EU ETS, le debolezze del sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra e il rischio di carbonwashing
Il sistema EU ETS punta ad incidere sul costo di utilizzo delle fonti inquinanti, attraverso la creazione dei diritti di emissione negoziabili sui mercati sotto forma di certificati
Il conseguimento della tanto auspicata green transition implica l’impiego di significative risorse finanziarie necessarie per riconvertire il sistema produttivo europeo, canalizzando il risparmio privato attraverso gli investitori istituzionali (fondi pensioni, società assicurative e di investimento, istituti bancari) verso investimenti sostenibili.
Gli Stati membri possono ricorrere non solo a strumenti di sustainable finance come i green, social e sustainable bonds (GSS bonds) per raccogliere i capitali sul mercato e impiegarli in progettualità eco o socio sostenibili ma possono, altresì, accedere al sistema di scambio dei permessi di emissione (Emissions Trading Systems - ETS).
Il meccanismo EU ETS, in linea con il Regolamento (UE) 2021/1119, si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra (GES) per il 2030 in tutti i settori dell’economia, conseguire la neutralità climatica entro il 2050, allo scopo di mitigare gli effetti del climate change, incidendo sul costo di utilizzo delle fonti inquinanti attraverso la creazione dei diritti di emissione negoziabili sui mercati sotto forma di certificati.
La direttiva (UE) 2023/959 del 10 maggio 2023, in vigore dal 1 gennaio 2024, modifica la direttiva 2003/87/CE (direttiva ETS) e la decisione 2015/1814, introducendo una serie di importanti modifiche al sistema EU ETS come la riduzione dei valori dei benchmark da applicare per la determinazione dell’assegnazione gratuita nel periodo 2026-2030, l’introduzione di una serie di condizioni (condizionalità) per l’assegnazione gratuita di quote, la riassegnazione delle quote non assegnate in base all’applicazione delle regole sulla condizionalità in favore degli impianti che investono in efficienza e innovazione, la graduale introduzione del Carbon Border Adjustment Mechanism per contrastare più efficacemente la rilocalizzazione di emissioni ( carbon leakage ) e la graduale estensione del sistema ETS alle emissioni inerenti al trasporto marittimo.
Sebbene attraverso il sistema EU ETS il legislatore europeo abbia voluto rafforzare la sua politica ambientale in tema di riduzione di GES in atmosfera e mitigazione degli effetti del climate change, tuttavia talune imprese hanno comunicato al mercato informazioni ingannevoli riferite a performance ambientali non corrispondenti al loro effettivo impatto ambientale, allo scopo di evitare di sostenere i costi derivanti dall’utilizzo delle fonti inquinanti imposti dal meccanismo EU ETS e continuare, al contempo, a fingersi compliant alla normativa di riferimento, comunicando green claims ingannevoli che sottostimano le loro reali emissioni di GES.
Il carbonwashing può considerarsi come una forma di greenwashing derivante dalla sottovalutazione dei dati riferiti alla produzione di GES da parte di un’organizzazione che, in un sistema di scambio di quote di emissione EU ETS, determina dei crediti di carbonio e quindi un beneficio economico e reputazionale per l’organizzazione; in tal senso, è evidente che esiste una stretta correlazione tra il carbonwashing e gli aspetti della misurazione, rendicontazione, verifica e comunicazione delle prestazioni di mitigazione delle emissioni di GES.
Il carbonwashing appare addirittura più insidioso rispetto alla più generale forma di greenwashing, proprio in ragione del valore finanziario attribuito alle prestazioni aziendali in termini di emissioni di carbonio. Eppure, finora, la corporate governance si è concentrata più sulla potenziale risposta del mercato e sugli aspetti reputazionali piuttosto che sulla creazione di solidi processi aziendali interni di convalida dei dati di impatto. Difatti, nonostante gli eclatanti impegni sbandierati dalle organizzazioni per conseguire emissioni nette zero, sul piano operativo resta un notevole scollamento tra le ambizioni dichiarate dalle organizzazioni e il monitoraggio della catena del valore e l’implementazione delle strategie di riduzione delle emissioni, una corporate governance efficiente e l’allocazione di capitali per raggiungere la maggior parte degli obiettivi dichiarati.
Mai come negli ultimi anni, le organizzazioni hanno investito su attività di marketing ambientale, che si sono declinate in annunci, impegni, dichiarazioni, lanci di iniziative e varie altre forme di messaggistica pubblica relative all’implementazione di strategie aziendali di decarbonizzazione. A titolo esemplificativo, nel giugno 2020, Amazon ha annunciato un fondo da 2 miliardi di dollari per «investire in aziende che costruiscono prodotti, servizi e tecnologie per decarbonizzare l’economia e proteggere il pianeta»; nel settembre 2020, Google ha annunciato la sua nuova iniziativa di «investire per attivare GW di nuova energia senza emissioni di carbonio entro il 2030» in tutte le regioni della supply chain a livello globale; nell’aprile 2021, Apple ha lanciato un nuovo fondo per «accelerare le soluzioni naturali al cambiamento climatico». Tali strategie di decarbonizzazione incoraggiano le imprese a rivendicare in anticipo i dati reali sull’impatto ambientale delle loro attività che però non sono ancora disponibili. Un recente studio dell’iniziativa Oxford Net Zero ha rivelato che solo il 20% dei richiamati obiettivi soddisfa i test di qualità, mentre un rapporto dell’iniziativa Climate Action 100+ ha affermato che tra le maggiori imprese produttrici di gas serra al mondo, solo sei si sono impegnate concretamente ad allineare le loro future spese in conto capitale ai loro obiettivi di riduzione delle emissioni a lungo termine ma nessuna di queste imprese si è impegnata ad allineare dette spese all’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi Celsius.
