Consulenza tecnica di ufficio non ammissibile se “esplorativa”
Con una recente ordinanza (Sezione VI, n. 26839/2016) la Suprema corte di Cassazione è tornata su un tema sempre piuttosto dibattuto, legato al rapporto tra l'onere della prova e gli spazi di manovra a disposizione del consulente tecnico d'ufficio nominato nell'acquisizione di ulteriori elementi, anche documentali, per l'assolvimento dell'incarico ricevuto.
La questione non è per nulla banale, considerando gli effetti che potrebbero scaturire dall'accoglimento di un'impostazione eccessivamente ampia della consulenza tecnica, in termini di iniziale inammissibilità ovvero di successiva nullità, qualora la natura “meramente esplorativa” dell'incarico evidenzi l'esigenza di sopperire al mancato soddisfacimento proprio dell'onere probatorio.
La posizione delle sezioni Unite - Al riguardo, ha tradizionalmente assunto una fondamentale importanza la distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 4 novembre 1996, n. 9522), tra consulenza tecnica “deducente” e consulenza tecnica “percipiente”: nel primo caso, il consulente è incaricato dal giudice di «valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti», mentre nel secondo anche «di accertare i fatti stessi».
In quest'ultima ipotesi, la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, senza determinare, però, la sottrazione al principio dell'onere della prova, che pure deve gravare sul soggetto (o sulla parte) che avanza la pretesa di un certo diritto, proprio per evitare che l'attività peritale assuma carattere esplorativo.
Seguendo tale soluzione, la logica dell'onere della prova trova la sua conferma (ovvero il suo bilanciamento) nella necessità, comunque, «che la parte deduca quanto meno il fatto che pone a fondamento del proprio diritto; che il giudice ritenga che il fatto sia possibile, rilevante e tale da lasciare tracce accertabili o, comunque, da poter essere ricostruito dal consulente; che l'accertamento richieda cognizioni tecniche che il giudice non possiede oppure che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino il giudice dal procedere personalmente all'accertamento …; che il consulente indaghi sui fatti prospettati dalle parti e non su fatti sostanzialmente diversi».
In tale percorso evolutivo, in altri termini, ciò che fa (legittimamente) acquisire alla consulenza tecnica il ruolo di fonte di prova è la puntuale cognizione tecnica che è richiesta e che comporta l'esigenza, per la parte, di dimostrare “semplicemente” il fatto che pone a fondamento del suo diritto (Cassazione, Sezione III, sentenza 28 febbraio 2007, n. 4743).
I confini della Ctu - La recente ordinanza si presenta coerente con tale impostazione, evidenziando che la consulenza tecnica d'ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, non potendo quindi essere utilizzata per esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume.
Di conseguenza, l'ammissione della consulenza tecnica può essere legittimamente negata (come avvenuto nella causa da cui è scaturita l'ordinanza) qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Tale principio, è correttamente ricordato, può essere derogato unicamente quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo in questo caso consentito al Ctu anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.
La consulenza d'ufficio non potrebbe neppure essere utilizzata per acquisire documentazione che la parte avrebbe potuto produrre e la cui ammissione da parte del giudice comporterebbe lo snaturamento della funzione assegnata dal codice a tale istituto e la violazione del giusto processo, presidiato dall'articolo 111 della Costituzione, sotto il profilo della posizione paritaria delle parti e della ragionevole durata.
Nel caso specificamente esaminato, tali principi sono stati seguiti per negare l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio (nell'ambito di un procedimento attivato per dimostrare l'esposizione qualificata al rischio amianto) senza la quale sarebbe stato impossibile rintracciare le numerose navi sulle quali era stato imbarcato, considerando che il ricorrente non aveva «neppure fornito elementi sulla concreta e specifica posizione di lavoro assunta di volta in volta nei vari periodi di imbarco».
Corte di Cassazione – Sezione VI –L – Ordinanza 22 dicembre 2016 n. 26839