Casi pratici

Deducibilità dei costi tra presupposti applicativi e onere probatorio

Il reddito di impresa: brevi cenni introduttivi

di Giancarlo Marzo e Irene Barbieri

LA QUESTIONE
A quali condizioni è possibile dedurre componenti negativi dal reddito di impresa? A chi spetta il relativo onere probatorio in caso di contestazioni?

Quando parliamo di reddito di impresa facciamo riferimento a una delle sei categorie reddituali enucleate all'art. 6 del D.P.R. n. 917/1986 (cd. TUIR: Testo Unico delle Imposte sui Redditi) e compiutamente definita dal Legislatore al successivo art. 55 attraverso un chiaro richiamo alla nozione civilistica di impresa commerciale, seppur intesa in maniera per così dire allargata. In effetti, producono reddito di impresa, la cui tassazione avverrà secondo le regole di cui agli artt. 81 e ss., le seguenti attività svolte per professione abituale anche in via non esclusiva:
anzitutto le attività di cui all'art. 2195 c.c., e dunque (i.) le attività industriali dirette alla produzione di beni o di servizi; (ii.) l'attività intermediaria nella circolazione dei beni; (iii.) l'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; (iv.) l'attività bancaria o assicurativa; (v.) le altre attività ausiliarie delle precedenti;
le attività che eccedono i limiti fissati dall'art. 32 TUIR, in materia di reddito agrario, anche se non organizzate in forma d'impresa; e quindi (i) l'attività di allevamento di animali con mangimi ottenuti per meno di un quarto dal terreno agricolo e le attività dirette alla produzione di vegetali tramite l'utilizzo di strutture fisse o mobili, anche provvisorie, laddove la superficie adibita alla produzione ecceda il doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa insiste ; (ii.) le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti non prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, in riferimento ai beni individuati, ogni due anni, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze su proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali;
tutte le attività agricole, anche nei limiti stabiliti dall'art. 32 TUIR, ove spettino alle società in nome collettivo e in accomandita semplice nonché alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa o alle società di capitali;
le attività organizzate in forma d'impresa dirette alla prestazione di servizi non rientranti nel novero di cui all'art. 2195 c.c.;
l'attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne.
La disciplina concernente la determinazione del reddito di impresa rimane ancorata ad una serie di criteri che vanno applicati cumulativamente ai fini della individuazione del reddito assoggettabile a tassazione (il principio di derivazione, di non tassatività, di competenza economica, di imputazione e di inerenza). In particolare, ai sensi dell'art. 83, la quantificazione del reddito tassabile passa attraverso l'utile o la perdita risultante dal conto economico, a cui andranno poi apportate le variazioni in aumento o in diminuzione in base alle specifiche disposizioni tributarie riportate nella Sezione I del Capo II del TUIR. Ai fini della liquidazione dell'imposta dovuta sul reddito di impresa (Ires) sarà poi necessario applicare, alla base imponibile individuata con un procedimento non dissimile a quello seguito nella quantificazione dell'Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche), un'aliquota fissa commisurata, ai sensi dell'art. 77 T.u.i.r. «al reddito complessivo netto con l'aliquota del 24 per cento». Ebbene, proprio nella individuazione del reddito complessivo netto, giocano un ruolo fondamentale i meccanismi di deduzione predisposti al fine appunto di escludere determinati oneri dalla determinazione della base imponibile. In altre parole, il Legislatore tributario consente di sottrarre dal reddito complessivo lordo certe componenti di costo, sostenute dal contribuente nell'esercizio della sua attività di impresa nella produzione del reddito. Il tutto però non senza condizioni.


I requisiti di deducibilità Ires
In tema di imposte sul reddito di impresa, affinché l'imprenditore possa portare in deduzione i costi affrontati nell'esercizio della propria attività, è necessario che sussistano determinate condizioni, come disposto dall'art. 109 TUIR, in particolare:
dal comma I, a mente del quale «i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni»;
dal comma IV, secondo cui «le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all'esercizio di competenza. Si considerano imputati a conto economico i componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi contabili adottati dall'impresa (…)»;
dal comma V, a norma del quale «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (…)».
Ebbene, dalle norme in esame si ricavano i seguenti di decucibilità Ires tipizzati dal Legislatore:
a) quanto al tempo, la competenza (I comma);
b) quanto all'esistenza, la certezza (I comma);
c) quanto all'ammontare, la determinabilità (I comma);
d) quanto alla rappresentazione contabile, l'imputazione a conto economico (IV comma);
e) quanto alla tipologia, l'inerenza (V comma).


