Famiglia

Alle Sezioni unite la possibilità di estendere al convivente more uxorio la partecipazione agli utili dell'impresa familiare

Da valutare la possibilità di giungere in via interpretativa alla inclusione del convivente tra i soggetti cui è applicabile l'articolo 230 bis c.c.

di Valeria Cianciolo

Con l'ordinanza interlocutoria del 24 gennaio 2023 n. 2121 sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite civili, per la soluzione della seguente questione di massima di particolare importanza: "se l'art. 230 bis, comma terzo, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità."

Il caso
Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto non applicabile la normativa contenuta nell'articolo 230 bis c.c. ritenendo circostanza ostativa il rapporto di lavoro subordinato part-time che ha formalmente legato per un breve periodo la ricorrente all'azienda agricola e che questa fosse dipendente, con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, presso la Regione.
La Suprema Corte sottopone all'attenzione delle Sezioni Unite la possibilità di giungere in via interpretativa alla inclusione del convivente more uxorio tra i soggetti cui è applicabile l'articolo 230 bis c.c., poiché il convivente more uxorio che anche se non "familiare" è meritevole di ottenere la tutela minima offerta dall'articolo 230 bis c.c. a tutela del proprio diritto fondamentale al lavoro avendo lavorato per molti anni nell'impresa agricola del convivente more uxorio.

Le questioni
In virtù della disciplina introdotta con l'articolo 230 - bis cod. civ., il familiare (coniuge, parente entro il terzo grado o affine entro il secondo) che presta in modo continuativo la propria attività di lavoro nell'impresa o nella famiglia gode di una complessiva posizione partecipativa, che si sostanzia nell'attribuzione di diritti patrimoniali e diritti a contenuto amministrativo gestorio. In particolare, sotto il profilo patrimoniale, ha diritto al mantenimento in relazione alla condizione patrimoniale della famiglia, agli utili in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché, sempre in detta proporzione, ai beni acquistati con essi, agli incrementi dell'azienda anche in ordine all'avviamento.
L'incipit dell'articolo 230-bis cod. civ. ("Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto…") svela il carattere residuale dell'istituto.
La giurisprudenza è stata orientata nel senso di considerare irrilevante il requisito della convivenza dei familiari, non menzionato dalla norma e non in linea con l'evoluzione dell'istituto della famiglia.
Agli inizi degli anni '90, la Suprema Corte affermava: "L'art. 230- bis cod. civ., che disciplina l'impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 230-bis nella parte in cui esclude dall'ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell'impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un'equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum". (Cass. civ., Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204).
Negli ultimi anni, però, non sono mancati alcuni pronunciamenti favorevoli (cfr. per tutti, Cass. civ., Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632: "Le prestazioni lavorative tra conviventi "more uxorio" rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d'impresa familiare. L'art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.") che, nell'individuare la ratio legis nella volontà di tutelare il lavoro prestato all'interno di gruppi uniti da legami affettivi "familiari", hanno sostenuto l'applicabilità analogica della norma alle cosiddette coppie di fatto.
Anche in dottrina si fronteggiano due filoni: uno propende per un'interpretazione letterale e quindi esclude l'applicazione al convivente more uxorio dell'art. 230 bis cod. civ. ed un altro estende tale disciplina alla famiglia di fatto. Ma la tutela offerta al convivente si riduce all'azione d'ingiustificato arricchimento ex articolo 2041 cod. civ. (Cass. civ., Sez. I, Sent., 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida al dir., n. 12, 2016, p. 64).

L'intervento della legge Cirinnà
La questione sembrava sopita con l'articolo 1, conna 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Legge Cirinnà) che ha inserito all'interno del codice civile, l'articolo 230 - ter cod. civ. (rubricato "diritti del convivente"), per disciplinare e riconoscere i diritti del convivente nell'attività di impresa attraverso una partecipazione agli utili e ai beni con essi acquistati, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. Il riconoscimento di tali diritti, così come nell' articolo 230 - bis cod. civ., deve essere commisurato al lavoro prestato dal convivente nell'impresa.
Per quanto riguarda l'ambito soggettivo, innanzitutto, occorre comprendere se l'articolo 230-ter si riferisca al solo convivente registrato o possa estendersi anche a quello non registrato, secondo la distinzione operata dal comma 37 della legge n. 76/2016: l'assenza della formale registrazione non tutelerebbe la posizione del convivente non registrato, discriminandola rispetto al coniuge e rispetto al convivente registrato. Conclusione dunque, inaccettabile, perché determinerebbe un'ingiustificata discriminazione tra prestazioni di lavoro identiche rese in situazione di convivenza.
La norma concepita dal legislatore del 2016 ha posto la posizione del convivente in una situazione ben diversa rispetto a quella prevista dall'articolo 230 - bis cod. civ. Infatti, dalla lettura della norma, si evince che il convivente non ha:
• il diritto al mantenimento da parte del titolare dell'impresa;
• il diritto del familiare di partecipare alle decisioni relative all'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa;
• il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda.
La norma stabilisce che il convivente presti la propria "opera", ossia la propria attività professionale, con carattere di "stabilità", ma non specifica la modalità o l'intensità. Tale attività deve essere prestata necessariamente all'interno dell'impresa dell'altro convivente, senza fare riferimento al lavoro domestico o casalingo svolto all'interno della famiglia, anche se finalizzato all'attività d'impresa.
A complicare le cose, vi è poi l'articolo 1, comma 50 della Legge Cirinnà che ha stabilito la possibilità, per i conviventi di fatto ex comma 36, di stipulare un contratto di convivenza per "disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune"; quindi, i conviventi potrebbero decidere di adottare il regime della comunione legale. E per continuare nel ragionamento, si ponga caso che si costituisca un'azienda utilizzata da ambedue i conviventi per l'esercizio di attività gestite da entrambi dove le decisioni di ordine imprenditoriale sono adottate dall'uno e/o dall'altro, ai sensi degli articoli 180-184 cod. civ. A questo punto, dire se si è al cospetto di un'azienda ex articolo 177 cod. civ. o se si è al cospetto di un'impresa familiare ex articolo 230 - ter cod. civ., diventa estremamente macchinoso.
Senza valutare le vistose incongruenze con i princìpi costituzionali e generali.

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