Penale

Datore di lavoro: il reato di omesso versamento delle ritenute non è escluso dalla difficoltà economica

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di Giuseppe Amato

Il reato di cui all'articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l'omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, è reato punito a titolo di dolo generico, integrato dalla coscienza e volontà dell'omissione o della tardività del versamento delle ritenute. Pertanto, proseguono i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 11353 del 2015, non rileva, sotto il profilo soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini le risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti, quali quelli derivanti dagli stipendi dei dipendenti.

La decisione della sezione III penale - Da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva mandato assolto l'imputato, per difetto dell'elemento soggettivo, argomentando la soluzione liberatoria con il fatto che questi aveva fatto ogni sforzo, in occasione del tracollo finanziario che aveva portato poi alla chiusura dell'azienda, per pagare prioritariamente i dipendenti.

La Cassazione ribadisce l'impostazione di rigore secondo cui il reato di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non è escluso dalla condizione di difficoltà economica in cui versi il datore di lavoro, tale da averlo indotto a privilegiare altre destinazioni delle somme che avrebbero dovuto essere accantonate per i versamenti. Secondo questa impostazione, l'impossibilità di adempiere non è, in concreto, deducibile dal sostituto d'imposta che abbia effettuato i pagamenti in relazione ai quali sono state operate le ritenute perché, ogni qualvolta il datore di lavoro, sostituto d'imposta, effettua i pagamenti, gli incombe l'obbligo di accantonare le somme dovute al fisco.

In tal senso, la punibilità della condotta va individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute al fisco (tra le tante, sezione III, 19 dicembre 2013, Pg in proc. Casella).

È una tesi interpretativa che può accettarsi in ossequio al principio in forza del quale il sostituto d'imposta, quando effettua l'erogazione degli emolumenti ai dipendenti, ha l'obbligo di accantonare le somme dovute all'erario (qui, in favore dell'Inps), organizzando le risorse disponibili in modo da adempiere all'obbligazione, così che non può, di regola, essere invocata, quale causa di forza maggiore (articolo 45 del Cp), per escludere la colpevolezza in sede penale, la crisi di liquidità che abbia impedito il versamento del dovuto. È però anche vero che tale principio non può essere applicato automaticamente. Dovrebbe infatti escludersi il dolo, e correttamente applicarsi il disposto dell'articolo 45 del Cp, allorquando risulti dimostrata l'imprevedibilità della crisi finanziaria, per fatti non dovuti al debitore, tale da avere impedito a questi di fronteggiarla adeguatamente.

Il caso specifico - In questa prospettiva, la scelta di pagare i dipendenti ma non l'Inps sembra difficilmente censurabile in sede penale, essendo piuttosto dimostrativa non tanto di un comportamento violativo dell'obbligo di provvedere per tempo agli accantonamenti, ma dalla scelta necessitata di privilegiare la soddisfazione di almeno uno dei propri obblighi debitori, corrispondendo almeno le somme per le retribuzioni dei dipendenti.

In questa situazione potrebbe infatti sostenersi l'inesigibilità della condotta alternativa lecita, determinata dalla crisi economica, ma non direttamente riconducibile a un comportamento inerte e trascurato del datore di lavoro.

Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 18 marzo 2015 n. 11353

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