Penale

Attività di gestione di rifiuti non autorizzata anche in caso di esercizio d’impresa di fatto

Non rileva la qualifica formale dell’autore, ma l’imprenditorialità di fatto dell’attività che svolge, anche con un occasionale abbandono, escludendo il reato meno grave che può commettere chiunque

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di Paola Rossi

L’abbandono di rifiuti è sanzionato più gravemente a titolo di “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” quando la condotta - pure occasionale - è realizzata nell’ambito dell’esercizio d’impresa anche di fatto: cioè a prescindere dal possesso della qualifica di imprenditore e quella di gestore ambientale. In tal caso scatta la contestazione del reato ex articolo 256, comma 2, del Testo unico dell’ambiente e non di quello punito dall’articolo 255 del Tua che può essere commesso da chiunque rilasci rifiuti nell’ambiente.

La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 29076/2024 - ha respinto il ricorso dell’imputato che escludeva di aver realizzato un’illegittima attività gestionale di rifuti, in quanto lui non figura come imprenditore.
La Corte Suprema ha respinto il ragionamento secondo cui il reato può essere commesso solo dalla categoria formale degli imprenditori, in quanto ciò che rileva è se il comportamento di chi svolge l’attività llecita si ponga di fatto come “imprenditoriale”.

Inoltre, nel caso specifico l’imputato riteneva che fosse provato di aver agito come comune cittadino dal fatto che si era trattato di un singolo episodio. Sul punto, va detto che il comma 2 dell’articolo 256 del Tua non pone alcuna soglia di punibilità e che l’accertamento di un’azione illecita realizzata di fatto come esercizio d’impresa è semmai sintomo di altre pregresse rimaste ignote. Ma come detto tale aspetto è irrilevante.

Al contario, a riprova che il ricorrente svolgesse per lavoro abituale la gestione di rifiuti - dalla raccolta, al trasporto e all’abbandono degli stessi - è sintomaticamente provato dalla circostanza che il furgone con cui aveva scaricato in strada i rifiuti fosse iscritto all’albo dei gestori ambientali e dato in uso alla cooperativa di recuperi per cui lo stesso ricorrenete aveva lavorato. Per cui va affermato l’esercizio d’impresa “di fatto” per l’azione di abbandono contestata al ricorrente e che questa si è potuta concretizzare anche con un’occasionale episodio.

Da ciò il rigetto della pretesa del ricorrente di vedersi contestata la meno grave fattispecie, prevista dall’articolo 255 del Tua, che può essere commessa da qualsiasi privato cittadine e che viene sanzionata con l’ammenda da mille a diecimila euro nella forma non aggravata dall’essere il rifiuto abbandonato pericoloso, in tale ultimo caso l’ammenda è raddoppiata.

La Cassazione, invece, ha appunto confermato la sussistenza del reato previsto dal comma 2 dell’articolo 256 del Tua che - proprio in ragione della qualifica anche di fatto di imprenditore o dell’impresa stessa - prevede un trattamento sanzionatorio ben più gravoso: la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o l’ammenda da 2.600 a 26mila euro e, nel caso si tratti di rifiuti pericolosi, l’arresto da sei mesi a due anni e la stessa ammenda prevista per la fattispecie non aggravata.

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