Società

Blockchain e tracciabilità: una strada per la competitività dell'agroalimentare italiano

L'applicazione della blockchain alla filiera agroalimentare permette al consumatore di accedere al "documento d'identità digitale" del prodotto per seguirne il percorso dal campo alla tavola

di Andrea Iurato*


La competitività nel settore agroalimentare italiano si misura sempre più sulla capacità di produrre e comunicare la qualità del prodotto, in Italia come all'estero.

Gli ultimi dati elaborati dall'Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy (giugno 2020) consegnano un quadro del mercato alimentare italiano dove oramai ben il 25,4% dei prodotti si dichiara "made in Italy". È necessario, tuttavia, sottolineare come si assista anche ad una contrazione del valore delle vendite delle etichette "prodotto in Italia" (-1,2%), a favore di una crescita sostanziosa dei prodotti D.O.P. (+7,1%) e "100% italiano" (+4,1%). Il dato è presto spiegato: in un mercato saturo di offerta "made in Italy", si sta alzando l'asticella delle aspettative dei consumatori sulla qualità e la garanzia della (vera) origine italiana.

Il trend è seguito e in parte spinto dalle politiche che, in Europa come in Italia (pur con approcci nettamente diversi), mirano a fornire al consumatore la massima trasparenza sull'origine degli alimenti. A far data dal 1° aprile 2020 è applicabile il regolamento europeo 2018/775 che impone l'indicazione in etichetta dell'origine degli ingredienti primari degli alimenti, qualora questa sia diversa dall'origine dichiarata del prodotto. Sempre in questo turbolento 2020, il Governo italiano ha prorogato la vigenza dei decreti che impongono l'indicazione in etichetta dell'origine di grano duro (per la pasta), latte, riso e pomodoro e ha introdotto (DM MIPAAF 9 agosto 2020) l'obbligo di indicare l'origine delle carni suine trasformate, compresi i salumi.

Tuttavia, se i nuovi obblighi normativi possono contribuire ad aumentare la fiducia dei consumatori e a supportare l'agroalimentare italiano – conclusione nient'affatto scontata – essi si applicano per definizione a tutti i prodotti presenti sul mercato e non stimolano, piuttosto mortificano, la competitività imponendo un'eccessiva standardizzazione della comunicazione al consumatore. Anche molti standard di certificazione sono diventati pressoché obbligatori, poiché di fatto imposti quale requisito per esportare o per accedere ai canali della grande distribuzione.

In questo contesto la competitività è legata all'offerta di sicurezza, qualità e trasparenza della filiera, in altre parole ad una tracciabilità solida ed efficacemente comunicata.
Da almeno un paio d'anni anche in Italia l'agenda dell'innovazione nella filiera agroalimentare è dominata dalla blockchain, fino a poco tempo fa vocabolo sconosciuto alla maggior parte degli operatori e quasi esclusivamente legato dall'immaginario comune alle criptovalute e al settore finanziario.

La blockchain (catena di blocchi) è un sistema di gestione e archiviazione di informazioni che ne garantisce l'immutabilità nel tempo: i dati immessi in rete sono firmati digitalmente e raggruppati in blocchi che, tramite tecniche crittografiche, vengono "sigillati" e collegati ai precedenti blocchi formando una catena che lega indissolubilmente ciascun blocco a un altro.

I dati contenuti nella rete sono pubblicamente disponibili e consultabili. In una parola: trasparenti.

L'applicazione della blockchain alla filiera agroalimentare permette al consumatore di guardare egli stesso, senza filtri o intermediari, dentro la filiera, accedendo (es. tramite codice QR) al "documento d'identità digitale" di quello specifico prodotto (es. la specifica bottiglia di vino acquistata al supermercato e non una bottiglia qualsiasi di quel vino) e seguendone il percorso dal campo alla tavola.

Tracciabilità completa di ogni singola unità di prodotto, identificazione certa dell'utente che ha immesso il dato, immutabilità del dato, trasparenza senza necessità di intermediari sono i tratti distintivi della blockchain rispetto alle altre tecnologie di tracciabilità, anche digitali, finora utilizzate.

La blockchain può permettere davvero, oggi, alle pmi di distinguersi ed emergere dal mercato saturo e standardizzato del "made in Italy", tanto nel mercato domestico, quanto in quelli esteri dove è in continua crescita il fenomeno dell'italian sounding.

Una solida tracciabilità di filiera non è solo la chiave per competere sul mercato comunicando qualità, sostenibilità e origine trasparente: è anche la chiave per una più efficiente gestione dei rapporti di filiera, delle materie prime, dei trasporti, delle temperature di preparazione, stoccaggio e trasporto, della rintracciabilità del prodotto in caso di obbligo di richiamo, per una maggiore solidità dei modelli organizzativi (d.lgs. 231/2001) e per tanto altro.

Più in sintesi: è maggior sicurezza, gestione più efficiente, riduzione del rischio di contenzioso.

Ma la blockchain è utile solo se fatta bene. Rendere immutabile e trasparente un dato di filiera è un rischio, in assenza di adeguati strumenti di validazione dei dati e in assenza di una filiera davvero controllata e affidabile.

Per evitare, quindi, che l'adozione di uno strumento di innovazione e competitività si trasformi in boomerang per l'impresa, è richiesto un efficace lavoro di squadra tra provider della piattaforma, programmatori informatici, articolazioni produttive dell'azienda, fornitori e professionisti che affiancano l'impresa (avvocato, commercialista, tecnologo alimentare, agronomo, esperto di marketing ecc.).

In particolare, i compiti dell'avvocato che affianca l'impresa nel processo di adozione della blockchain sono particolarmente delicati e sfidanti per il professionista legale. La blockchain è chiamata a gestire e registrare immutabilmente dati che altro non sono che transazioni tipicamente rette da contratti che disciplinano i rapporti tra gli attori della filiera (fornitori, trasportatori, clienti, consumatori). La blockchain registra e gestisce queste transazioni tramite smart-contract, protocolli di transazione informatizzati che eseguono i termini di un contratto in modo automatico. In altre parole, il programmatore che scrive gli smart-contract non fa altro che tradurre i termini di un contratto in linguaggio informatico, imponendo per un'efficace riuscita del processo la reciproca collaborazione e comprensione tra ingegnere informatico e consulente legale. Il legislatore italiano ha recentemente fornito un abbozzato riconoscimento giuridico dello smart-contract (ad oggi ancora privo delle prescritte norme attuative) con il d.l. "semplificazioni" 2018 (d.l. 135/2018, conv. con legge 12/2019) il cui art. 8-ter così lo definisce: «un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse».

Ad oggi, il settore agroalimentare sembra quello che più degli altri, dopo quello finanziario, ha intuito le potenzialità della blockchain e sta scommettendo su di essa. Una solida e trasparente tracciabilità dei processi di produzione e fornitura di beni e servizi tramite blockchain, tuttavia, si prospetta come efficace fattore di competitività in pressoché tutti i settori, ivi compreso quello dei servizi professionali.

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*Partner di LS Lexjus Sinacta - Avvocato, operante nell'area del diritto agroalimentare

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©

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