Colpa medica: le linee guida della “Balduzzi” non salvano il sanitario imprudente
La Cassazione interviene sulla portata dell'articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189 (la cosiddetta legge “Balduzzi”, in tema di responsabilità del medico), secondo cui «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve».
La colpa del sanitario - L'articolo 3 della legge n. 189 del 2012, per come costruita, appare porre un limite alla possibilità per il giudice di sancire la responsabilità del medico che abbia rispettato le linee guida e le best practices: nel senso che potrebbe pur sempre essere riconosciuta la responsabilità penale del medico per omicidio e lesioni personali che si sia attenuto a esse, ma ciò solo allorché invece avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato e questo non abbia fatto per “colpa grave”, quando cioè la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell'imputato.
Tale disciplina, in buona sostanza, ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie incriminatrici colpose di cui agli articoli 589 e 590 del Cp, nel senso che l'innovazione normativa esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino all'interno dell'area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica (cfr. sezione IV, 29 gennaio 2013, Cantore).
Si tratta però di chiarire i limiti e i presupposti applicativi della nuova disciplina, su cui qui la Cassazione fornisce qualche ulteriore tassello interpretativo.
L'applicabilità alla sola imperizia - In proposito, qui dalla Corte viene opportunamente ribadito (in tal senso, in precedenza, con chiarezza, sezione IV, 24 gennaio 2013, Pagano; nonché, sezione IV, 8 luglio 2014, Sozzi e altri; sezione IV, 11 marzo 2014, Carlucci; sezione IV, 15 ottobre 2013, Pg in proc. Di Sauro e altri), che il novum normativo può valere solo quando debba giudicarsi della “perizia” del medico, e non quando si discuta della sua imprudenza o della sua negligenza.
Quindi, esemplificando, la disposizione non potrebbe trovare applicazione se il paziente ha avuto una reazione avversa a un farmaco, nonostante l'intolleranza risultasse in cartella, che però è stata letta velocemente dal medico prescrivente: qui non entrano in discussione le linee guida, ma solo la negligenza che ha caratterizzato la condotta del medico.
Parimenti, la normativa limitativa della responsabilità non potrebbe invocarsi in caso di addebito a titolo di imprudenza: come nella specie, laddove il fondamento della colpa del sanitario non era stato individuato nella violazione delle linee guida ma in una “imprudente” manovra dallo stesso posta in essere durante l'inserimento della guida metallica di un catetere vascolare, manovra caratterizzata da un uso eccessivo - quindi imprudente - della forza a fronte di una situazione di pervietà che avrebbe dovuto indurre a modalità più prudenziali.
Quindi, la Corte qui chiarisce che la disposizione limitativa della responsabilità è applicabile solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e, quindi, può operare solo allorquando si discuta della “perizia” del sanitario, non estendendosi alle condotte professionali “negligenti” e “imprudenti”, anche perché è concettualmente da escludere che le linee guida e le buone prassi possano in qualche modo prendere in considerazione comportamenti professionali connotati da tali profili di colpa.
Ciò significa anche, per la Cassazione, che il medico imprudente e negligente non potrebbe invocare una pretesa adesione alle linee guida per eludere la propria responsabilità.
In questo senso la Corte prende consapevolmente le distanze da quel diverso orientamento secondo cui, invece, la nuova normativa introdotta dall'articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, se pure trova il suo terreno di elezione nell'ambito dell'apprezzamento dell'“imperizia”, può peraltro trovare applicazione anche se il parametro valutativo della condotta del medico sia quello della “diligenza”, cioè allorquando siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell'accuratezza dei compiti, magari non particolarmente qualificanti, che quella dell'adeguatezza professionale (sezione IV, 8 luglio 2014, Anelli; nonché, sezione IV, 9 ottobre 2014, Stefanetti: nella specie, si contestava al sanitario di avere provocato, durante un intervento di isterectomia per via laparoscopica una lesione dell'uretere della paziente, utilizzando in modo imperito lo strumentario laparoscopico, alternativamente adoperando in modo maldestro la pinzatrice oppure gestendo in modo malaccorto l'elettrocoagulatore; la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la colpa, ma ha annullato con rinvio la sentenza per un approfondimento circa la concreta applicabilità della richiamata normativa, giacché il giudicante erroneamente l'aveva esclusa sostenendo che questa non riguardasse il profilo della diligenza del sanitario, mentre secondo la Corte in ogni caso l'addebito riguardava comunque il profilo della perizia).
