Civile

Concordato preventivo, all'avvocato tariffe ridotte rispetto al commercialista

La Cassazione, ordinanza n. 9464/21, ha chiarito la quantificazione del compenso per le cause oltre 1,5mln di euro

di Francesco Machina Grifeo

La Cassazione, ordinanza n. 9464 depositata oggi, detta le regole per la liquidazione dei compensi per gli avvocati nelle controversie del valore superiore a 1,5mln di euro. Il caso è quello di un legale che aveva prestato la propria opera nella fase precontenziosa, ed in particolare nella redazione della domanda di ammissione al concordato preventivo di una società fallita.

L'avvocato inizialmente era stato ammesso al passivo – il cui valore superava i 20mln di euro – per circa 150mila euro. Successivamente il Tribunale di Como, in accoglimento dell'opposizione del Fallimento, aveva ridotto al somma a 24mila euro. Infatti, in assenza di un accordo, il compenso doveva essere parametrato alla tariffa prevista dal Dm 140/2012 per l'attività di avvocato e non invece come disposto dal giudice delegato facendo riferimento alle tariffe professionali dei dottori commercialisti (art. 27 dello stesso decreto).

Una lettura condivisa dalla Suprema corte secondo cui l'articolo 27 del Dm regola incarichi di "complessiva assistenza al debitore nel periodo preconcorsuale", i quali proprio per "non essere individuati in relazione a profili specifici, postulano che il compenso debba essere determinato in funzione del totale delle passività" (riquadro 9 della tabella C - Dottori commercialisti ed esperti contabili).

"Ne consegue – continua la Cassazione - l'impossibilità di utilizzare analogicamente il menzionato art. 27, dettato per la liquidazione del compenso ai dottori commercialisti, per la quantificazione del compenso per la diversa ed affatto specifica attività (nella specie esclusivamente la redazione del ricorso ex art. 161, fall. e la partecipazione agli atti del conseguente procedimento) espletata da un avvocato in sede giudiziale". Né ad una diversa conclusione può condurre la circostanza, assolutamente pacifica, che l'avvocato avesse svolto anche attività stragiudiziale.

Per i giudici dunque è ragionevole "opinare nel senso che quell'attività stragiudiziale fosse strumentale, propedeutica e funzionale alla intrapresa attività giudiziale, cosi potendo trovare pure nelle tariffe giudiziali adeguata e specifica remunerazione".

Con riguardo invece alle concrete modalità di quantificazione del compenso, per la Corte, il giudice non si è attenuto alle regole, prendendo come riferimento prima il valore medio dello scaglione precedente e successivamente incrementandolo del 60% senza però chiarire le motivazioni delle due scelte.

"In una controversia di valore superiore ad euro 1.500.000,00 – spiega la Cassazione affermando un principio di diritto - la liquidazione giudiziale del compenso spettante ad un avvocato da effettuarsi alla stregua dei parametri sanciti dal Dm n. 140 del 2012 ed in relazione all'attività professionale da lui svolta, nell'interesse del proprio cliente, postula che l'operato del giudice, ai sensi dell'art. 11, comma 9, del Dm. predetto, consenta di individuare le modalità di determinazione del concreto importo originario - ricompreso tra quelli minimo, medio e massimo, riferiti, di regola, allo scaglione precedente (fino ad euro 1.500.000,00) - successivamente da incrementarsi, specificandosene il criterio concretamente adottato, in funzione dell'effettivo valore della controversia, della natura e complessità della stessa, del numero e dell'importanza e complessità delle questioni trattate, nonché del pregio dell'opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente".

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