Tale vaporosa attività di frontloading aziendale - che si traduce in green claims finalizzati a pubblicizzare gli sforzi delle imprese in termini di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, ai quali però non corrisponde l’effettiva implementazione di tangibili iniziative aziendali (concretamente misurabili, rendicontabili e verificabili), volte alla riduzione delle emissioni di GES - può senz’altro considerarsi come una forma di greenwashing.
La divulgazione a livello globale dei rischi legati al clima ha acquisito un incredibile slancio grazie a iniziative e quadri di riferimento come la Task Force on Climate related Financial Disclosures (TCFD), il Carbon Disclosure Project (CDP), la Science-based Target Initiative (SBTi), la Net-Zero Asset Owner Alliance , RE100 e la Race to Zero affiliata alla COP nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change - UNFCCC). Tali iniziative esercitano una notevole pressione sulle imprese, sia in termini di obblighi normativi che reputazionali, affinché riducano la loro impronta di carbonio e adottino modelli di business neutrali dal punto di vista climatico, caratterizzati da supply chain a basse emissioni di carbonio. Allo stesso tempo, anche le istituzioni finanziarie sono sottoposte a un crescente controllo per decarbonizzare i loro portafogli di investimento e per astenersi dal fornire finanziamenti o sottoscrivere progetti, beni o servizi ad alta intensità di carbonio. Sebbene, in via generale, si registri un impegno su scala globale delle imprese e delle istituzioni finanziarie di fornire un’adeguata rendicontazione dei dati ESG, con particolare riferimento a quelli relativi alle emissioni di carbonio, tuttavia talune imprese sfruttano ancora le attuali incongruenze sistemiche (lacune normative o la non piena implementazione della standardizzazione del quadro di divulgazione delle informazioni ambientali) per comunicare - in modo ingannevole - il loro impegno volto alla decarbonizzazione delle loro attività, al conseguimento di rating ESG aziendali sempre più performanti e all’allineamento ai benchmark sul carbonio a livello di investitori o di normative e tutto ciò allo scopo di rafforzare il loro vantaggio competitivo sul mercato, conseguire maggiori profitti e benefici reputazionali.
Per ovviare all’asimmetria informativa correlata alla carenza di dati affidabili da parte di chi genera e scambia le emissioni, i Paesi, le imprese e i proprietari o gestori di asset sono ora tenuti a rendere note le proprie emissioni di carbonio. Tuttavia, molti criteri di divulgazione obbligatoria continuano a essere definiti in modo restrittivo e quindi appaiono piuttosto limitati nel disciplinare il mercato dei dati sul carbonio in rapida espansione. Le preoccupazioni degli stakeholder in tema di greenwashing e i rischi di affidabilità dei dati hanno indotto il legislatore europeo a implementare la normativa unionale di riferimento in tema di finanza sostenibile globale.
Sulla base delle raccomandazioni contenute nel Piano d’azione della Commissione del 2018 sul finanziamento della crescita sostenibile, l’UE ha adottato una serie di provvedimenti normativi che hanno, tra l’altro, lo scopo di fornire una definizione di attività economiche «sostenibili sotto il profilo ambientale» per ridurre il rischio di greenwashing.
Attualmente, le emissioni di carbonio sono diventate un elemento cruciale nelle discussioni sulle prestazioni ambientali delle imprese e ciò è in gran parte dovuto al riconoscimento della necessità che le singole imprese compiano passi significativi per contenere il cambiamento climatico nei prossimi anni. Se è vero che l’accordo di Parigi ha sottolineato l’esigenza che le organizzazioni statali e non statali contribuiscano alla transizione economica a basse emissioni di carbonio, è altrettanto vero che esiste una crescente apprensione per i rischi (fisici e di transizione) derivanti dal climate change di cui le imprese devono necessariamente tener conto. Mentre i rischi fisici riguardano l’impatto degli effetti fisici del cambiamento climatico sulle attività di un’azienda, i rischi di transizione riguardano i rischi politici, sociali e di mercato associati a una transizione a basse emissioni di carbonio, come l’implementazione di un prezzo del carbonio ovvero gli obiettivi di zero emissioni di carbonio. Sebbene i rischi fisici e di transizione siano entrambi rilevanti, i rischi di transizione aumentano la pressione attuale sulle imprese, poiché è sempre più probabile che le azioni normative tendano a limitare progressivamente le loro emissioni di carbonio. In aggiunta ai rischi fisici e di transizione, il riconoscimento dell’importanza dei rischi finanziari legati alle emissioni di CO2 ha innescato ulteriori discussioni sulle cosiddette « bolle di carbonio » e sui cosiddetti « rischi di carbonio », che misurano il livello di dipendenza di un modello di business aziendale dalle emissioni di carbonio e dalla loro regolamentazione.
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*A cura di Marco Letizi, PhD, Avvocato, Dottore Commercialista e Revisore Legale, Consulente Internazionale delle Nazioni Unite, Commissione Europea e Consiglio d’Europa
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