L'imperizia, l'imprudenza e la negligenza - La sentenza coglie l'occasione anche per ricostruire la nozione della colpa per “imprudenza” (cui è inapplicabile la legge Balduzzi) e quella della colpa per “imperizia” (che, invece, può valersi della limitazione di responsabilità alla sola colpa grave).
Secondo la Cassazione, l'imprudenza consiste nella realizzazione di un'attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l'ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell'incolumità e degli interessi propri e altrui (si veda sezione IV, 21 maggio 1985, Cannella); mentre rientra nella nozione di imperizia il comportamento attivo od omissivo che si ponga in contrasto con le regole tecniche dell'attività che si è chiamati a svolgere.
Da queste premesse, nella fattispecie sub iudice, secondo la Corte correttamente era stata qualificata come “imprudente” la condotta del sanitario imputato che, durante l'inserimento della guida metallica di un catetere, aveva fatto un uso eccessivo - quindi imprudente - della forza a fronte di una situazione di pervietà che avrebbe dovuto indurre a modalità più prudenziali; mentre si sarebbe potuto discutere di “imperizia” solo se al sanitario fosse stata contestata la violazione delle regole tecniche disciplinanti l'inserimento del catetere.
Resta da aggiungere, per completare il quadro, che la nozione di “negligenza”, cui pure è inapplicabile il portato della legge Balduzzi, è ravvisabile nel comportamento, omissivo, di chi, chiamato a intervenire e a prestare la propria attività, lo faccio in modo disattento, superficiale, trascurato.
La rilevanza delle linee guida - Come detto, il richiamo alle linee guida può avere un concreto significato normativo, ai fini e per gli effetti di cui all'articolo 3 della legge n. 189 del 2012, solo laddove si discuta di regole di “perizia”.
Una tale conclusione trova un conforto decisivo nel significato che deve riconoscersi alle linee guida.
Illuminante, in proposito, è il contributo chiarificatore offerto dalla citata sentenza Cantore, laddove vengono definite come una sorta di «sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata»: utile per guidare l'apprezzamento discrezionale del medico nell'approccio terapeutico al caso sottopostogli, sia il momento della diagnosi che in quello della cura.
È fin troppo evidente, allora, che le “linee guida” non possono occuparsi della diligenza e prudenza del medico (quindi, non rilevano quando si debba discutere di negligenza e di imprudenza), giacché sia la diligenza che la prudenza sono precondizioni necessarie di approccio del medico alla malattia e alla cura del paziente.
Questo risulta palese laddove si voglia affrontare il caso più delicato di possibile responsabilità del medico: quello della diagnosi omessa e/o sbagliata.
La questione è di perizia, laddove il medico, magari seguendo i protocolli ritenuti applicabili e svolgendo gli esami diagnostici considerati rilevanti, non sia stato in grado di cogliere i sintomi di una malattia, differenziandoli da quelli di patologie analoghe.
La questione è di negligenza, laddove il medico abbia adottato un approccio ingiustificatamente attendistico e inerte o, peggio, abbia omesso finanche di svolgere i pur minimi esami diagnostici.
La questione, infine, è inquadrabile nel paradigma dell'imprudenza, laddove la scelta del sanitario risulti immotivatamente azzardata risultando essere stata coltivato un percorso terapeutico a rischio senza il supporto del necessario vaglio del riscontro tecnico.
Solo nel primo caso può assumere rilievo esimente la colpa non grave. Negli altri casi la responsabilità penale non ammette discussioni, né limitazioni.
In altri termini, il medico deve essere comunque diligente e prudente. È nel momento in cui deve esercitare la propria capacità tecnica (in occasione della diagnosi, dell'effettuazione degli esami, della scelta dell'intervento pertinente, ecc.) che può e deve discutersi della sua “perizia” e, in questa prospettiva, il fatto che ci siano “linee guida” e che queste vengano seguite dal sanitario assume rilievo ai fini della responsabilità escludendo la rilevanza penale di scelte e/o di decisioni non qualificate dalla colpa grave.
Va soggiunto che la ravvisata irrilevanza delle linee guida ai fini dell'apprezzamento della diligenza e della prudenza del medico è da ribadire anche allorquando queste contengano “raccomandazioni” per il sanitario che mirano a sollecitare comportamenti diligenti e prudenti (si pensi, alle modalità di acquisizione del consenso informato o alla raccolta dei dati anamnestici).
