Amministrativo

A2A, Consulta: concessionari diretti senza obbligo di contratti esterni

La sentenza n. 218 depositata oggi ha dichiarato l'incostituzionalità dell'articolo 177 del Codice dei contratti pubblici

di Francesco Machina Grifeo

L'obbligo a carico dei titolari di concessioni affidate direttamente di esternalizzare tutta l'attività – mediante appalto a terzi dell'80% dei contratti inerenti la concessione stessa e assegnazione del restante 20% a società in house o comunque controllate o collegate – costituisce «una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine» di garantire l'apertura al mercato e alla concorrenza. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 218 depositata oggi (redattrice Daria de Pretis), ha dichiarato l'incostituzionalità dell'articolo 177 del Codice dei contratti pubblici e dell'articolo 1, comma 1, lettera iii), della relativa legge di delega, perché il perseguimento della finalità sopra detta incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione degli interessi dei soggetti coinvolti, a loro volta protetti dalla garanzia dell'articolo 41 della Costituzione.

Il Consiglio di Stato (ordinanza del 19 agosto 2020), giudice rimettente, era investito del ricorso in appello proposto da A2A illuminazione pubblica srl contro l'Anac (e nei confronti del Comune di Cassano d'Adda e di Utilitalia per la riforma della sentenza del Tar Lazio, sezione prima, 15 luglio 2019, n. 9309). A2A lamentava l'illegittimità delle linee guida Anac n. 11 sotto plurimi profili e, in via subordinata, prospettava l'illegittimità costituzionale delle stesse e dell'articolo 177 del codice dei contratti pubblici in riferimento agli articoli 3, 11, 41, 76, 97 e 117 Costituzione.

La decisione ribadisce la possibilità del legislatore di intervenire per limitare la libertà d'impresa in funzione della tutela della concorrenza, nello specifico ponendo rimedio, attraverso gli obblighi di esternalizzazione, al vulnus derivante da passati affidamenti diretti, avvenuti al di fuori delle regole del mercato. Tuttavia, aggiunge che la libertà d'impresa non può subire, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe sacrificando completamente la facoltà dell'imprenditore di compiere le scelte organizzative tipiche della stessa attività imprenditoriale.

La Corte dunque ha ritenuto che il legislatore, stabilendo un obbligo particolarmente incisivo e ampio, ha omesso di considerare non solo l'interesse dei concessionari ma anche quelli dei concedenti, degli eventuali utenti del servizio e del personale occupato nell'impresa. Interessi, che per quanto comprimibili nel bilanciamento con altri ritenuti meritevoli di protezione da parte del legislatore, non possono essere tuttavia completamente ignorati.

"Per quanto la misura prevista possa in astratto apparire idonea rispetto al fine di ripristinare condizioni di piena concorrenza - si legge nella sentenza -, non si può certo dire che con essa il legislatore abbia dato la preferenza al ‘mezzo più mite' fra quelli idonei a raggiungere lo scopo, scegliendo, fra i vari strumenti a disposizione, quello che determina il sacrificio minore (sentenze n. 202 del 2021, n. 119 del 2020 e n. 179 del 2019").

In questa logica, prosegue la Consulta, lo stesso legislatore sarebbe stato tenuto a perseguire l'obiettivo di tutela della concorrenza, "non attraverso una misura radicale e ad applicazione indistinta, ma calibrando l'obbligo di affidamento all'esterno sulle varie e alquanto differenziate situazioni concrete, attenuandone la radicalità, se del caso attraverso una modulazione dei tempi, ovvero limitandolo ed escludendolo, ad esempio, laddove la posizione del destinatario apparisse particolarmente meritevole di protezione, e comunque in definitiva dando evidenza alle circostanze rilevanti in funzione di un adeguato bilanciamento dei due diversi aspetti della libertà di impresa, costituiti, come visto, dalla aspirazione a proseguire un'attività in atto, da un lato, e dall'esigenza di assicurare la piena concorrenza, dall'altro".

Se dunque la previsione legislativa di obblighi a carico dei titolari delle concessioni in essere, a suo tempo affidate in maniera non concorrenziale, può risultare necessaria nella "corretta prospettiva" di ricondurre al mercato settori di attività ad esso sottratti, "le misure da assumere a tale fine non possono non tenere conto di tutto il quadro degli interessi rilevanti e operarne una ragionevole composizione, nella consapevolezza della complessità, come visto, delle scelte inerenti alla tutela da accordare alla libertà di iniziativa economica. Complessità – e quindi difficoltà nella concreta composizione a sistema degli interessi in gioco – che, d'altra parte, non sembra essere sfuggita allo stesso legislatore, che ha prorogato più volte il termine per l'adeguamento, fissandolo, da ultimo, al 31 dicembre 2022".

"Dall'illegittimità costituzionale dell'art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 – conclude la Corte - deriva l'illegittimità costituzionale dei successivi commi 2 e 3. Come precisato in precedenza, il comma 2 fissa il termine per l'adeguamento delle concessioni a quanto previsto dal comma 1, mentre il comma 3 disciplina la verifica del rispetto dei limiti di cui al predetto comma 1. Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 integrano dunque la normativa recata dal comma 1, costituendo un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro nell'obbligo di affidamento previsto nel comma 1, e devono pertanto seguire la stessa sorte. Va perciò dichiarata in via consequenziale l'illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell'art. 177, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.

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