Lavoro

Avvocati, l'accordo tra le parti legittima il maxi compenso

La Cassazione, ordinanza n. 2631/2021, ha respinto il ricorso di un cliente che lamentava la sproporzione della parcella

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di Francesco Machina Grifeo

Il maxi compenso dell'avvocato frutto del libero accordo tra le parti è da considerarsi legittimo e non censurabile. La Corte di cassazione, ordinanza n. 2631/2021, ha così respinto il ricorso di un cliente volto ad ottenere la restituzione di parte dei 380 mila euro che il legale si era liquidato dopo essere stato autorizzato all'incasso dell'intera somma - 1,5 milioni di euro - pagata dalla provincia di Sassari a valle di una causa di esproprio.

In particolare, la causa decisa dalla II Sezione civile riguarda il ricorso di uno soltanto dei due clienti, tra loro fratelli , ed ha ad oggetto i 150mila euro per "compensi professionali" trattenuti dall'avvocato (gli altri 220mila euro erano in capo al fratello), prima di accreditare al ricorrente la somma residua di 520mila euro.

Facendo un passo indietro, le parti, successivamente al deposito della sentenza del Tribunale ma prima del suo passaggio in giudicato, avevano pattuito che il 10% del ricavato, oltre le spese e gli onorari, sarebbe andato all'avvocato. Questo primo accordo tuttavia, come emerso nel corso del giudizio di primo grado, era stato poi superato da una seconda pattuizione. La registrazione di una telefonata tra cliente e avvocato, depositata in giudizio, rilevava infatti che le parti avevano poi definito l'importo delle competenze in 150mila euro, come del resto risultante dalla scrittura privata. Secondo il Tribunale, dunque, tale accordo, del 2005, privava di effetti quello precedente (a percentuale, oltre gli onorari) del 2002.

Posizione condivisa anche dalla Corte d'appello secondo cui la somma era frutto di un accordo "pienamente valido ed efficace, perché raggiunto nella piena libertà di espressione delle rispettive volontà, e che ha privato di pregio giuridico ogni precedente stipulazione negoziale, e dunque anche l'accordo del 2002". Secondo il giudice di secondo grado, dunque, "deve farsi applicazione della norma di cui all'art. 2233 cod. civ., in forza della quale può farsi luogo a determinazione del compenso solo se questo non sia stato convenuto dalle parti".

Una decisione confermata dalla Suprema corte che ha respinto la doglianza relativa al mancato rispetto delle "tariffe professionali", che considerava "sproporzionato" un compenso del 33% vista anche la modesta attività svolta in giudizio, limitata alla presentazione di una Ctu, a fronte di una amministrazione rimasta contumace.

Per la Cassazione infatti "l'art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale, indicando in primo luogo l'accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione ed il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera soltanto in mancanza di convenzione".

In particolare, in materia di onorari di avvocato, prosegue la decisione, "deve ritenersi valida la convenzione tra professionista e cliente che stabilisce la misura degli stessi in misura superiore al massimo tariffario, vigendo il principio di ammissibilità e validità di convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti dai clienti agli avvocati, anche con previsione di misure eccedenti quelle previste dalle tariffe forensi".

Ragion per cui, correttamente, la Corte territoriale ha ritenuto che la "validità e l'efficacia" della scrittura "impediva al giudice, ai sensi del menzionato art. 2233 cod civ., di intervenire in senso modificativo di una previsione espressione dell'autonomia negoziale delle parti".

Infine, conclude la Cassazione, la Corte d'appello non ha scrutinato la legittimità del primo accordo a percentuale, ritenendolo superato dal secondo. Cade dunque la possibilità di vagliare l'ulteriore doglianza secondo cui il patto "sarebbe comunque evidentemente nullo in quanto contenente un patto di quota lite abbondantemente sproporzionato in relazione all'attività professionale svolta e di gran lunga superiore anche al 10% riconosciuto al legale in aggiunta al compenso legale di lite".

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