Civile

Fideiussioni e schema ABI: le Sezioni Unite confermano la nullità parziale dei contratti "a valle" dell'intesa vietata

La sentenza ripercorre, in maniera puntuale, il percorso giurisprudenziale e dottrinale, mostrando di volersi distaccare dalle conclusioni del Procuratore Generale, criticate apertamente in punto di diritto.

di Antonino La Lumia e Francesco Namio*

La tanto attesa pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione è giunta alla fine dell'anno appena trascorso (n. 41994/2021), definendo l'annoso contrasto in materia di fideiussioni aventi un contenuto negoziale conforme allo schema predisposto dell'ABI (Associazione Bancaria Italiana) e, per alcune clausole, ritenuto dalla Banca d'Italia contraria alla disciplina antitrust.

La Suprema Corte opta decisamente per la tesi che ne sancisce la nullità parziale, ponendo il seguente principio di diritto:

"i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell'art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell'art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti".

La sentenza - molto ben argomentata e ricca di spunti di riflessione in materia - ripercorre, in maniera puntuale, il percorso giurisprudenziale e dottrinale, mostrando di volersi distaccare dalle conclusioni del Procuratore Generale, criticate apertamente in punto di diritto.

La questione, com'è noto, trae origine dal provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 emesso dalla Banca d'Italia, in funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi, avente ad oggetto il contrasto tra lo schema contrattuale standard di fideiussione predisposto, in data 4 luglio 2003, dall'ABI, e l'art. 2 della suddetta legge antitrust, in virtù del quale «1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari; 2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, (...); 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto».

La Banca d'Italia espresse un parere negativo con riferimento agli artt. 2, 6 e 8:

- art. 2 - clausola di reviviscenza della fideiussione ("il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo"),

- art. 6 - clausola di deroga all'art. 1957 c.c. ("i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 cod. civ., che si intende derogato");

- art. 8 - clausola di permanenza del vincolo fideiussorio, in ipotesi di vicende estintive e di nullità dell'obbligazione principale ("qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate").

Nel passare in rassegna il significativo corpus interpretativo sul tema, le Sezioni Unite rilevano che, sul tema, si era già espressa la Corte di Cassazione (sez. I civile, 1° febbraio 1999, n. 827, richiamata più recentemente dall'ordinanza 12 dicembre 2017, n. 29810), osservando come l'art. 2 della legge antitrust - allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le "intese" fra imprese, che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante - non abbia voluto riferirsi esclusivamente alle "intese", in quanto contratti in senso tecnico: infatti, in senso più ampio, il legislatore ha inteso proibire il fatto stesso della distorsione della concorrenza, che può essere il frutto anche di comportamenti "non contrattuali" o "non negoziali".

Nel corso degli anni successivi, si sono susseguite pronunce giurisprudenziali, che - analizzando l'istituto con argomenti spesso molto differenti - hanno seguito percorsi ricostruttivi anche opposti circa la questione centrale attinente agli effetti della trasposizione delle "clausole ABI" nei contratti sottoscritti dai consumatori e, in particolare, se queste soltanto siano affette da nullità o rendano invece nullo l'intero negozio.

La sentenza identifica tre principali orientamenti.

Una prima posizione sostiene che, dall'accertamento di un'intesa vietata ai sensi dell'art. 2 della L. 287/1990, non deriverebbe l'invalidità dei successivi contratti stipulati a valle, che manterrebbero la loro autonomia. Pertanto, il pregiudizio derivante dalla condotta anticoncorrenziale potrebbe consentire alla parte di attivare soltanto una tutela risarcitoria, ma non quella "reale".

Tale orientamento si allinea a parte della dottrina, evidenziando l'impossibilità di riconoscere profili di invalidità dei contratti "esecutivi" dell'intesa, considerato che la condotta anticoncorrenziale non inciderebbe né sulla struttura del rapporto negoziale finale, né sugli elementi essenziali dello stesso (Cass. Civ. 11 giugno 2003, n. 9384).

La preferenza per la tutela esclusivamente risarcitoria poggia la sua sostanza sul combinato disposto degli artt. 2 e 33 della L. 287/90, che sanciscono la sola nullità dell'intesa e il conseguente risarcimento del danno che dalla stessa derivi (ma non già la nullità dei contratti stipulati sulla base dell'intesa).