La competenza
Il primo requisito di deducibilità ai fini Ires è il principio di competenza, che rappresenta un criterio di imputazione temporale di componenti positivi e negativi concorrenti alla formazione del reddito in un determinato periodo di imposta. Appunto come disposto dal comma I dell'art. 109 TUIR, i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi «concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza». Questo significa che, a prescindere dalla manifestazione finanziaria (l'incasso per i ricavi e il pagamento per i costi), ricavi e costi diventano fiscalmente rilevanti nel momento in cui si producono gli effetti giuridici delle connesse operazioni aziendali. Pertanto, l'impresa dovrà imputare a conto economico i ricavi derivanti da una cessione di beni o prestazione di servizi realizzata nei confronti di un cliente anche nel caso in cui questi non abbia ancora versato il corrispettivo pattuito per l'acquisto.
Il principio di competenza si contrappone al principio di cassa il quale, al contrario, assegna rilevanza sotto il profilo fiscale proprio alla data in cui si verifica la manifestazione finanziaria di una determinata operazione aziendale, vale a dire il momento in cui avviene l'esborso del costo o l'incasso del ricavo. Con la conseguenza che ad esempio verranno imputati a conto economico soltanto i ricavi effettivamente incassati, anche se riferiti a prestazioni realizzate in esercizi precedenti. In sostanza, ai fini della determinazione del reddito di impresa, il principio di competenza rende irrilevante la corresponsione monetaria. E ciò in coerenza con il carattere di indipendenza dell'utile, sotto il profilo economico, dal risultato finanziario della gestione aziendale, visto che spesso a costi e ricavi non seguono immediate variazioni monetarie ma solo rapporti di credito e debito.
Allo scopo, dunque, di agevolare l'individuazione della competenza, il comma 2 dell'art. 109 TUIR fissa il momento in cui si considerano conseguiti i corrispettivi derivanti dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi nonché quello in cui si considerano sopportate le spese per l'acquisizione di beni e servizi. Precisamente:
per le cessioni di beni, ex art. 109, comma 2 lett. a) TUIR, bisogna distinguere:
se si tratta di beni mobili, si guarda alla data di consegna o di spedizione;
se si tratta di beni immobili o aziende, rileva la data di stipulazione dell'atto, ovvero, se diversa e successiva, la data in cui si verifica l'effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale;
per le prestazioni di servizi, a norma dell'art. 109, comma 2 lett. b) TUIR, i corrispettivi si considerano conseguiti, e le spese d'acquisizione si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate. Fanno eccezione quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, per le quali rileva la data di maturazione dei corrispettivi.
Come osservato dalla Corte di Cassazione, «le regole sull'imputazione temporale dei componenti di reddito sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo di reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come "esercizio di competenza", né essendone ammessa l'imputazione in misura superiore a quella prevista per ciascun esercizio. Il recupero a tassazione dei ricavi nell'esercizio di competenza non può pertanto trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio, non potendosi lasciare il contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i propri componenti di reddito, con innegabili riflessi sulla determinazione del proprio reddito imponibile» (Cass., Sez. VI, 17 dicembre 2013, n. 28159). In sostanza, onde scongiurare il rischio che il contribuente scelga arbitrariamente di determinare il reddito attraverso artificiosi spostamenti tra esercizi di componenti positive e negative, il principio di competenza non è suscettibile di deroghe, tanto da risultare vincolante per tutte le imprese, comprese quelle non tenute alla redazione del bilancio e le microimprese di cui all'art. 2435-ter c.c..


