Dichiarare l’assenza di prove non equivale a contestare il fatto
Il giudice non può considerare l’affermazione dell’assenza di prove da parte del convenuto, equivalente alla contestazione del fatto storico. E se quest’ultimo è particolarmente difficile da provare deve aprire alle testimonianze e valutare la globalità delle circostanze che risultano dagli atti a sua disposizione.
La Corte di cassazione, con la sentenza 17889, accoglie il ricorso di un automobilista che chiedeva, al gestore di un distributore di carburante e all’Api, i danni provocati alla sua auto dal gasolio “inquinato” dall’acqua. Un pregiudizio che aveva quantificato in oltre 6 mila euro, pari a quanto pagato al meccanico che aveva aggiustato la macchina.
Ma la Corte d’Appello aveva respinto la domanda, considerando non provato il rifornimento presso il distributore gestito dal convenuto in giudizio: la circostanza andava dimostrata, e l’automobilista non era stato in grado di farlo.
Mancava inoltre la prova degli interventi di riparazione sull’auto, come del nesso di causalità tra il rifornimento e i danni riportati nella fattura. Per arrivare alla sua decisione la Corte territoriale aveva valorizzato soprattutto la dichiarazione del gestore della pompa di benzina che, sin dal primo grado aveva sostenuto che non era dimostrato il rifornimento presso la sua stazione. Ad avviso della Corte d’appello si trattava di una dichiarazione da considerare equivalente alla contestazione del fatto. Circostanza che permette di evitare l’applicazione dell’articolo 115 del Codice di procedura civile. Una norma in base alla quale il giudice deve fondare la sua decisione sulle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero e sui fatti purché «non specificatamente contestati dalla parte costituita». La Cassazione avverte però che negare l’esistenza di prove non è lo stesso che contestare il fatto. Le due cose non coincidono - scrivono i giudici - «dire che di un fatto manca la prova non equivale, di per sè, a dire che quel fatto è da ritenere contestato».
Per la Suprema corte quando è oggettiva la difficoltà di dimostrare un fatto storico, come lo era nel caso del rifornimento, il giudice deve ammettere la prova testimoniale.
Difficile del resto per il ricorrente precostituirsi tutte le pezze d’appoggio utili. Corrisponde, infatti, ad una comune esperienza - spiega la Cassazione - il fatto che chi fa rifornimento di carburante presso un distributore solitamente non possa sospettare che questo sia inquinato per la presenza di acqua. Lo stesso vale per l’avvenuta riparazione presso una certa officina pagando una determinata somma.
Il ricorrente aveva chiesto di dimostrare queste circostanze attraverso l’audizione di un incaricato dell’officina. E il giudice doveva accogliere la richiesta. In più doveva valorizzare tutti gli elementi agli atti, come ad esempio una mail inviata dall’Api nella quale si indicavano le possibili ragioni dei problemi riscontrati: una leggera pendenza della cisterna, con accumulo di acqua che poteva aver alterato il carburante.
Il giudice non può dunque equiparare la linea difensiva che valorizza l’assenza di prova alla contestazione. Ma deve fare spazio alle testimonianze e valutare la globalità delle circostanze.
Corte di cassazione – sezione VI – Ordinanza 27 agosto 2020 n.17889