Il CommentoLavoro

Focus: il licenziamento contestuale alla cessione del ramo d’azienda

Se le ragioni giustificatrici del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono comprovate il recesso è legittimo anche in concomitanza con la cessione ma quest’ultima, al fine di evitare contenziosi, deve essere molto “lineare”

Disciplinary warning of the worker. The issue of incompetence. Social toxicity, conflict with others. Psychological pressure and coercion to dismiss. Staff notices. Strikes, ban. Fines and fees.

di Marco Proietti*

Tra le operazioni aziendali che destano particolare preoccupazione, soprattutto per le conseguenze che possono aversi sul piano della gestione dei rapporti di lavoro, il trasferimento d’azienda è certamente quella più attenzionata: ancora più peculiare, per altro, è la cessione o l’affitto del singolo ramo d’azienda poiché in questo caso solo una parte del complesso dei beni (e dei lavoratori) è destinata a cadere sotto la disciplina codicistica.

In linea generica, infatti, in tema di trasferimento d’azienda (o di ramo), la continuazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della cessionaria si realizza per i lavoratori che sono dipendenti della cedente al momento del trasferimento o che tali devono considerarsi per effetto della nullità o dell’annullamento dell’eventuale licenziamento irrogato in concomitanza dell’operazione, con ripristino o reintegra nel posto di lavoro.

 Nel caso di cessione di ramo d’azienda, fatte salve le considerazioni che seguiranno, la continuazione dei rapporti riguarda invece solo i dipendenti coinvolti e che rappresentano parte del ramo ceduto, presupponendo la liceità dell’operazione e la non pretestuosità della cessione ove una frammentazione simulata dell’azienda (o l’esternalizzazione di servizi) potrebbe essere finalizzata unicamente alla riduzione del personale sottratta al controllo della legge (in genere quella sui licenziamenti collettivi).

 Andiamo comunque con ordine, per capire quali possono essere i rischi.

Presupposto: cosa si intende per trasferimento o cessione di ramo

Prima di tutto, si ha trasferimento d’azienda ogni qualvolta vi sia la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro e il suo subentro nella gestione del complesso dei beni per l’esercizio dell’impresa, indipendentemente dallo strumento tecnico giuridico adottato e dalla sussistenza di un vincolo contrattuale tra cedente e cessionario; quando si parla di cessione del ramo, invece, il concetto di base resta lo stesso ma chiaramente si deve identificare il ramo come una porzione dell’azienda dotata di una propria autonomia funzionale e organizzativa, in grado di essere collocata nel mercato senza dover necessariamente dipendere dall’azienda cedente.

Sul punto, è interessante la lettura della sentenza Cass. 28183/2023

Per quanto riguarda l’autonomia, la porzione dell’attività economica considerata deve essere in grado di svolgere l’attività di impresa anche prescindendo dall’inserimento all’interno della vecchia compagine societaria della cedente o, al limite, con un minimo apporto da parte della cessionaria che, ad esempio, potrebbe fornire dei nuovi uffici e strumentazioni di lavoro di cui la cedente era sprovvista; il requisito dell’organizzazione, invece, si concretizza nell’esistenza di una serie di legami imprescindibili tra le attività dei lavoratori di quella parte d’azienda, in modo tale che, solo tramite un’interazione reciproca delle rispettive funzioni è possibile la produzione di una serie beni e servizi specificatamente individuabili.

Sulla base di questi principi, si ritiene comunemente che la cessione di ramo sussiste anche nel caso in cui il trasferimento abbia ad oggetto solo un gruppo di lavoratori con particolari know-how o competenze (anche senza il trasferimento di beni materiali come macchinari o attrezzature), purché le rispettive attività siano tra loro coordinate e organizzate al fine di produrre un bene o erogare un servizio.

D’altro canto è proprio l’art. 2112 cod. civ., al comma 5° (così come modificato dapprima dall’art. 1, L. 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 1998/50, quindi dall’art. 32, D.lgs. 276/2003, attuativo della direttiva 2001/23), che identifica come ramo d’azienda ogni “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.

Cedente e cessionario, quindi, nel contratto di cessione/affitto di ramo d’azienda devono necessariamente identificare quale sia tale ramo, specificandone i beni (ad esempio i contratti commerciali, gli uffici o anche i beni strumentali) ed i lavoratori coinvolti, questi ultimi (infatti) potrebbero appartenere ad un singolo reparto che viene ceduto – per l’appunto – a fronte di una contropartita economica che è concordata.

