Gli incarichi retribuiti e non autorizzati del pubblico dipendente: profili sanzionatori, giurisdizione contabile ed “exordium praescriptionis”
Profili sanzionatori, giurisdizione contabile ed “exordium praescriptionis”
L’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego , di cui al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, disciplina la materia delle incompatibilità, del cumulo di impieghi e di incarichi e prevede un particolare regime grazie al quale i pubblici impiegati possono svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o privati, purché autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, la quale ha l’onere di fissare dei criteri oggettivi e predeterminati in base al quale concedere o negare la possibilità di rilasciare l’autorizzazione.
Di particolare rilevanza sono le disposizioni e le conseguenze in caso di attività svolta in assenza dei presupposti, di cui al comma 7 e al comma 7-bis dell’art. 53 del Testo unico in esame.
Infatti, il comma 7 sancisce il divieto di svolgere incarichi non retribuiti che non siano stati previamente autorizzati o conferiti dall’Amministrazione di appartenenza, stabilendo che “ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni , anche potenziali, di conflitto di interessi ”.
Lo stesso comma sancisce che, in caso di inosservanza del divieto e salve le più gravi sanzioni e la possibilità di essere sottoposto a procedimento disciplinare, il compenso percepito per le prestazioni eventualmente svolte “…deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Il successivo comma 7-bis, prevede che: “ l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La norma in questione ha come scopo quello di evitare che i dipendenti svolgano attività vietate per legge ai lavoratori della P.A., che li impegnino eccessivamente trascurando i propri doveri d’ufficio o che possano determinare un conflitto d’interesse con l’attività lavorativa, pregiudicando l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente.
Alla luce delle previsioni normative sopra delineate, è chiaro che il dipendente pubblico possa, quindi, svolgere attività extra lavorative, quale forma di espressione della propria personalità in ossequio all’art. 2 della Costituzione, ma queste siano soggette ad un rigoroso sistema di limiti, di autorizzazioni o di comunicazioni.
In particolare, la II Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello della Corte dei conti, nella recentissima pronuncia in data 14 settembre 2023, n. 254, esprimendosi sulla forma della richiesta di autorizzazione, ha affermato che la stessa, al pari dell’autorizzazione concessa “devono avere la forma scritta ad substantiam sicché sul punto non può essere ammessa alcuna prova testimoniale (art. 2725 c.c.). […] Tale forma, che garantisce all’interessato di conoscere l’iter logico motivazionale seguito dall’Amministrazione e, conseguentemente, rende possibile, sia da parte dell’interessato che da parte del giudice, il sindacato sulla legittimità dello stesso, è pertanto un elemento imprescindibile del provvedimento amministrativo e, quindi, anche dell’autorizzazione di cui all’art. 53 comma 7 cit.. Alla stessa stregua, l’istanza del dipendente pubblico che dà avvio al procedimento amministrativo, e quindi anche al provvedimento autorizzatorio di cui all’art. 53 comma 7 d.lgs 165/2001, deve avere la stessa forma scritta. In assenza di tale forma, dunque, non vi è alcuna giuridica manifestazione di volontà del dipendente idonea a porre a conoscenza l’Amministrazione di svolgere attività extraistituzionale”.
I limiti allo svolgimento di attività extraprofessionali sono introdotti al fine di tutelare l’immagine di una P.A. terza e imparziale, nel pieno rispetto del principio di buon andamento delineato dall’art. 97 della Costituzione, per cui, nel perseguimento degli scopi istituzionali cui è predisposta e teleologicamente vincolata, ha la necessità di agire in posizione di equidistanza e non discriminazione delle parti coinvolte.
L’imparzialità è assicurata da plurime disposizioni, le cui principali sono l’accesso all’impiego mediante concorso pubblico, lo svolgimento di gare di appalto ad evidenza pubblica, il principio di motivazione dell’atto amministrativo e la disciplina delle comunicazioni e delle autorizzazioni allo svolgimento di attività extraprofessionali.