In giurisprudenza, si è affermato anche un secondo orientamento, che si fonda essenzialmente sulla prognosi postuma della condotta del consumatore e dell'istituto di credito al momento della stipula del contratto di garanzia: l'argomentazione di fondo si basa sul fatto che, se il consumatore avesse potuto liberamente valutare le offerte in un mercato ampiamente concorrenziale, non avrebbe sottoscritto un contratto con clausole illecite. Allo stesso modo, la banca non avrebbe mai sottoscritto un contratto senza poter avvalersi delle clausole oggetto dell'intesa restrittiva.

Da ciò deriverebbe l'invalidità dell'intero contratto e non solo delle clausole derivanti dall'intesa anticoncorrenziale: in quest'ottica, le stesse dovrebbero ritenersi determinanti per il consenso, ai sensi dell'art. 1419 c.c., e, dunque, condurre all'illiceità dell'intero accordo e non delle singole clausole.

A fronte della suddetta impostazione "estrema", la Suprema Corte ricorda che si è sviluppata, in netta prevalenza, una terza opzione, secondo la quale le singole clausole, già censurate da Banca d'Italia e AGCM, debbano essere dichiarate nulle, se letteralmente trasposte nei contratti a valle, in quanto caratterizzate da illiceità del loro oggetto.

Pertanto, l'accertata identità tra le clausole ABI e quelle sottoscritte dal consumatore determinerebbe senz'altro la nullità di queste ultime per illiceità derivata dagli effetti dell'intesa (in questi termini: Cass. Civ., ord. 12 dicembre 2017, n. 29810; Cass. Civ., 22 maggio 2019, n. 13846; Cass. Civ. 15 giugno 2019, n. 21878; Cass. Civ. 26 settembre 2019, n. 24044).

L'invalidità prenderebbe corpo da una norma imperativa: l'art. 2, co. 3, della L. 287/90, infatti, prevede espressamente la nullità delle intese restrittive della concorrenza «ad ogni effetto», così come l'art. 101 TFUE dichiara l'incompatibilità delle intese anticoncorrenziali, in qualsiasi modo esse siano attuate, con il mercato dell'Unione Europea.

Secondo questa impostazione, sarebbe contrario alla lettera della legge ritenere nulle le intese, ma non i contratti che a queste direttamente si collegano: si renderebbe, di fatto, irrilevante l'intera disciplina antitrust, considerato che, da un lato, verrebbe sancita la nullità delle intese restrittive, ma - dall'altro - non sarebbe dichiarato altrettanto per i vincoli negoziali che proprio tali intese (illecite) hanno determinato (principio espresso dal leading case Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 14.12.1983 n. C-391/82 e successivamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, tra cui la recente Cass. Civ. 13846/2019 cit.).

Le Sezioni Unite aderiscono a quest'ultimo orientamento della "nullità parziale", ritenendolo più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust: partendo da questo assunto, i giudici della Suprema Corte ritengono "non convincente il riferimento - operato dal Procuratore Generale - al fatto che i contratti tra l'impresa bancaria ed il cliente costituirebbero esercizio dell'autonomia privata dei contraenti, ex art. 1322 c.c., sicché «l'avere inserito all'interno del contratto alcune clausole estratte dal programma anticoncorrenziale non appare circostanza sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragion di essere e della sua validità». Né sembra in linea con la ratio della normativa antitrust … l'ulteriore assunto del Procuratore Generale secondo cui l'impostazione ampliativa delle tutele finirebbe con l'introdurre tutele reali atipiche".

Sul punto, il distacco - diremmo quasi ideologico - delle Sezioni Unite rispetto alle conclusioni del Procuratore Generale è veramente netto, soffermandosi sui principi generali di diritto: "è evidente che - se le parti ben possono determinare il «contenuto del contratto», ai sensi dell'art. 1322, primo comma, c.c. - esse sono, tuttavia, pur sempre tenute a farlo «nei limiti imposti dalla legge», da intendersi come l'ordinamento giuridico nel suo complesso, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale (Cass. Sez. U, 24/09/2018, n. 22437)".

Sotto tale profilo, è particolarmente convincente il riferimento della sentenza all'art. 41 Cost., che - se tutela l'iniziativa economica privata (com'è certamente quella del ceto bancario) - chiarisce, nel contempo, che essa non debba svolgersi "in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana" e debba essere comunque sottoposta a "programmi e controlli opportuni" che la indirizzino e la coordinino "a fini sociali".

