Dai giudici l’identikit della nuova famiglia
«La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio». È l’articolo 29 della Costituzione, che, come precisò Aldo Moro in un intervento ai lavori della Costituente, non dettava una definizione ma determinava i limiti che il legislatore non poteva oltrepassare. Una linea rossa che è stata spostata molto più avanti di quanto ipotizzato dallo statista democristiano nel ’47, anche se non superata.
A tracciare la via delle riforme indispensabili per tenere conto dei cambiamenti nella società è stata la giurisprudenza delle Corti interne e internazionali, che hanno costretto, non sempre con successo, il legislatore a inseguirle.
Una strada percorsa nel rispetto del principio di uguaglianza tra i sessi e in nome dell’interesse superiore del minore. Correva l’anno 1961 quando la Cassazione (sentenza 1692) fu costretta a precisare che la moglie non aveva l’obbligo di assumere con il matrimonio anche il cognome del marito.
È di pochi giorni fa la sentenza con la quale la Consulta (131/2022) ha passato un colpo di spugna sull’attribuzione del patronimico in automatico ai figli. E, prima ancora, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con una sentenza del 2014 nel caso Cusan e Fazzo aveva condannato l’Italia proprio per i limiti della legislazione interna che prevedono l’assegnazione al figlio del solo cognome paterno. Per la Corte era una discriminazione sulla base del sesso e una violazione dell’articolo 14 (che sancisce il divieto di ogni forma di discriminazione) e dell'articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Era chiaro a tutti che si trattava di una discriminazione ma non al legislatore italiano che, d’altra parte, non è intervenuto malgrado siano passati ben otto anni dalla sentenza.
Da Strasburgo, poi, è arrivata la spinta per la novità più importante nell’ambito familiare dopo la legge sul divorzio, con l’accantonamento di una posizione che vuole un unico modello familiare. Con la sentenza Oliari e altri del 2015, la Corte europea aveva condannato l’Italia per l’inerzia del legislatore nel regolare le unioni civili e dare un riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso. Deficit di tutela che anche la Corte costituzionale aveva chiesto, inutilmente, di colmare e che era costato all’Italia ancora una condanna per lacune che impedivano la realizzazione della vita privata e familiare. Solo dopo la pronuncia di Strasburgo, il legislatore ha adottato, nel 2016, la legge Cirinnà.
Un fil rouge ha allineato le Corti anche per la legge sulla procreazione medicalmente assistita. Con la sentenza Costa e Pavan contro Italia del 2012, la Cedu è stata chiara nel censurare la legge 40/2004, considerata inadeguata ai tempi e incoerente, in particolare perché impediva il ricorso alla fecondazione omologa in vitro a una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica e, di conseguenza, alla possibilità di avvalersi della diagnosi preimpianto. Nel 2015 (sentenza 229) anche la Corte costituzionale ha bocciato la norma della legge 40 che considerava reato la selezione degli embrioni anche nei casi in cui fosse finalizzata a evitare l’impianto di embrioni affetti da malattie genetiche.
Un passo importante anche sul diritto a conoscere le proprie origini è stato fatto nel 2012. Con la sentenza Godelli contro Italia la Corte europea ha rilevato che è contraria alla Convenzione una legge che impedisce a chi è stato abbandonato dopo il parto di conoscere le circostanze della nascita e l’identità della madre. Sulla bilancia della giustizia sono stati messi due diritti dello stesso peso ma contrapposti, da un lato quello della madre all’anonimato, dall’altro quello del figlio a conoscere un elemento importante della sua identità. La Corte ha precisato che il diritto alle origini è parte dell’identità personale e che non può essere assicurata una protezione assoluta dell’anonimato della madre senza contemperarla con le esigenze del bambino che, cresciuto, vuole avere elementi sulla propria identità. La Corte costituzionale ha, a stretto giro, nel 2013, seguito quest’orientamento e, con la sentenza 278, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7 della legge 184 del 1983 per dare la possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto di chiedere l’accesso alle informazioni non identificative delle sue origini. Per l’ennesima volta rinvio al legislatore, ancora immobile.
Ma anche la Consulta ha, a volte, avuto bisogno di tempo per correggere la sua rotta. È accaduto con l’adulterio. Con la sentenza 64/1961 aveva considerato legittimo prevedere il reato per il solo adulterio della moglie, salvando così l'articolo 559 del Codice penale. Nel ’68 (sentenza 126/1968) ha cambiato orientamento, cancellando la parte della norma che metteva la donna in uno stato di inferiorità e minava concordia e unità familiare. Se la prima riforma del diritto di famiglia (legge 151/1975) è arrivata anche sull’onda del referendum abrogativo che, con il 59,3%, di no salvò la legge Fortuna Baslini sul divorzio, è sulla scia della giurisprudenza che si è passati da una concezione rigida della famiglia a una più flessibile. Le Sezioni unite della Suprema Corte (sentenza 11297/1995) nel decidere una causa sull’assegnazione alla casa familiare hanno dato un peso alla convivenza more uxorio.
È, arrivata invece nel 2021 la sentenza (10381) con la quale la Cassazione ha esteso l’esimente dalla colpevolezza per chi commette alcuni reati nell’intento di salvare il convivente more uxorio. Estendendo così un beneficio riservato alle coppie sposate.
Con le sentenze 32 e 33 del 2021, la Corte Costituzionale, pur ribadendo la ferma condanna per la maternità surrogata, è tornata a chiedere con forza al legislatore una tutela effettiva per i bambini nati con il ricorso a questa tecnica. Resta fermo il no ai matrimoni e all’adozione legittimante per le coppie dello stesso sesso come il ricorso al cosiddetto utero in affitto. E questo con l’avallo di Strasburgo. Anche se la famiglia disegnata dai giudici si allontana sempre più dai vecchi dagherrotipi per avvicinarsi all’idea che ne aveva Antonio Gramsci: un luogo di affetti e solidarietà.