Civile

Dal licenziamento al divorzio, per il giudice il selfie è decisivo

immagine non disponibile

di Marisa Marraffino

Finire nei guai per un selfie. Il gesto, apparentemente innocuo, di autoscattarsi una fotografia finisce nelle aule dei tribunali. Sotto le lenti dei giudici le distrazioni al lavoro, i tradimenti e anche i finti matrimoni per ottenere la cittadinanza.
L’approccio della giurisprudenza è quello di considerare i selfie come prove che possono entrare nei processi a vario titolo.

Il selfie al lavoro
Lo sa bene un dipendente di una nota azienda di e-commerce a Milano, licenziato per essersi scattato due selfie con le colleghe durante l’orario di lavoro. Il lavoratore aveva utilizzato il tablet destinato alla vendita e tanto era bastato per far scattare il licenziamento per giusta causa. L’uomo si era distratto per pochi secondi, ma per l’azienda aveva messo in pericolo l’incolumità del bene per dedicarsi a un’attività estranea al lavoro che poteva essere rinviata alla fine del turno. Il Tribunale di Milano, con la sentenza 2203 del 18 settembre 2018, ha stabilito che non c’è dubbio che la condotta integri una precisa responsabilità disciplinare, ma non così grave da giustificare il licenziamento.

Scattarsi selfie sui luoghi di lavoro, se l’interruzione dura pochi secondi, non può essere equiparato a condotte più gravi, come le appropriazioni indebite, i danneggiamenti dei macchinari o le offese sui luoghi di lavoro, ma può ugualmente dar luogo a sanzioni disciplinari, seppur meno afflittive del licenziamento. Tuttavia, il lavoratore non può essere reintegrato, ma l’azienda dovrà corrispondergli un’indennità pari a quattro mensilità. Non c’è dubbio, infatti, che il lavoratore abbia commesso una condotta che integra un «inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro». Va riconosciuta quindi la natura illecita del selfie quando scattato durante l’orario di lavoro in violazione degli obblighi derivanti dal contratto.

Matrimonio senza foto
Non è andata meglio a una donna della Repubblica Dominicana che aveva chiesto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, sostenendo di aver contratto matrimonio con un cittadino italiano con il quale tuttavia non sembrava convivere. In sede di istruttoria la donna produceva solo le fotografie burocratiche della firma del matrimonio. Non veniva però fornita altra prova della presunta convivenza. Possibile, scrive il giudice nella sentenza, che non ci sia «neppure una fotografia raffigurante la giovane coppia di fidanzati e poi di sposi, neanche un “selfie” - per usare un orrido ma diffuso anglicismo - della vita in comune e delle vacanze trascorse insieme?».

Così la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza 860 del 2 marzo 2016, ha respinto la richiesta della donna considerando il matrimonio contratto preordinato a consentirle l’ingresso in Italia.

L’autoscatto «infedele»
I selfie, ormai entrati nelle abitudini degli utenti, finiscono per avere un ruolo determinante nelle pronunce dei giudici, chiamati a fare i conti con il cambiamento dei costumi sociali. L’eccesso di vanità può costare caro anche ai coniugi che, incurante degli obblighi di fedeltà, preferisce condividere con gli amici selfie privati invece che tenere riservate le “amicizie” extraconiugali. Così gli autoscatti scambiati su WhatsApp entrano anche nelle sentenze di separazione tra coniugi. Una foto intima può svelare infatti un tradimento ed essere prodotta in giudizio. Come è successo a un uomo di 43 anni di Genova che aveva scambiato selfie con l’amante in una chat di gruppo. La moglie “per caso” ha ritrovato la conversazione e l’ha prodotta in giudizio come prova documentale dell’adulterio (Tribunale di Genova, sentenza 1187 del 27 aprile 2018).

Corte d'appello di Napoli, sentenza 860 del 2 marzo 2016

Tribunale di Genova, sentenza 1187 del 27 aprile 2018

Tribunale di Milano, sentenza 2203 del 18 settembre 2018

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©