 La differenza tra cessione e affitto risiede unicamente nella durata (a tempo determinato nel secondo caso) della procedura che coinvolge il ramo d’azienda.

Questo è il confine all’interno del quale ci si deve muovere.

La cessione (o affitto) di ramo d’azienda, una fattispecie particolare

In occasione di una procedura di cessione del ramo d’azienda i soggetti coinvolti, cedente e cessionario, avviano una vera e propria riorganizzazione della propria compagine societaria da cui potrebbe discendere la necessità di un nuovo assetto interno: nuovi reparti, nuova distribuzione di mansioni e carichi di lavoro, e molto più semplicemente potrebbero emergere degli esuberi di personale prima non evidenziati.

Tuttavia la logica che accomuna il trasferimento e la cessione di azienda è la medesima tutela dei lavoratori coinvolti, per i quali deve essere garantito il posto di lavoro e la conservazione dei diritti acquisiti, nonché la garanzia dei crediti di lavoro per i quali cedente e cessionario restano legati in solido fino al soddisfo; in questi casi si verifica una successione del contratto del lavoratore, che si sottrae alla disciplina relativa alla cessione del contratto ex art. 1406 cod. civ. (non essendo necessario alcun consenso del lavoratore stesso), e che in alcuni casi può essere utilizzata in modo strumentale per tentare di aggirare la disciplina sui licenziamenti individuali e collettivi. L’espulsione di lavoratori “non graditi” o semplicemente in eccesso, può essere tentata proprio attraverso questa sottile operazione di taglio del singolo ramo d’azienda.

Operazione illecita (chiaramente) che comporta, stante la natura fraudolenta, la nullità dell’atto di recesso ed il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro con transito alle dipendenze della società cessionaria oppure il rientro nell’organico della cedente.

E’ evidente, dunque, che si tratti di un’operazione estremamente delicata e con requisiti formali e sostanziali del tutto imprescindibili.

I lavoratori addetti al ramo d’azienda trasferito cui si applica la specifica disciplina prevista dall’articolo 2112 cod. civ. sono i lavoratori adibiti esclusivamente a mansioni inerenti a quella porzione d’azienda oggetto del trasferimento. Per quanto riguarda, invece, quei dipendenti che prestavano la propria attività lavorativa anche in altri settori dell’impresa cedente, verranno considerati appartenenti al ramo ceduto solo se prestavano la propria opera in modo prevalente presso il ramo di cui si discute.

Se però l’imprenditore cedente decide di mantenere alle proprie dipendenze alcuni dipendenti che prestavano la propria opera nella parte d’azienda ceduta, questi lavoratori non possono vantare alcun diritto nei confronti dell’acquirente.

Da questo ultimo passaggio si apre il punto focale sulla legittimità dei licenziamenti che eventualmente verrebbero irrogati al personale non transitato con la cessionaria.

 

Il giustificato motivo oggettivo

La procedura di cessione del ramo d’azienda, infatti, ha delle inevitabili conseguenze sia nella società cedente che nella cessionaria, le quali potrebbero avviare una profonda fase di riorganizzazione delle rispettive strutture e prendere atto, solo in quel momento, della presenza di esuberi al personale su cui intervenire.

Le situazioni che possono crearsi sono di due tipi.

 Dalla parte della società cedente, potrebbe verificarsi che il personale rimasto in forze non sia più utilizzabile dopo la cessione del ramo, poiché (molto semplicemente) svolgeva delle mansioni che a seguito della procedura non sono più necessarie in azienda. A questo punto, si dovrà avviare un licenziamento individuale o una procedura di licenziamento collettivo, ponendo alla base dell’eventuale recesso il giustificato motivo oggettivo della soppressione del posto di lavoro: non è la cessione di ramo il motivo di licenziamento, ma lo è la riorganizzazione della compagine societaria quale conseguenza di tale medesima cessione.

D’altro canto, il personale che sarebbe licenziato in questo caso non potrebbe reclamare il passaggio alle dipendenze della società cessionaria poiché non rientrante nel ramo ceduto e purché, chiaramente, non vi sia stata promiscuità nelle mansioni assegnate.

Da parte della società cessionaria, invece, si potrebbe verificare l’esubero del personale addetto ad una determinata funzione che, a seguito della cessione del ramo, è stato ulteriormente integrata da lavoratori con ruoli analoghi e fungibili. Nulla vieta, a questo punto, l’avvio di una procedura di licenziamento ove si tenga conto dei carichi di famiglia, dell’anzianità di servizio e delle ragioni tecnico/organizzative sicuramente peculiari della cessionaria, la quale ha sottoscritto un contratto di cessione valutandone l’impatto complessivo sulla propria struttura.

