
Suo compito è infatti ius dicere , che significa affermare un diritto, non necessariamente dare giustizia. Il giudice dovrà affermare o negare un diritto ad un cittadino ponendo a fondamento della propria decisione non quanto acceduto ma le prove proposte dalle parti, i fatti non contestati ed i c.d. fatti notori. Dovrà infatti dire che un soggetto ha ragione (bianco) e l’altro ha torto (nero) richiamando una norma generale ed astratta. Senza tener conto che dinnanzi a lui vi erano vicende umane segnate da errori, incomprensioni, frustrazioni, vicende che volevano esser narrate integralmente e comprese.
Non stupisce che qualcuno dica che “le regole del processo rischiano di diventare sempre di più le regole del conflitto” .
Non stupisce la percentuale indicata dal Ministero che ha verificato che, nel 2018, il 32% delle sentenze civili in Italia avevano definito il processo fermandosi a motivazioni di forma. In altre parole, in un processo su tre il giudice non aveva potuto esaminare le narrative delle parti ma si era dovuto fermare per decidere aspetti formali. E negli altri due processi, il giudice aveva esaminato i fatti non come effettivamente avvenuti ma come provati, provati attraverso quel rigoroso filtro processuale fatto oneri processuali, preclusioni, principi di non contestazione, ecc.
Non stupisce il Rapporto Censis che ha posto in luce che la percentuale di sfiducia degli italiani verso il processo si attesta da anni al 61%. E non solo per la lunghezza ed i costi ma anche per la mancata comprensibilità delle decisioni.
Se ne è reso conto il legislatore con la Legge Delega 26 novembre 2021 n. 206 e con il D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, non solo disponendo risorse cospicue in favore dell’istituto della mediazione ma definendo (per la prima volta) le ADR come Sistemi Complementari del Processo (art. 1 Legge Delega); aumentando le materie obbligatorie per le mediazioni; favorendo la carriera del magistrato che definisce il processo con ordinanza di mediazione o mediante accordi conciliativi (costituenti “indicatori di impegno, capacità e laboriosità del giudice”); dando un più preciso assetto alle mediazioni telematiche ; aumentando le facilitazioni fiscali per le parti che decidono di avviare un procedimento di mediazione; facilitando gli accordi quando una parte è una P.A. ; prevedendo il patrocinio a spese dello Stato anche per i non abbienti; prevedendo ulteriori conseguenze verso chi voglia sottrarsi al procedimento di mediazione , ecc.
Se ne sono accorti i giudici che hanno ammesso che la loro decisione costituisce la risposta residuale che lo Stato deve offrire ai cittadini che confliggono (“la mediazione mira per così dire a rendere il processo la extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse”: Cassazione, III Sezione civile, Pres. Est. Vivaldi, sentenza n. 24629 del 7 ottobre 2015).
Ritornando alla domanda iniziale (la Giustizia deve raggiungere la verità?) possiamo chiaramente rispondere: sì ma alla verità processuale, non alla verità sostanziale. Lo sforzo quotidiano è far coincidere le due verità ma le statistiche non aiutano.
Ma a questo punto, viene da chiedersi se ha ancora senso sapere chi ha ragione e chi ha torto o se è meglio, invece, indagare sui reali interessi delle parti.
Non è meglio passare dalla ricerca della verità alla ricerca della coerenza e riscrivere la storia sino al punto di renderla accettabile e condivisibile da tutti i soggetti coinvolti?
L’istituto della mediazione appare quindi lo strumento più utile per valorizzare la verità sostanziale del cittadino rispetto a quella verità formale, riduttiva e verosimile del processo giudiziario.
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*A cura dell’Avv. Alberto Del Noce - Avvocato del Foro di Torino, Vicepresidente dell’Unione Nazionale delle Camere Civili e Responsabile della Commissione sull’Intelligenza Artificiale dell’Unione Nazionale delle Camere Civili