La certezza e la determinabilità
I principi di certezza e determinabilità previsti ai fini della deducibilità dei componenti negativi di reddito possono essere ricavati dalla previsione, quasi integrativa rispetto al principio di competenza, racchiusa nello stesso art. 109, comma I TUIR. In effetti, il suddetto primo comma, dopo aver specificato che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza, precisa che «i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare, concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni». Come emerge dal tenore testuale della disposizione, l'esistenza certa e la determinabilità obiettiva delle componenti reddituali rappresentano gli ulteriori requisiti in presenza dei quali è possibile assegnare loro rilevanza nel periodo di imposta considerato. Di talchè, laddove nell'esercizio di competenza non sia certa l'esistenza del costo e/o obiettivamente determinabile l'ammontare, per procedere alla relativa deduzione bisognerà attendere il momento, pur successivo, in cui eventualmente si verificheranno le condizioni in parola. Si tratta, quindi, di un correttivo rispetto al principio di competenza che sintetizza i principi di certezza e determinabilità a completamento del primo e incarna la più immediata conseguenza delle regole volte a presidiare la redazione del bilancio. Quest'ultimo, infatti, deve offrire una rappresentazione veritiera della realtà imprenditoriale, conseguentemente rilevando, alla luce di un criterio prudenziale, anche i costi che sono meramente probabili. Tuttavia, allo scopo di evitare qualsiasi forma di abuso e, dunque, di scongiurare il rischio che l'imprenditore imputi a conto economico dei costi soltanto probabili al fine di usufruire di un risparmio di imposta indebito, dal punto di vista fiscale un costo non ancora certo nell'esistenza o obiettivamente determinabile nel suo ammontare non è deducibile fin quando non verranno integrati i suddetti presupposti. Con la conseguenza che, alla variazione in aumento nell'anno di imposta considerato, seguirà una variazione in diminuzione nel periodo di imposta in cui il costo acquisirà i requisiti di certezza e di obiettiva determinabilità cui risulta subordinata la deducibilità fiscale.

L'imputazione a conto economico
L regola della previa imputazione a conto economico viene individuata dal comma IV dell'art. 109, T.U.I.R., a mente del quale «le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all'esercizio di competenza». In sostanza, nessun costo può essere ammesso in deduzione se non è stato imputato al conto economico dell'esercizio di competenza. Si tratta di un principio applicabile unicamente con riguardo ai componenti negativi, dal momento che i componenti positivi concorrono alla formazione del reddito indipendentemente dalla loro imputazione a conto economico, come sancito dal comma III dell'art. 109 T.U.I.R.
Sulla funzione della norma, la dottrina si divide: quella minoritaria - lungo la scia di alcune pronunce della Corte Costituzionale (ad es. l'ordinanza n. 87/1983) - attribuisce alla regola in esame valore probatorio, ritenendo che la norma miri a disciplinare la prova dei fatti idonei ad incidere in negativo sull'ammontare del reddito d'impresa. La dottrina maggioritaria, però, non sembra condividere la suddetta tesi, non volendo sovrapporre il comma IV dell'art. 109 T.U.I.R. all'art. 61, comma III D.p.r. n.600/1973, secondo cui «i contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili non possono provare circostanze omesse nelle scritture stesse o in contrasto con le loro risultanze». In definitiva, per i più la norma avrebbe una funzione sostanziale, diretta ad impedire che l'utile dell'imprenditore o quello distribuibile ai soci superi l'utile assoggettato a tassazione.
Il principio dell'imputazione a conto economico soffre però alcune deroghe:
quella relativa ai componenti negativi non imputabili a conto economico, ma deducibili per disposizione di legge (ad esempio applicabile per la partecipazione agli utili degli amministratori, che a mente dell'art. 95, comma VI T.U.I.R. possono essere dedotti nell'esercizio di competenza indipendentemente dall'imputazione a conto economico);
quella concernente i componenti che risultano imputati in esercizi precedenti ma la cui deducibilità sia stata rinviata in conformità a specifiche disposizioni fiscali (si pensi all'assenza dei requisiti di certezza e obiettiva determinabilità di cui si è detto in precedenza, la cui mancanza impone di procrastinare la deducibilità dei relativi componenti di reddito al momento in cui si verificano le suddette condizioni);
quella riguardante le spese ed altri oneri risultanti da elementi certi e precisi che afferiscono specificamente ai ricavi e ad altri proventi e che, "pur non risultando imputati a conto economico, concorrono a formare il reddito". Si tratta di un'eccezione sostanzialmente volta a consentire la deducibilità dei "costi neri", vale a dire le spese ad imputazione specifica non contabilizzate e non tenute in considerazione nel calcolo del reddito di impresa, afferenti a ricavi o altri proventi ugualmente non iscritti a bilancio e non dichiarati che però, in quanto ripresi a tassazione dall'Amministrazione finanziaria, hanno concorso alla formazione del reddito.


