Il CommentoLavoro

Ciao 2024, l’anno che ha silenziosamente cambiato il diritto del lavoro italiano

Dicembre 2024. È tempo di Legge di Bilancio, ma anche e soprattutto di bilanci dell’anno che volge al termine

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di Simone Carrà*

Mi sembra doveroso, da avvocato giuslavorista, aprire una parentesi su come, in dodici mesi, è profondamente cambiato il diritto del lavoro italiano, seppur non per mano del legislatore (che è intervenuto poco, fatta eccezione per qualche isolata - seppur importante - modifica in materia di appalti e, da ultimo con il nuovo Collegato Lavoro, somministrazione) ma con una serie di pronunce giurisprudenziali, tutte omogenee nel ricostruire gli istituti in una prospettiva eurounitaria e protezionistica, che hanno praticamente riscritto l’epilogo di arresti giurisprudenziali anche molto risalenti e che oramai erano dati per consolidati.

Ed è così che l’interprete si trova spiazzato e, ancor più l’operatore, che tenta di comprendere e poi spiegare come il diritto del lavoro possa essere cambiato così tanto, in così poco tempo, e in modo così silenzioso.

Non dimenticheremo facilmente infatti le sei ordinanze della Suprema Corte di Cassazione di gennaio-febbraio 2024 che hanno degradato la (faticosa) ricerca dell’elemento persecutorio delle cause di mobbing ad una (ben più agevole) ricostruzione della vicenda lavorativa come non atta a impedire un ambiente di lavoro “stressogeno”. 

Se è apprezzabile il tentativo, da un punto di vista interpretativo, di non comprimere l’obbligazione di tutela dell’integrità psicofisica ex art. 2087 cod. civ., quello che tuttavia oggi ci viene consegnato è un sistema che respinge la conflittualità nei rapporti lavorativi, laddove tuttavia la soggettività sottostante tutti i rapporti umani (prima ancora che professionali) imporrebbe di prendere le distanze dal mondo del percepito, all’interno del quale sono spesso messe sullo stesso piano situazioni fisiologiche e situazioni patologiche.

Quel che è certo è che oggi sostenere una “violazione” degli obblighi datoriali in tutti quei casi in cui il sinallagma contrattuale non gratifica a sufficienza il prestatore di lavoro sembra molto più facile di quanto non fosse un anno fa. 

Siamo ancora ad inizio 2024, e con il susseguirsi di diverse pronunce di legittimità, si va a consolidare quell’orientamento giurisprudenziale, già preannunciato nel 2023, secondo il quale il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituirebbe “discriminazione indiretta” laddove il datore sia a conoscenza di una condizione di “disabilità (nell’accezione eurounitaria del termine, e pertanto di malattia grave e di lungo periodo) del lavoratore e non ponga in essere gli opportuni “accomodamenti”. 

Al netto delle valutazioni giuridiche (che si rimandano ad altre sedi), ci si chiede però quali siano allora i limiti entro cui può spingersi il datore che, da una parte, è tenuto a non conoscere la diagnosi del lavoratore assente per malattia e, dall’altra, resta disorientato rispetto ad una totale assenza di parametri entro cui dover dar seguito alle necessarie azioni di “accomodamento; quel che è certo è che oggi il datore dovrà pensarci mille volte prima di intimare un licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Ma non vi è solo la spinta (che comunque è dirompente) proveniente dall’interpretazione eurounitaria (e da un legislatore europeo sempre più attento all’attualità delle vicende lavoristiche, come dimostra la recente pubblicazione della direttiva sul lavoro tramite piattaforma); la seconda metà del 2024 è stata infatti segnata da almeno due ulteriori svolte dell’assetto giuslavoristico italiano.

Ed infatti, con la sentenza n. 128 della Corte Costituzionale cala definitivamente il sipario sull’assetto rimediale introdotto dal Jobs Act, alimentato dall’afflato giuseconomico diventato improvvisamente mainstream negli anni post crisi finanziaria, e che oggi è definitivamente al tramonto, con il riaffiorare di istanze incentrate sulla riscoperta della prospettiva protettiva tipica del diritto del lavoro e nella rinnovata dimensione sociale del paradigma lavorativo (e non solo).

Il “motivo economico” non esclude più pertanto la tutela reintegratoria: detta diversamente, l’art. 18 rientra dalla finestra, dove oramai quasi dieci anni fa il Jobs Act aveva tentato di farlo uscire dalla porta.

Fortunatamente l’intervento del Giudice delle Leggi non si estende al punto da parificare il mancato esperimento dell’onere di repechage (a tutt’oggi testualmente previsto nel diritto positivo, salvo che in ipotesi circoscritte) all’“assenza del fatto oggettivo”, e pertanto alla sanzione della reintegra.

Ciononostante non possiamo fare a meno di evidenziare come anche sul repechage si va imponendo un orientamento sempre più protezionistico, con punte (per adesso solo episodiche) in cui la Corte di Cassazione si è spinta a sanzionare il mancato esperimento del repechage anche laddove il datore ometta di offrire al lavoratore licenziato posizioni non solo con mansioni inferiori, ma anche con un inquadramento categoriale inferiore e a fronte di una minore retribuzione. 

Finisce il 2024, insomma, e ci si augura che con esso termini anche la stagione del rimuginio interpretativo che attingendo dallo strumentario dell’interpretazione eurounitaria va ad incidere su un sistema giuslavoristico, qual è quello italiano, che ancora si contraddistingue per elevatissimi livelli di tutele nel contesto europeo, che non abbisognano certamente di un irrobustimento di tutele.

Anche se, a giudicare dalla recentissima ordinanza con cui il Tribunale di Reggio Emilia ha formulato questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia volta a sradicare l’istituto (oramai non più giovane) dello staff leasing, denunciato di essere, ancora una volta, contrario ai principi di diritto dell’Unione Europea (in linea, a ben vedere, con la ratio che muove le modifiche introdotte dal Collegato Lavoro in corso di pubblicazione), il trend inaugurato quest’anno sembra essere destinato a confermarsi ancora per il prossimo futuro.

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*A cura di Simone Carrà – Partner BCA Legal