Illegittimità o nullità del licenziamento?

 A questo punto, va sciolto il nordo gordiano. E’ valido il licenziamento intimato contestualmente, o successivamente, alla cessione del ramo d’azienda? 

Dunque, ai sensi dell’art. 2112, comma 4, cod. civ., “il trasferimento d’azienda non costituisce in sé motivo di licenziamento” (individuale – per giustificato motivo oggettivo – o collettivo); eppure il menzionato comma 4, esordisce con l’incisoferma restando la facoltà di esercitare il recesso alla stregua della normativa in materia di licenziamenti”: in questo caso, allora, non si è di fronte ad un divieto di licenziamento per motivi economici, se gli stessi sono poi comprovati.

Cfr. sul punto è utile la lettura/analisi di Cass. 24835 del 9.10.2018.

La Cassazione ha affermato che, se è vero che l’art. 2112 cod. civ. dispone che il trasferimento non può essere di per sé ragione giustificativa di un licenziamento, altrettanto vero è che detta norma fa comunque salvo il potere di recesso del datore secondo le prerogative al medesimo attribuite dalla normativa generale. Per la sentenza, ne consegue che il trasferimento di azienda non può impedire un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, laddove lo stesso sia fondato su una reale esigenza inerente la struttura aziendale (come, ad esempio, la soppressione del posto di lavoro); secondo la Suprema Corte, ai fini della valutazione della legittimità del recesso datoriale, risulta irrilevante il fatto che la riorganizzazione dell’azienda avvenga in un momento contestuale al trasferimento, trattandosi di una legittima prerogativa riconosciuta alla parte datoriale.

Unico onere posto in capo all’imprenditore è, quindi, quello di dimostrare che il licenziamento è direttamente connesso alla citata riorganizzazione e che la soppressione del posto (per esempio) sia effettiva. Non a caso la giurisprudenza ritiene che il licenziamento sia legittimo quando la ragione giustificatrice oggettiva è autonoma (ovvero scissa dal fatto trasferimento) e “il licenziamento non è in rapporto causale diretto con il trasferimento ma piuttosto con il nuovo assetto organizzativo che può comportare la soppressione del posto di lavoro e dunque con una ragione diversa dalla vicenda traslativa, a nulla rilevando la simultaneità degli eventi”.

L’ineccepibile conclusione, che limita fortemente la portata di quel dettato codicistico (privandolo appunto di ogni contenuto concreto) è suffragata dall’art. 4 della direttiva 2001/23/CE ove è stabilito che “il trasferimento … non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Ma tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o di organizzazione che comportano variazioni sul piano del¬l’oc¬cupazione”.

Conclusioni e questioni pratiche

Sicuramente ci sono alcuni accorgimenti tecnici, e pratici, a cui si deve porre attenzione nel momento in cui si va a sottoscrivere un contratto di cessione/affitto di ramo d’azienda, anche in ragione di quanto sopra richiamato, ed al fine di evitare possibili contenziosi. Pertanto, partendo dal presupposto che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbe legittimo nel momento in cui le ragioni giustificatrici sono comprovate (ad esempio, l’esistenza di una riorganizzazione effettiva dell’azienda cedente o cessionaria, da cui sia poi derivata la presenza di esuberi) è altrettanto vero che la cessione deve essere molto lineare: ad esempio, se la cessione ha per oggetto un reparto della cedente, non potranno transitare solo alcuni dipendenti, ma tutto il reparto, poiché il rischio sarebbe l’impugnazione della procedura e degli eventuali licenziamenti poi intimati.

Allo stesso modo, si deve porre massima attenzione alle esternalizzazioni che possono comportare atti in frode alla legge oppure al caso dei licenziamenti intimati a non domino. La creazione di società ad hoc (le c.d. newco) ove far transitare parte del personale oggetto della cessione, ad esempio, non mette al riparo dal contenzioso – la giurisprudenza ha avuto modo già di esprimersi in occasione di Cass. 31551/2024 e di 27322/2023 per quel che riguarda i licenziamenti inesistenti intimati da parte del soggetto non più titolare del rapporto di lavoro.

Infine, si deve porre particolare attenzione alle mansioni prevalenti svolte da parte del personale che non transita all’atto della cessione poiché potrebbero esservi delle esclusioni non legittime.

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*Avv. Marco Proietti – Foro di Roma