L'inerenza
Il principio di inerenza trova origine al comma V dell'art. 109 T.U.I.R., a mente del quale le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. Secondo una impostazione più tradizionale, che si muove lungo il solco tracciato dall'art. 109 D.P.R. 917/1986, il concetto di inerenza è riconducibile al rapporto tra costo ed impresa ed assume rilevanza, più che per la sua diretta connessione ad una determinata componente di reddito, per la sua correlazione con un'attività potenzialmente idonea a produrre utili per l'imprenditore.
Tuttavia, il perimetro del principio di inerenza è stato più volte rivisto dalla Corte di Cassazione che, specie con la pronuncia n. 450/2018, ne ha ridisegnato i contorni, enfatizzandone la portata in rapporto all'attività di impresa. Da allora, l'inerenza viene abbinata non tanto alla produzione di utili quanto alla riferibilità con il reddito di impresa: una componente di reddito è inerente se e nella misura in cui è riferibile alla sfera aziendale, indipendentemente dall'utilità che produce. Slegando il concetto di inerenza ai ricavi dell'impresa e ancorandolo piuttosto all'attività imprenditoriale, finiscono per essere considerati deducibili anche i costi e oneri sostenuti in proiezione futura (ad es. le spese promozionali), dai quali cioè si attendono ragionevolmente dei ricavi, pur in un momento successivo, in quanto comunque rapportati come causa a effetto nel circuito della produzione del reddito. Insomma, «l'inerenza esprime la riferibilità del costo sostenuto all'attività d'impresa, anche se in via indiretta, potenziale od in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all'esercizio dell'impresa» (Cass. 11 gennaio 2018, n. 450). Con la conseguenza che il principio di inerenza non può farsi discendere dall'art. 109, comma V, T.U.I.R., il quale si riferisce piuttosto «al diverso principio dell'indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l'inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili». In sostanza, l'art. 109 comma V del D.P.R. n. 917/1986 avrebbe unicamente la funzione di evidenziare come, nel caso in cui alla formazione dell'imponibile concorrano ricavi esenti, non possano essere ammessi in deduzione oneri originanti dalle attività o dai beni da cui derivano tali proventi esenti. Di talchè, il principio di inerenza troverebbe il suo fondamento piuttosto nel principio costituzionale di capacità contributiva e diventa principio generale immanente alla nozione di reddito d'impresa. Così statuendo, la Cassazione ha sancito la necessità di apprezzare l'inerenza tramite un giudizio di tipo qualitativo, in quanto tale scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, che afferiscono piuttosto ad un giudizio di carattere quantitativo. Per tale via, l'ha distinta dalla nozione di congruità del costo pur senza rinnegare l'orientamento del passato: nel valorizzare il rapporto tra la spesa e la sua riferibilità, diretta o indiretta, alla produzione del reddito, non si abbandonano totalmente i requisiti di vantaggiosità e congruità del costo che, comunque, trovano spazio nel giudizio di valore cui è sottoposta la spesa per il riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la relativa deducibilità. In altre parole, alla stregua delle buone regole di gestione dell'attività d'impresa, l'antieconomicità e l'incongruità della spesa assurgono a chiari sintomi di mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa. Non a caso, l'id quod plerumque accidit ha rivelato che una spesa palesemente eccessiva a fronte delle reali necessità dell'impresa è spesso indice di un suo sviamento rispetto alle finalità aziendali, potendo essere sostenuta per motivi personali dell'imprenditore, dei soci o degli amministratori.