Quest’ultima ha come fine ultimo quello di superare il rischio di esporre il pubblico dipendente e, di riflesso, la P.A. di appartenenza, al rischio di conflitto di interesse, menzionato nell’art. 6 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 il quale, definendo le funzioni del responsabile del procedimento amministrativo di cui all’art. 6 della medesima legge, afferma che egli, unitamente ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale “devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
Tale concetto nasce in ambito privato, ed è chiaramente evidenziato negli istituti della tutela, della curatela e della rappresentanza volontaria, nonché di quella organizzativa tipica dell’ambito societario. Nel diritto privato le forme di rappresentanza, a prescindere dal fatto che sia legale o volontaria, tutelano il principio di autonomia contrattuale, per cui in questo caso il conflitto di interessi sorge solo se il rappresentante è portatore di un interesse personale antitetico rispetto a quello del rappresentato.
Ben diverso è il caso di conflitto di interessi che riguarda la Pubblica Amministrazione, ovvero la situazione in cui un interesse privato interferisce, anche in via solo potenziale, con la capacità di un funzionario pubblico ad agire in conformità ai suoi doveri e responsabilità per realizzare l’interesse cui l’Ente è demandato, quale espressione di una collettività e di interessi generali.
Altre azioni sono richiamate nel D.P.R. n. 62/2013 , ovvero nel Regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001, n.165 derivante dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, c.d. legge anticorruzione.
Il codice di comportamento è stato adottato con Decreto del Presidente della Repubblica, pertanto non ha solo valenza deontologica, ma è una fonte di diritto oggettivo con forza contrattuale, intervenendo direttamente nel rapporto di lavoro che si instaura tra il pubblico dipendente e l’amministrazione di appartenenza.
Analizzate le finalità dei limiti all’esercizio delle attività extraprofessionali e i profili di estensione del conflitto di interessi di matrice pubblicistica, resta da chiarire le conseguenze cui si espone il dipendente pubblico che riceve compensi per una attività soggetta ad autorizzazione e non preventivamente richiesta e ottenuta dall’amministrazione di appartenenza e la natura delle sanzioni di cui ai commi 7 e 7-bis dell’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego, di cui al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
A tal proposito, le Sezioni riunite della Corte dei conti nella sentenza n. 26/2019 analizzano la fattispecie disciplinata dai commi 7 e 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, relativa agli incarichi svolti da dipendenti pubblici in assenza del preventivo conferimento o di autorizzazione da parte della P.A. di appartenenza, atteso che il predetto quadro regolamentare ha generato un ampio dibattito per le difficoltà di individuare un coordinamento tra le due disposizioni.
In dettaglio, gli aspetti risultati maggiormente problematici sono stati quelli attinenti alla giurisdizione, ossia se l’azione di recupero delle somme indebitamente percepite e non riversate dai dipendenti pubblici, sia conoscibile dal giudice ordinario o rientri nella competenza della Corte dei conti e, in subordine, quello del carattere dell’eventuale azione erariale, se abbia natura sanzionatoria o risarcitoria.
In tema di riparto della giurisdizione sull’azione in questione si sono confrontati due orientamenti.
Un primo orientamento, confermato da alcune pronunce della Cassazione riguardanti fattispecie antecedenti alla novella normativa del 2012 che ha introdotto il c. 7-bis all’art. 53 citato, ha ravvisato la giurisdizione del giudice ordinario, ritenendo che l’obbligo di riversamento delle somme avesse una natura sanzionatoria producendo l’effetto di annullare i profitti derivanti da incarichi non autorizzati e che, dunque, fosse finalizzato a tutelare il dovere di fedeltà dei dipendenti pubblici.
Questa teoria si basa sul dato letterale del comma 7 in esame, che sancisce che “… in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti…”, per cui il riferimento alle “ più gravi sanzioni ” è da intendersi quelle legate al rapporto di lavoro contrattualizzato, di competenza del giudice ordinario.
