Lavoro

Urgenza fisiologica ignorata, diritto al risarcimento per lesa dignità del dipendente

La Cassazione, ordinanza n. 12504/2025, conferma la responsabilità di una casa automobilistica per non aver permesso al dipendente di andare in bagno e successivamente di cambiarsi

di Francesco Machina Grifeo

A fronte di una necessità impellente e non più procastinabile, non autorizzare il dipendente a lasciare la postazione per recarsi nei servizi igienici, e successivamente impedirgli, fino alla successiva pausa, di cambiarsi i pantaloni “bagnati”, fa scattare il diritto al risarcimento del danno per la “lesione della dignità”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 12504/2025, che ha confermato la condanna di una casa automobilistica a pagare 5mila euro, ex articolo 2087 c.c., per violazione delle condizioni di lavoro.

La responsabilità datoriale affermata dalla Corte di appello di L’Aquila, si legge nella decisione, è fondata sul difetto di diligenza della società nel predisporre misure idonee a prevenire situazioni lesive per la dignità del lavoratore. Nel caso specifico, ricostruisce l’ordinanza, durante il turno di lavoro il dipendente, avvertito il bisogno di recarsi ai servizi igienici e non potendo per disposizione aziendale allontanarsi dalla postazione occorrendo a tal fine la previa autorizzazione e sostituzione da parte di un Team Leader, aveva ripetutamente ma invano azionato il dispositivo di chiamata/emergenza, non ottenendo l’autorizzazione. Pertanto, “giunto allo stremo della resistenza, in assenza di alternative, aveva lasciato la postazione ed era corso verso i servizi igienici ‘non riuscendo ad evitare di minzionarsi nei pantaloni’; ciò nonostante aveva ripreso immediatamente il suo lavoro chiedendo tuttavia di potersi cambiare in infermeria. Ma anche questo permesso gli veniva negato, per cui solo durante la pausa aveva potuto cambiarsi presso il cd. Box Ute, “al cospetto degli altri lavoratori, donne comprese”.

Contro questa decisione, l’azienda ha proposto sette motivi di ricorso. La Sezione lavoro tuttavia li ha bocciati tutti affermando che si risolvono in un mero dissenso valutativo su accertamenti di fatto, che – come noto - spettano al giudice di merito. Né la società è riuscita a dimostrare una diversa ricostruzione dei fatti o un vizio di motivazione. Correttamente, infatti, prosegue la Suprema corte, il giudice del merito ha ritenuto “altamente probabile che i pantaloni del lavoratore fossero bagnati di orina, anziché di acqua”, mentre “tale accertamento non è validamente inficiato dalla odierna ricorrente la quale si limita a contrapporre al ragionamento presuntivo seguito dalla Corte di merito una diversa lettura del compendio probatorio”.

In un altro passaggio, invece, le critiche muovono dall’assunto, smentito dalla sentenza impugnata, “del carattere eccezionale dell’impellenza fisiologica del lavoratore che rapportano alla particolare situazione, che asseriscono eccezionale, che non aveva consentito all’organizzazione datoriale di impedire il verificarsi dell’evento”. Ma anche questa doglianza è stata ritenuta inammissibile.

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