CEDU e uso legittimo delle armi
Natura e caratteristiche della scriminante
la QUESTIONE
Quali sono l'ambito applicativo e i presupposti alla base della scriminante di cui all'art. 53 c.p.? Quali sono i soggetti che possono avvalersi di tale previsione? La resistenza passiva, nello specifico la fuga, legittima il pubblico ufficiale all'uso delle armi?
L'uso legittimo delle armi come autonoma ipotesi scriminante è stata prevista per la prima volta dall'attuale Codice Rocco, il quale all'art. 53 ne fissa parametri e presupposti applicativi. Il precedente Codice Zanardelli, infatti, non presentava un'analoga ed espressa causa di esclusione dell'antigiuridicità, ricorrendo, al fine di giustificare la liceità dell'uso della coazione fisica a opera di pubblici ufficiali, all'utilizzo delle cause di giustificazione della legittima difesa, dell'adempimento del dovere, e talora dello stato di necessità.
La ratio di tale autonoma previsione è da ricercarsi, sia nella volontà del Legislatore di elidere le preesistenti controversie giurisprudenziali (così la Relazione al progetto definitivo del c.p.), sia, e soprattutto, nella volontà di legittimare l'impiego della forza statuale laddove sia volta alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica.
Il fondamento giuridico della scriminante in oggetto è, infatti, da individuarsi nella tutela dell'autorità dello Stato e dell'attività amministrativa.
Tuttavia la stessa formulazione della norma in esame evidenzia inoltre il carattere sussidiario della stessa, l'inciso "ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti" costituisce una clausola di riserva, che favorisce l'applicazione delle scriminanti della legittima difesa e dell'adempimento del dovere laddove il comportamento del soggetto agente possa essere a esse ivi ricondotto. Tale "sussidiarità espressa" (in tal senso Ardizzone, «Uso legittimo delle armi», in Enc. Dir., XLV, 1992, 977) ha quale conseguenza la legittimazione dell'uso della forza nella tutela di un interesse pubblico e non di un diritto del pubblico ufficiale (elemento differenziale rispetto alla legittima difesa), inoltre nel rapporto con la scriminante dell'adempimento del dovere consente di scriminare non la condotta oggetto del dovere di adempiere, ma lo specifico mezzo coercitivo necessario all'adempimento del dovere (in ciò la sussidiarietà fra le due ipotesi, si veda Alibrandi, L'uso legittimo delle armi, Giuffrè, 1979, 13 ss).
La nozione di Pubblico Ufficiale
La causa di giustificazione di cui all'art. 53 c.p. deve essere qualificata come scriminante "propria" (così Marini, «Uso legittimo delle armi - Diritto penale», in Nss. D.I., XX, 1975, 262) poiché il suo ambito applicativo viene ristretto, dallo stesso dettato normativo, a specifici soggetti: i pubblici ufficiali. Sono quindi esclusi da tale ambito gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità.