L'orientamento in parola ha trovato conforto anche successivamente. Con l'ordinanza n. 3170/2018, ad esempio, la Cassazione ha ribadito l'individuabilità nell' art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986 della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili e confermato la valenza, quale principio generale congenito alla nozione di reddito d'impresa, del concetto di inerenza. Ha dunque evidenziato la necessità di procedere, nella valutazione dell'inerenza di un costo all'attività d'impresa, ad un giudizio di tipo qualitativo, il quale non implica necessariamente anche un giudizio di tipo quantitativo, svolto cioè come apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità, i quali non sono espressione di inerenza ma indici della sua inesistenza, intesa quale esclusione del costo dall'ambito dell'attività d'impresa. Lo stesso dicasi con la sentenza n. 18904 del 17 luglio 2018, nella quale però gli Ermellini fanno un passo avanti: in quell'occasione, infatti, sottolineano che il giudizio di congruità rispetto al principio di inerenza non può dirsi irrilevante, intrecciandosi al profilo della distribuzione dell'onere probatorio. In particolare, nel caso in cui l'Ufficio disconosca l'inerenza di un costo e dunque la sua deducibilità, partendo dall'incongruità e antieconomicità della spesa sul piano probatorio, si sposterà sul contribuente l'onere di dimostrare la regolarità delle operazioni. Questo ai fini delle dirette, dal momento che ai fini Iva, per essere sintomo di non inerenza, l'incongruità e l'antieconomicità della spesa devono risultare in maniera evidente e macroscopica.
Se tant'è, il giudizio di deducibilità di un costo per inerenza attiene alla natura del bene o del servizio così come al suo rapporto con l'attività d'impresa, che deve essere valutato in base all'obiettivo perseguito al momento di esborso della spesa e alla stregua di tutte le attività tipiche dell'impresa stessa, non meramente ex post avuto riguardo esclusivamente ai risultati ottenuti in fatto di produzione di utili.
La deducibilità dei costi e le contestazioni erariali: onere probatorio.
Anche quando si parla di contestazioni in ordine alla deducibilità dei costi, ritornano i principi generali che governano l'onere della prova ex art. 2697 c.c.. Ragion per cui, come più volte sottolineato dalla Giurisprudenza, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è l'Amministrazione finanziaria a dover provare i fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria avanzata nei confronti del contribuente e, dunque, le circostanze idonee a rivelare la sussistenza di un imponibile superiore rispetto a quello dichiarato. Viceversa, spetta al contribuente dimostrare l'esistenza dei fatti da cui discendono costi deducibili in quanto certi, determinati, effettivi e inerenti all'attività svolta. Con la conseguenza che il giudice di merito dovrà anzitutto accertare se la pretesa tributaria dedotta in giudizio dipenda dall'attribuzione in capo al contribuente di maggiori entrate o, piuttosto, dal disconoscimento di costi o oneri deducibili esposti dallo stesso in dichiarazione. E ciò in quanto l'esatta individuazione della parte tenuta per legge a dare la prova afferente mette il giudice in condizioni di porre a carico della stessa le conseguenze giuridiche derivanti dalla mancata osservanza di detto onere.
L'onere della prova, quindi, circa i presupposti dei costi e degli oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, inclusa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, è posto in capo al contribuente. Su quest'ultimo, inoltre, laddove l'Amministrazione finanziaria contesti anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, incombe altresì l'onere di dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell'attività d'impresa, in mancanza della quale sarà legittimo il disconoscimento di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa.


Considerazioni conclusive
Vista la distribuzione dell'onere probatorio in caso di contestazioni circa la deducibilità di costi riportati in dichiarazione, è sempre bene che il contribuente si premunisca di tutti gli incartamenti necessari a dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti di deducibilità per superare eventuali rilievi erariali di senso contrario. Peraltro, l'indirizzo giurisprudenziale concernente la natura qualitativa del giudizio di inerenza potrebbe impattare positivamente quanto ai compensi degli amministratori, arginando le contestazioni - non infrequenti - del Fisco in ordine all'impossibilità di ammettere in deduzione i compensi assegnati agli amministratori poiché eccessivamente elevati nell'ammontare in rapporto al fatturato o alla dimensione aziendale.

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