La norma fissa il quantum della restituzione pari alla totalità del compenso percepito, per cui la quantificazione appare sganciata dall’accertamento sia di un eventuale danno all’erario, fulcro della responsabilità amministrativa, sia degli altri elementi tipici dell’illecito erariale, delineando una fattispecie sanzionatoria.
Questo primo elemento su cui si basa la giurisdizione del giudice ordinario è rafforzata dalla previsione che la possibilità che l’obbligo di riversamento dell’indebito compenso gravi sul terzo erogante , escludendo, di conseguenza, la competenza della procura contabile, poiché non è richiesto e, invero, non è neanche probabile che il terzo sia legato alla P.A. da un rapporto organico o di servizio.
Queste considerazioni, maturate sulla base del tenore letterale della norma, sono ulteriormente rafforzate dall’assunto per cui l’eventuale azione della Procura della Corte dei conti sarebbe gravata, quale elemento imprescindibile dell’azione di responsabilità, dalla ricerca e dalla determinazione della qualificazione e quantificazione di un danno erariale, che potrebbe rinvenirsi in un ipotetico danno da disservizio per le esternalità negative incidenti sull’assetto organizzato dell’amministrazione di appartenenza, dovuto alla sottrazione di energie lavorative del dipendente pubblico, sottratto nel suo impiego per via di un impegno esterno, concomitante e slegato dal proprie funzioni e mansioni inserite nell’assetto organizzativo della P.A.
Secondo un’altra lettura, sviluppata prevalentemente dalla giurisprudenza contabile , i commi 7 e 7-bis dell’art. 53, rappresenterebbero una ipotesi unitaria di condotta tipizzata produttiva di danno erariale, la cui consistenza sarebbe quantificata, in via presuntiva dal legislatore , nella misura del compenso percepito per lo svolgimento del lavoro extra-istituzionale non autorizzato.
In base a tale ricostruzione, l’omesso riversamento viene in rilievo, non come autonoma condotta, ma unicamente quale momento in cui il danno (già verificatosi con lo svolgimento di funzioni extra-istituzionali non autorizzate), si manifesta come concreto e attuale e, quindi, come innesco dell’interesse ad agire del pubblico ministero erariale.
L’obbligo di riversamento sarebbe scollegato dalle sanzioni disciplinari, poiché esse attengono alla violazione di obblighi connessi alla esecuzione del contratto di lavoro .
In questo contrasto si innesta la pronuncia in commento delle Sezioni riunite, le quali operano una distinzione tra le condotte previste dalle disposizioni di cui ai commi 7 e 7-bis dell’art. 53 .
La prima disposizione, avente chiara finalità dissuasiva, nell’assunzione di incarichi non autorizzati preventivamente dalla P.A., impone una condotta specifica al dipendente (o eventualmente al terzo erogatore), consistente nell’obbligo di riversamento del compenso derivante dall’incarico illegittimamente svolto. Trattasi di un obbligo che prescinde dall’accertamento di un pregiudizio subito dalla P.A. di appartenenza, in quanto finalizzato a neutralizzare l’utilità conseguita. I presupposti dell’obbligo restitutorio, sono individuabili esclusivamente nell’assenza di autorizzazione e nell’espletamento dell’incarico.
Ciò non esclude, naturalmente, che la condotta del dipendente che abbia svolto un incarico non autorizzato produca anche pregiudizi alla P.A. di appartenenza, per i quali ben potrebbe sussistere l’azione erariale, come nei casi di danno da disservizio o di danno all’immagine, astrattamente ipotizzabile nel caso di incarichi in conflitto di interesse con la P.A. di appartenenza, sebbene siano necessari ulteriori, imprescindibili, presupposti per la configurazione del danno in questione.