Ma anche la nozione di pubblico ufficiale (di cui all'art. 357 c.p.), alla quale la norma fa riferimento, deve essere ulteriormente e significativamente precisata e delineata: la dottrina e la giurisprudenza sono infatti concordi nel fornire un interpretazione restrittiva, in base alla quale legittimati all'uso legittimo delle armi non sarebbero tutti i pubblici ufficiali, ma solo coloro i quali, a causa del proprio dovere istituzionale, hanno la possibilità dell'uso della coazione fisica (con armi o con ulteriori, e meno lesivi, mezzi). Nello specifico, quindi, l'applicabilità della scriminante in oggetto è limitata agli appartenenti alla forza pubblica e ai militari in servizio di pubblica sicurezza. Ne restano ulteriormente esclusi soggetti quali le guardie giurate e le guardie del corpo, che non sono pubblici ufficiali (così Cass. 21 marzo 1992, n. 3224) e che non possono portare armi senza licenza (artt. 42 e 71 reg. T.U.L.P.S.), al contrario dei pubblici ufficiali cui si applica la scriminante in oggetto. La scriminante trova, inoltre, applicazione nei confronti di tutti quei soggetti che, legalmente richiesti dal pubblico ufficiale, prestino loro assistenza (art. 53 c.p., comma 2); sul punto si vuole evidenziare come tale richiesta debba essere espressa, anche se non si ritiene necessaria la sua esplicitazione potendo risultare da un comportamento inequivocabile del pubblico ufficiale (Marini, op.cit., 267). La legalità della richiesta prescinde da requisiti formali o procedurali, laddove si palesi la sua legittimità sostanziale, connessa a un fondamento giuridico apprezzabile e identificabile. L'ausilio di tali soggetti privati va a inquadrarsi in un rapporto di collaborazione civica occasionale verso la pubblica autorità (cfr. Minghelli, «Facoltà di arresto del privato e uso delle armi», in Cass. pen. mass., 1975, 1073). Sempre connesso alla figura del soggetto agente vi è l'ulteriore requisito che il previsto uso della forza sia funzionale all'adempimento di un dovere del proprio ufficio, a nulla rilevando la compresenza di un ulteriore fine privato purché non preminente.
Respingere una violenza o vincere una resistenza
L'uso delle armi, di cui all'art. 53 c.p., deve, quindi, essere strumentale al superamento di ostacoli che si frappongono al previsto adempimento del dovere: tali ostacoli devono concretizzarsi in una violenza o in una resistenza. Si è significativamente rilevato, sempre nell'ambito del requisito della proporzionalità fra beni e mezzi, come non assuma rilevanza l'illiceità o meno della condotta ostativa del privato, rilevando unicamente la sua finalità oppositiva a un provvedimento dell'autorità (così Delogu, «L'uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione fisica», in AP, 1972, 191). La violenza è da intendersi quale comportamento attivo, che attraverso l'uso di una forza fisica offende i beni giuridici tutelati, e tende a frapporre ostacoli all'adempimento del dovere di ufficio, tale comportamento violento deve essere attuale, poiché altrimenti verrebbe meno la necessità stessa dell'uso dei mezzi di coazione. La dottrina maggioritaria ritiene che possa integrare gli estremi della violenza, in relazione alla fattispecie di cui all'art. 53 c.p., anche la coercizione psichica causata da una minaccia, laddove questa a causa della sua gravità sia in grado di influenzare e modificare l'agire del pubblico ufficiale in relazione al proprio dovere da eseguire, rendendo di fatto necessario e inevitabile l'intervento coattivo (nel merito l'aver puntato le armi contro il pubblico ufficiale costituisce ipotesi legittimante l'uso delle armi - in tal senso App. Roma, 29 aprile 1986, in Riv. Polizia, 1987, 674).
La resistenza passiva e la fuga
Questione maggiormente problematica è quella afferente il requisito di vincere una resistenza, in special modo laddove si verta in tema di resistenza passiva. Giurisprudenza e dottrina erano concordi nel ritenere che l'unica forma di resistenza tale da legittimare l'uso delle armi fosse la resistenza attiva (la cui distinzione rispetto alla precedente ipotesi della violenza ha suscitato più di qualche dubbio), mentre quella passiva, a cui deve assimilarsi la "fuga", sarebbe per sua stessa natura ritenuta insufficiente per giustificare l'applicazione dell'art. 53 c.p., in quanto si andrebbe a concretizzare in meri atteggiamenti passivi, e la volontà resistente sarebbe priva di connotazione fisica, rendendo di conseguenza sproporzionato e immotivato, e ovviamente illegittimo, l'eventuale utilizzo delle armi da parte del pubblico ufficiale (si veda Iupone, «Irrilevanza della c.d. resistenza passiva e della fuga in particolare nell'interpretazione della norma di cui all'art. 53 c.p.», in Giur. Merito, 1978, II, 889 ss., ex multis; Cass., n. 2148/1995; Cass., n. 5527/1991; Cass., n. 6327/1989), anche nell'ipotesi in cui sia previsto l'obbligo d'arresto da parte degli appartenenti alle forze dell'ordine o la facoltà d'arresto in flagranza da parte del privato (Cass., n. 7570/1999, in tema di furto tentato).
