Comunitario e Internazionale

Disertore Usa, niente asilo nella Ue se non prova i crimini di guerra in Iraq

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Francesco Machina Grifeo

Arrivano i paletti della Corte Ue sulla richiesta di asilo politico presentata da un soldato americano, di stanza in Germania, che nel 2007 si era rifiutato di tornare a prestare servizio in Iraq dichiarando di non volersi macchiare di ulteriori crimini partecipando a quella che riteneva una guerra ingiusta. Dopo un iniziale ottimismo dovuto al rinvio della questione alla più alta giurisdizione Ue, la sentenza causa C-472/13, pur delegando la decisione al giudice nazionale sembra chiudere alle speranze del «disertore».

La vicenda
- Nell'agosto 2008 il soldato americano Andre Shepherd aveva chiesto asilo politico dopo aver abbandonato la sua unità dislocata in Germania dall'aprile 2007, a seguito del secondo ordine di missione per l'Iraq. Il militare considerava di non dover più partecipare a una guerra che riteneva illegittima, né a crimini di guerra. E ciò nonostante nella prima missione a Tikrit, tra il settembre 2004 e il febbraio 2005, egli non avesse partecipato ad azioni militari, essendo addetto alla manutenzione degli elicotteri. A sostegno della domanda sosteneva che negli Stati uniti la diserzione costituisce un reato molto grave, e la sua esistenza sarebbe rovinata dalla stigmatizzazione sociale. L'ufficio immigrazione aveva respinto la domanda di asilo. Proposto ricorso, il Tribunale amministrativo di Monaco ha rinviato la questione alla Corte di giustizia Ue.

La motivazione - I giudici di Lussemburgo ricordano che secondo la direttiva 2004/83/CE, il cittadino di un paese terzo che ha il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza sociale può ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. In questo senso, un atto di persecuzione, chiarisce la sentenza, può assumere anche la forma di «azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini». E non ha nessuna importanza il fatto di non svolgere mansioni operative ma soltanto di supporto dunque fuori dal teatro di guerra. La «protezione», poi, non riguarda esclusivamente situazioni in cui i crimini siano stati già accertati, ma anche quelle in cui ve ne sia «un'alta probabilità».

Tuttavia la valutazione dei fatti spetta alle sole autorità nazionali, sotto il controllo del giudice. In questo senso, gli indizi devono essere tali da rendere plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti, anche tenuto conto delle caratteristiche del paese d'origine e dello status individuale del richiedente. Per cui, tendenzialmente, vanno considerati fattori ostativi il fatto che l'intervento sia sotto l'egida dell'Onu o comunque raccolga il consenso della comunità internazionale. Come anche il fatto che lo Stato o gli Stati che conducono le operazioni reprimano i crimini di guerra. Inoltre il rifiuto di prestare servizio deve essere stato il solo mezzo possibile per opporsi e dunque nessuna protezione va accordata quando il militare poteva scegliere l'obiezione di coscienza.

Infine, per i giudici dell'Ue, in caso di diserzione, la condanna a una pena detentiva o il congedo con disonore non possono essere considerati, rispetto al diritto dello Stato interessato di mantenere una forza armata, provvedimenti a tal punto «sproporzionati» o «discriminatori» da rientrare nella categoria degli «atti di persecuzione», di fronte ai quali la direttiva accorda un diritto alla «protezione».

Corte Ue - Sentenza 26 febbraio 2015 - Causa C-472/13

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