Dunque, l’inquadramento dell’obbligo di cui al c. 7 dell’art. 53 del Testo unico in esame, operato dalla pronuncia in commento, si ponga in linea con il primo dei due orientamenti in contrasto, assumendo l’obbligo restitutorio connotati sanzionatori, a protezione dei beni costituzionalmente tutelati, quali l’imparzialità del dipendente pubblico e la sua esclusività a vantaggio del servizio pubblico.
Diversamente, il c. 7-bis del medesimo articolo, disciplina una autonoma condotta, foriera di responsabilità erariale. Tale condotta, legislativamente tipizzata, si pone a valle dell’obbligo di riversamento delle somme percepite per incarichi non autorizzati e ne presuppone l’inadempimento. In dettaglio, l’omissione del riversamento è suscettibile di generare un pregiudizio da mancata entrata per le casse pubbliche.
Tale ricostruzione bipartita è in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione ( Cass., S.U., 26 agosto 2019, n. 21692 ) la quale, implicitamente riconosce le due condotte. Infatti, con riferimento alla prima, ammette l’azione della P.A. tesa ad ottenere, innanzi al giudice ordinario, il versamento delle somme indebitamente percepite; invece, con riferimento alla seconda, l’azione della procura erariale in caso di omesso versamento del compenso da parte del dipendente.
Il riconoscimento della giurisdizione contabile nella materia degli incarichi non autorizzati pone il problema dell’individuazione del rito processuale applicabile, ossia quello ordinario della responsabilità risarcitoria o quello delle fattispecie sanzionatorie, ex art. 133 c.g.c ..
Anche su tale aspetto si sono registrati due orientamenti contrastanti. Alcune pronunce hanno ribadito la natura risarcitoria della fattispecie da omesso riversamento dell’importo “indebitamente percepito” dal pubblico dipendente in assenza di autorizzazione ; in altri casi si è, invece, optato per la soluzione sanzionatoria, ravvisando la ratio della norma nell’obiettivo di contrastare, indipendentemente da un pregiudizio subito dalla PA, la violazione del dovere di esclusività del servizio prestato dal pubblico dipendente, salvo autorizzazione, con una sanzione predeterminata nel quantum e vincolante per il giudice .
Le Sezioni riunite risolvono la problematica privilegiando la tesi risarcitoria della fattispecie di cui all’art. 53, c. 7-bis, conseguente all’omesso versamento dei compensi da incarichi non autorizzati.
A tal fine vengono richiamati gli approdi giurisprudenziali e della più autorevole dottrina in merito ai tratti distintivi della responsabilità sanzionatoria rispetto a quella risarcitoria , per cui si ritiene che la responsabilità sanzionatoria è finalizzata ad apprestare una particolare tutela a valori costituzionalmente rilevanti, prevedendo conseguenze negative a carico di coloro i quali ne mettono a rischio l’incolumità a prescindere dall’effettiva causazione di un pregiudizio alle casse pubbliche .
In queste ipotesi, il legislatore disciplina sia il comportamento illecito che la misura sanzionatoria, individuata tra un minimo e un massimo, nel rispetto del principio di legalità previsto dall’art. 25 della Costituzione e ripresi nell’ art. 133 c.g.c. ., che al primo comma sancisce che “ferma restando la responsabilità di cui all’ articolo 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20, e successive modificazioni, quando la legge prevede che la Corte di conti irroga, ai responsabili della violazione di specifiche disposizioni normative, una sanzione pecuniaria, stabilita tra un minimo ed un massimo edittale, il pubblico ministero d’ufficio, o su segnalazione della Corte nell’esercizio delle sue attribuzioni contenziose o di controllo, promuove il giudizio per l’applicazione della sanzione pecuniaria”.
Da tali fattispecie di responsabilità sanzionatoria “pura”, vanno distinte quelle ipotesi di responsabilità amministrativa c.d. “ tipizzata ”, nelle quali il legislatore si limita a prevedere che una determinata condotta sia fonte di responsabilità erariale, facendo rimando ai caratteri generali della responsabilità amministrativa per quanto attiene sia alla quantificazione del danno che alla necessità di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi, di cui alla legge n. 20/1994.