Tale assunto generale, tuttavia, negli ultimi tempi sembra cedere il passo a una posizione più flessibile (così Ranzatto, «Uso delle armi per effettuare un arresto legale e Convenzione europea dei diritti dell'uomo», in Dir. pen. e proc., 5, 2004, 605), sia in seno alla giurisprudenza (Cass., Sez. IV, 7 giugno 2000, Bracarelli), sia nell'ambito della dottrina, la quale rileva significativamente come l'automatica e generale esclusione della rilevanza della resistenza passiva e della fuga dall'ambito operativo dell'art. 53 c.p. sarebbe troppo semplicistico e penalizzante per l'operatore di polizia (così Amato, «L'uso legittimo delle armi nella dottrina e nella pratica», in Gnosis, 1, 2012).
Il criterio della proporzione
La nuova tendenza in ordine all'applicabilità dell'art. 53 c.p. sembrerebbe porre in secondo piano la distinzione fra resistenza attiva e passiva, a favore del criterio della proporzione o di bilanciamento fra i contrapposti interessi. Tale principio, sebbene non espressamente richiamato dal dettato codicistico, deve considerarsi implicitamente operante, anche in virtù di una lettura costituzionalmente orientata della norma, che porta all'attuazione di un necessario bilanciamento da effettuarsi caso per caso. Bilanciamento che deve avvenire tanto fra i beni in conflitto (vale a dire il valore dei differenti interessi contrapposti), quanto fra i mezzi impiegati e la resistenza da vincere, così da delimitare i confini di applicabilità della scriminante dell'uso legittimo delle armi. Da ciò deriva che la resistenza passiva se non giustifica di per sé l'uso dell'arma, di certo consente l'uso di mezzi di coazione diversi e meno invasivi, in modo che l'uso della forza sia rigorosamente proporzionato al tipo e al grado della resistenza opposta (Cass., n. 38229/2008), contemplando anche un uso persuasivo e intimidatorio dell'arma stessa. Nello specifico della "fuga" autorevole dottrina ha rilevato come essa di per se considerata non lede, né pone in pericolo beni primari, e non deve essere "confusa" con la condotta antecedente (che realizza la concreta lesione o pericolo ai beni di rilevante importanza). Si deve quindi proporzionare l'uso della forza non alla gravità del reato commesso, ma alla forma di resistenza successivamente posta in essere dal soggetto che tenta di sottrarsi alla cattura (così Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2010).
Le concrete dinamiche della fuga e la complessità della vicenda saranno, quindi, gli elementi in base ai quali calibrare e proporzionare la risposta e l'eventuale uso della forza, compreso l'utilizzo delle armi, il tutto nella consapevolezza che al pubblico ufficiale chiamato all'adempimento del dovere, al contrario delle ipotesi di legittima difesa o dello stato di necessità, non viene riconosciuta la possibilità di rinuncia o di un commodus discessus (Cass., n. 20031/2003; Cass. n. 9961/2000). La più recente giurisprudenza, in tal senso, si mostra concorde nel ritenere che laddove le modalità siano tali da porre a repentaglio l'incolumità e la sicurezza di terze persone (si pensi alle ipotesi di fuga "armata" o di fuga con un'autovettura a folle velocità in una zona densamente popolata - si veda Corte App. Brescia, n. 1028/2010, in Riv. Pen., 2010, 9, 881), l'uso delle armi è da considerarsi legittimo, sempre che non sia possibile un diverso intervento meno lesivo (utilizzo dell'arma come extrema ratio - si veda Cass., n. 854/2008) e che vi sia una graduazione dell'intervento nell'ambito del principio di proporzione (ex multis Cass., n. 9961/2000).