Si è però al fuori della nozione di linee guida rilevante nell'ambito della legge Balduzzi, che vuole limitare l'addebito di responsabilità per le sole scelte terapeutiche adottate, ma non sembra indiscriminatamente estensibile a tutto l'agire professionale del sanitario, anche quando in discussione sono solo comportamenti genericamente imprudenti e negligenti.
Rispetto delle linee guida e colpa del sanitario - È comunque ben possibile che pur se abbia seguito le linee guida il medico risulti in colpa. Infatti, deve essere chiaro, in proposito, che le linee guida non sono la “legge”, dovendosi conservare l'autonomia valutativa sia del medico (il quale deve scegliere sempre e solo la migliore cura per il paziente) sia del giudice (che il medico deve giudicare).
Pertanto, l'adesione a linee guida, pur accreditate, non escluderà la responsabilità del sanitario, laddove risulti colposa la scelta di quelle specifiche linee guida, risultate non conferenti al caso in esame. La clausola limitativa della responsabilità sembra da confinare, evidentemente, al caso in cui le linee guida seguite siano quelle idonee per affrontare la patologia, giacché solo in tale evenienza la colpa lieve del sanitario nel seguirle e/o nell'applicarne non è censurabile in sede penale.
Inoltre, dovrà riconoscersi la responsabilità, proprio perché le linee guida non possono limitare la valutazione del medico, anche nell'ipotesi in cui la specificità del caso concreto avrebbe dovuto imporre di non “appiattirsi” alle indicazioni delle linee guida e anzi avrebbe dovuto consigliare, se non addirittura imporre, un percorso terapeutico diverso (si veda sezione IV, 8 luglio 2014, Anelli).
A fortiori, sarà ravvisabile la responsabilità nel caso del medico che abbia aderito acriticamente non a linee guida “accreditate” e pertinenti al caso di specie, ma abbia fatto ricorso a linee guide prive di tali caratteristiche, vetuste, magari solo ispirate a esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente.
In tutti questi casi, non potendo funzionare il disposto dell'articolo 3 della legge n. 189 del 2012, per l'addebito sarà sufficiente anche la sola colpa lieve.
La colpa grave - Altro tema decisivo, una volta che si è ricostruita la colpa del sanitario come rientrante nell'imperizia, è quello della verifica del grado della colpa, nel senso che solo la colpa lieve è decriminalizzata, non anche la colpa grave.
In tal senso è la vera, importante novità della legge del 2012: il comportamento del medico che si adegui alle linee guida accreditate «dalla comunità scientifica e che, tuttavia, abbia errato nel corso del trattamento nell'adeguare le prescrizioni alle specificità della vicenda concreta, può essere sanzionato penalmente solo per colpa grave.
A tal riguardo, onde apprezzare se il medico si sia altamente discostato dallo standard di agire dell'“agente modello”, secondo la Corte di cassazione, si dovrà porre appunto attenzione alle peculiarità oggettive e soggettive del caso concreto.
Così, sotto il primo profilo, non si potrà mancare di valutare la complessità, l'oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data. Neppure si potrà trascurare la situazione nella quale il terapeuta si sia trovato a operare: l'urgenza e l'assenza di presidi adeguati rendono infatti diffici le anche ciò che astrattamente non è fuori dagli standard. In queste situazioni, infatti, valgono le considerazioni già sopra sviluppate a proposito della utilizzabilità indiretta, anche in sede penale, del criterio di giudizio offerto dall'articolo 2236 del codice civile.
Così, sotto il profilo “soggettivo”, per determinare la misura del rimprovero, bisognerà considerare le specifiche condizioni dell'agente, cosicché, sulla base del principio secondo cui tanto più è adeguato il soggetto all'osservanza della regola tanto maggiore deve ritenersi il grado della colpa, l'inosservanza della norma terapeutica avrà un maggiore disvalore per un insigne specialista che per un comune medico generico (cfr. anche sezione IV, 29 gennaio 2013, Cantore).
In definitiva, potendosi configurare la “colpa grave” nel caso di una «deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato » (si veda, efficacemente, Cassazione, sezione IV, 15 aprile 2014, Cavallaro), ossia dell'errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria (si veda in termini sezione IV, 27 novembre 2013).
Corte di cassazione – Sezione IV penale - Sentenza 23 aprile 2015 n. 16944