Alla luce della richiamata distinzione di fondo, le Sezioni riunite proiettano la fattispecie di cui al comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. 165/2001 all’interno della seconda categoria, ovvero della responsabilità risarcitoria a condotta tipizzata.
Infatti, lo svolgimento di attività extra-lavorativa non autorizzata fa sorgere l’obbligo di riversamento del compenso sul dipendente e il corrispondente diritto di credito della P.A. a ricevere la relativa entrata e, dunque, l’omesso riversamento configura un danno erariale da mancata entrata.
Dunque, appare chiaro che da ciò derivi la soggezione della fattispecie in esame al regime sostanziale e processuale dell’ordinaria responsabilità amministrativo-contabile, ovvero l’obbligo per il Pubblico Ministero di avviare l’azione in presenza di una notizia specifica e concreta di danno, ex art. 51 comma 1 del c.g.c. e dovendosi fare applicazione del rito ordinario in luogo di quello speciale di cui agli artt. 133 e ss. del c.g.c..
Per quanto attiene l’elemento psicologico, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la condotta del pubblico dipendente che abbia omesso di richiedere l’autorizzazione allo svolgimento delle attività extraprofessionali e di comunicare, conseguentemente, i compensi percepiti sia caratterizzata dal dolo.
In questo senso si è espressa anche la II Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello in data 14 settembre 2023 con la sentenza n. 254, la quale chiarisce il momento di exordium praescriptionis e il principio di occultamento doloso in relazione alla mancata comunicazione del dipendente pubblico.
La determinazione del dies a quo dal quale far decorrere i termini di prescrizione coincide con la scoperta del fatto dannoso da parte dell’Amministrazione e il legislatore ha previsto lo slittamento in avanti di tale termine nell’ipotesi di un occultamento doloso oggettivo, ovvero allorché l’Ente di appartenenza non sia nelle condizioni obiettive di conoscere il danno e, quindi, di esercitare l’azione ai sensi dell’art. 2935 del c.c..
Oltretutto, la Cassazione si è espressa più volte ritenendo che l’obbligo giuridico di informare, richiesto per occultare il fatto pregiudizievole, può estrinsecarsi anche in una semplice omissione, c.d. “dolo omissivo” quando chiaramente riguardi atti dovuti, ai quali, cioè, il debitore è tenuto per legge.
Infine, anche la giurisprudenza contabile ritiene pacificamente che l’occultamento doloso si possa realizzare attraverso un comportamento meramente omissivo dell’obbligato avente a oggetto un atto cui egli sia tenuto per legge, non rilevando il fatto che l’Ente di appartenenza avrebbe potuto svolgere autonomamente dei riscontri e rilevare le incongruenze e né, tantomeno, è richiesta una condotta attiva dell’obbligato volta a celare o a nascondere ciò che invece avrebbe dovuto dichiarare.
Alla luce di ciò, è chiaro che le disposizioni di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 pongono in capo al dipendente pubblico un obbligo comunicativo, finalizzato ad informare la propria amministrazione riguardo lo svolgimento di attività extraistituzionale, per cui la mancata richiesta di autorizzazione alla propria Amministrazione per lo svolgimento di attività extraistituzionale integra l’occultamento doloso richiesto dal legislatore per lo slittamento in avanti del dies a quo del termine prescrizionale.
In conclusione, anche le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza del 23 febbraio 2021, n. 4852 , si sono pronunciate in merito alle disposizioni di cui ai commi 7 e 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, statuendo che le stesse rappresentano ipotesi di responsabilità erariale, che “il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico”.
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*A cura di Dario Allegrucci, Capitano della Guardia di Finanza - Comandante della Compagnia di Orio al Serio (BG), Socio Centro Studi Borgogna