Art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
Alcune problematiche interpretative e applicative sono sorte nel rapporto fra la scriminante di cui all'art. 53 c.p. e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 2 (concernente la protezione del diritto alla vita di ogni individuo) stabilisce che «la morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da un ricorso alla forza reso assolutamente necessario:
a) per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale;
b) per eseguire un arresto legale o per impedire l'evasione di una persona legalmente detenuta;
c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione».
Nello specifico vi è stata la pronuncia della Suprema Corte, n. 20031/2003, rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale, la quale, in un'ottica ampliativa della scriminante, ha ritenuto immediatamente applicabile nel nostro ordinamento il suddetto art. 2 Cedu e ha ritenuto giustificato l'utilizzo dell'arma per attingere il fuggitivo anche nell'ipotesi di mera fuga, in maniera aprioristica, senza valutazione alcuna delle concrete modalità e prescindendo dal criterio della proporzione.
Le critiche che si sono dirette verso tale pronuncia sono state molteplici e fondate, dalle questioni afferenti la diretta e immediata applicazione della Convenzione nel nostro ordinamento in quanto ritenuta norma di diritto comunitario (in senso contrario si veda Ranzatto, op.cit., il quale ritiene significativamente che ci troviamo di fronte a norma del diritto internazionale pattizio), a quelle relative all'erroneo bilanciamento degli interessi, poiché, contrariamente all'insieme dei valori espressi dalla Carta Costituzionale (in cui il bene della vita si pone all'apice della gerarchia dei beni tutelati), nella sentenza in commento il grave pericolo alla vita dei soggetti in fuga viene considerato secondario rispetto all'interesse alla cattura dei fuggitivi (così Roiati, «Caratteristiche dei requisiti della violenza o della resistenza per legittimare l'uso delle armi», in Riv. pen., 1, 2004, 54). Si è rilevato, di converso, come solo apparentemente sembra porsi un conflitto di norme fra art. 53 c.p. e art. 2 Cedu, poiché in entrambe le ipotesi hanno pieno vigore i principi di necessità (questo espressamente indicato dallo stesso art. 2 Cedu) e proporzione. Inoltre la norma codicistica contiene un rinvio generico agli altri casi stabiliti dalla legge, in cui si può agevolmente far confluire la norma internazionale di cui in discussione, in quanto ratificata con legge dello Stato (così Ranzatto, op.cit., 606).
Tuttavia, la questione è stata oggetto di specifica disamina da parte della Corte Europea dei diritti dell'Uomo nel caso Alikaj contro Italia, nell'ambito del quale è stata riscontrata la violazione dell'art. 2 CEDU tanto sul piano sostanziale tanto su quello procedurale (sentenza del 29 marzo 2011). Il fatto traeva origine dall'uccisione di Julian Alikaj, privato della vita da un colpo di arma da fuoco esploso da un ufficiale della polizia nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1997 durante un inseguimento.
I primi atti di indagine vennero eseguiti da alcuni ufficiali dello stesso corpo di appartenenza dell'agente coivolto, a carico del quale si aprì un procedimento penale per omicidio volontario, conclusosi in primo grado con sentenza di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato". In secondo grado, la Corte d'Assise di Bergamo dichiarò la colpevolezza dell'imputato previa riqualificazione dei fatti nella fattispecie di omicidio colposo anzichè volontario. Tuttavia, a causa dell'applicazione delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza sulle contestate aggravanti, il Collegio territoriale dichiarò estinto il reato per intervenuta prescrizione. Avverso tale sentenza il Procuratore Generale propose ricorso per Cassazione che, però, fu respinto.
Dinanzi a tale saga processuale, i parenti del giovane Alikaj decisero di adire la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione sostanziale e procedurale dell'art. 2 CEDU, nonché quella degli artt. 6 e 13 CEDU.