E, nuovamente, viene citato lo spirito della legge antitrust, la cui ratio poggia sulla necessità di un concreto bilanciamento tra libertà di concorrenza e tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti diversi dagli imprenditori: è questo il cuore dell'iter argomentativo delle Sezioni Unite, dal quale si dipana il percorso che porta, in ultima analisi, al riconoscimento della nullità parziale, senza che possa trovare spazio la sola tutela risarcitoria (tesi, quest'ultima, in contrasto con tutti i precedenti della Cassazione successivi alle Sezioni Unite n. 2207/2005).

A tal riguardo, la sentenza sottolinea correttamente che l'interesse protetto dalla normativa antitrust è essenzialmente "quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l'interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest'ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto". Ecco perché "il riconoscimento alla vittima dell'illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell'interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e delle correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust".

Per supportare - sul piano sistematico - l'opzione della "nullità parziale", le Sezioni Unite richiamano l'art. 1419 c.c., che esprime il generale favore dell'ordinamento per la conservazione, in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, con conseguente carattere eccezionale dell'estensione della nullità che colpisce la singola clausola all'intero contratto.

Da qui, un ineccepibile corollario di carattere processuale: "è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l'assetto di interessi programmato fornire la prova dell'interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d'ufficio l'effetto estensivo della nullità parziale all'intero contratto".

In proposito, si evidenzia che l'accertamento impone la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all'ipotesi del mancato inserimento della clausola nulla e, quindi, in funzione dell'interesse in concreto perseguito: in questa prospettiva, la nullità si estende all'intero contratto unicamente allorché l'interessato dimostri che la clausola invalida non abbia autonomia, né persegua un risultato distinto, ma si dimostri inscindibile con il resto dell'accordo. In altri termini, è necessario dare atto che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella determinata pattuizione incisa da nullità (Cass. 5 febbraio 2016, n. 2314).

La sentenza ritiene che tale condizione non si rinvenga nel caso di specie, dal momento che il fideiussore avrebbe comunque prestato la garanzia, senza le clausole nulle, trattandosi di soggetto legato al debitore principale (socio della società finanziata) e, pertanto, portatore di un interesse economico all'operazione bancaria. Parimenti anche l'imprenditore (banca) ha interesse al mantenimento della garanzia, dal momento che l'alternativa sarebbe l'assenza completa della fideiussione, con pesante limitazione della tutela dei crediti.

In ciò sta - a detta delle Sezioni Unite - il giusto equilibrio tra posizioni (ugualmente da tutelare) nel sistema d'impresa: "il legislatore sia comunitario che nazionale … ha inteso impedire un risultato economico, ossia l'alterazione del libero gioco della concorrenza, a favore di tutti i soggetti del mercato e in qualsiasi forma l'intesa anticoncorrenziale venga posta in essere". Da questo punto di vista, la serialità della riproduzione dello schema ABI nei contratti di fideiussione "a valle" connota certamente in negativo la condotta degli istituti di credito, inficiando la libera scelta dei clienti e, in generale, influenzando il mercato, abbassando il livello qualitativo delle offerte.

Dalla lettura della pronuncia emergono, infine, ulteriori principi che meritano di essere evidenziati:

- "Ne discende, poi, la rilevabilità d'ufficio di tale nullità da parte del giudice, nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte, a presidio del principio processuale della domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.)". In questo senso, il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale: tuttavia, qualora le parti, all'esito di tale indicazione, omettano un'espressa istanza di accertamento, deve rigettare l'originaria pretesa, non potendo sovrapporsi alla loro valutazione e alle loro determinazioni espresse nel processo (Cass. Sez. U., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243; Cass., 18 giugno 2018, n. 16501);

- alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue, inoltre, "l'imprescrittibilità dell'azione di nullità (Cass. 15/11/2010, n. 23057) e la proponibilità della domanda di ripetizione dell'indebito ex art. 2033 c.c., ricorrendone i relativi presupposti (Cass. 08/11/2005, n. 21647), nonché dell'azione di risarcimento dei danni".

* a cura dell'avv. Antonino La Lumia (Founding Partner - Lexalent) e dell'avv. Francesco Namio

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