Ebbene, come si evince dalla lettura della sentenza datata 29 marzo 2011, le doglianze proposte contro lo Stato italiano hanno trovato accoglimento: in primo luogo, la Corte, con riguardo al profilo sostanziale dell'art. 2 CEDU, ha ribadito l'obbligo, per gli Stati membri, di regolare in modo minuzioso l'uso delle armi da parte delle forze dell'ordine, in conformità con le direttrici tracciate dagli strumenti internazionali ad hoc, e in particolare delle UN Basic Rules on the Use of Force and Firearms by Law Enforcement Officials del 1990. Come è noto, lo Stato italiano, in tal senso, è privo degli strumenti normativi necessari. In secondo luogo, il Collegio di Strasburgo, con precipuo riferimento all'uso della forza letale, ha affermato che ai fini della legittimità dell'actio lesiva deve sussistere uno stringente nesso di necessarietà rispetto all'effettivo pericolo da scongiurare.
Dal punto di vista procedurale, la Corte EDU ha rilevato la violazione dei principi pattizi in duplice direzione: in primis, viene stigmatizzata la mancanza di indipendenza e imparzialità delle indagini, poiché le fasi iniziali erano state poste in essere da agenti appartenenti allo stesso comando dell'agente coinvolto. In seconda battuta, è stato rilevato che l'intervenuta prescrizione ha privato i parenti della vittima della possibilità di poter assistere all'attuazione di giustizia.
In sintesi, i principi dettati dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 marzo 2011 - Ricorso n. 47357/08 - Alikaj e altri c. Italia, si compendiano in tal senso: « Il ricorso alla forza non può essere ritenuto "assolutamente necessario" quando è noto che la persona che deve essere arrestata non rappresenta una minaccia per la vita o per l'integrità fisica altrui e non è sospettata di aver commesso un reato violento. Pertanto, costituisce violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU), sotto l'aspetto sostanziale, l'aver cagionato la morte di un individuo in fuga, colpito da un agente di polizia durante l'inseguimento. Costituisce altresì violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU), sotto l'aspetto procedurale, il fatto che la conseguente inchiesta venga svolta – quanto meno in relazione ai primissimi accertamenti – dalla stessa autorità pubblica cui appartiene l'agente di polizia indagato. Il diritto alla vita risulta altresì violato allorquando il processo penale si concluda con una pronuncia di non luogo a procedere per l'intervenuta prescrizione del reato, in quanto tale esito non offre un'adeguata riparazione dell'offesa arrecata al valore sancito dall'articolo 2 della Convenzione».
Il requisito della necessità
Come emerge, pertanto, dai principi sovranazionali e dalla struttura codicistica, ulteriore requisito richiesto per l'applicabilità della scriminante di cui in oggetto è quello della necessità, che, al contrario del criterio della proporzione, è espressamente previsto dal dettato codicistico e deve essere interpretato secondo il binomio necessità/inevitabilità, il quale impone al pubblico ufficiale di porre in essere la condotta meno dannosa per il raggiungimento dello scopo perseguito, tale concezione si inquadra a pieno nella prospettiva dell'uso delle armi, o della coazione fisica come extrema ratio, all'interno della quale sussiste una gradazione degli interventi e delle dinamiche da porre in essere, e laddove si ponga in essere un intervento con le armi, essa dovrà essere l'unica ipotesi praticabile in base alle concrete circostanze.
Il requisito della necessità deve, inoltre, essere inteso quale attualità della condizione legittimante l'uso dell'arma, la violenza o la resistenza devono quindi essere in svolgimento al momento dell'uso delle armi che si pone quale contrasto agli stessi (Cass., n. 11879/2007).
In assenza di tale requisito non troverà applicazione la scriminante e il comportamento del pubblico ufficiale potrà afferire alla disciplina della causa di giustificazione putativa (art. 59, comma 4, c.p.) se il soggetto agente ha erroneamente ritenuto sussistere tutti i presupposti necessari. Tale condotta, dovrà, inoltre, essere valutata ai fini di una eventuale responsabilità a titolo di colpa per l'evento da lui determinato, laddove il fatto sia preveduto dalla legge come colposo e siano imputabili alla sua condotta imperizia o imprudenza.
L'uso legittimo delle armi putativo e l'eccesso colposo
Con uso legittimo delle armi putativo si fa riferimento all'ipotesi in cui il soggetto agente ha l'erronea convinzione di trovarsi in una situazione che, laddove fosse stata realmente esistente, avrebbe necessitato il suddetto uso (si dovrà quindi trattare di un erronea percezione della realtà); l'errore, in tale ipotesi, non inficia l'esimente. Diversamente non si potrà invocare la disposizione di cui all'art. 59, comma 3, c.p., nell'ipotesi in cui l'errore non verta su elementi della realtà (che sarà quindi correttamente percepita), ma ricada sull'efficacia della norma di cui all'art. 53 c.p., poiché in tal caso si risolverebbe in un'ignoranza della norma penale che come tale non scusa.
Per eccesso colposo, a norma dell'art. 55 c.p., si intende l'ipotesi in cui si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità, o imposti dalla necessità, in tale caso si darà applicazione alle disposizioni relative ai delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come tale, per la sussistenza di tale fattispecie occorre la compresenza di tutti i presupposti della causa di giustificazione. La differenza con l'ipotesi di erronea supposizione di una scriminante è da ricercarsi nella considerazione che in quest'ultima eventualità la causa di giustificazione esiste solo nella mente del soggetto agente (e non nella realtà), nell'eccesso colposo, invece, vi è l'esistenza concreta della scriminante di cui si travalicano i limiti. In relazione alla scriminante di cui all'art. 53 c.p. la giurisprudenza di legittimità ha significativamente ritenuto che, ferma restando la valutazione della legittimità dell'uso delle armi in dotazione da parte del pubblico ufficiale (nel pieno rispetto del principio di proporzione), il rischio del verificarsi di un evento più grave non voluto non può essere posto a carico del soggetto agente, quando tale evento non sia riconducibile a negligenza o imperizia, ma all'ineludibile componente di rischio che l'uso dell'arma in sé comporta. Ciò in quanto la prevedibilità dell'evento è intrinsecamente connessa al rischio insito per sua stessa natura nell'uso dell'arma, unica in dotazione al pubblico ufficiale, e detto rischio potrebbe essere scongiurato solo rinunciando all'uso dell'arma normativamente autorizzato (Cass., n. 9961/2000).
Considerazioni conclusive
L'uso legittimo delle armi rientra nello schema tipico di una scriminante propria, poiché applicabile a figure specifiche come pubblici ufficiali e loro ausiliari. Sulla stessa concezione di pubblico ufficiale sono intervenute ulteriori specificazioni che hanno ristretto, secondo logica, l'ambito applicativo della norma a coloro i quali, a causa del proprio dovere istituzionale, hanno la possibilità dell'uso della coazione fisica; quindi, l'applicabilità della scriminante in oggetto è limitata agli appartenenti alla forza pubblica e ai militari in servizio di pubblica sicurezza. La sua applicazione deve, inoltre, essere sussidiaria rispetto alle ipotesi di adempimento di un dovere e legittima difesa, e deve avere quale fondamento operativo il fine di adempiere un dovere del proprio ufficio. In merito alle concrete ipotesi applicative si riteneva che la mera resistenza passiva non legittimasse detto uso delle armi, ma le pronunce della Suprema Corte sembrano rivedere detto principio assoluto, ritenendo che anche in caso di fuga, al di là di aprioristiche posizioni generali, si debbano valutare gli indefettibili principi della necessità e della proporzione, oltre all'avvenuta commissione di reati al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, anche rischi attuali per l'incolumità e la sicurezza di terzi (Cass., n. 9961/2000). Alla luce del noto caso Alikaj contro Italia del 2011 , la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ha rilevato la violazione sostanziale e procedurale dell'art.2 CEDU con specifica istanza di maggiore rigore da parte dei giudizi nazionali nella valutazione dei presupposti legittimanti l'uso delle armi da parte dei pubblici ufficiali.