Greenwashing, in attesa del recepimento della Direttiva la proposta di rimedi “giusti” e non “insostenibili”
Nell’attesa del recepimento, che dovrà avere luogo entro il 27 marzo 2026, continua a trovare applicazione una disciplina interna che non presta specifica attenzione al tema, ma che si adatta alle nuove circostanze cercando di offrire validi rimedi ai consumatori
La strategia di greenwashing, adottata da una impresa in violazione dei principi di correttezza professionale e di lealtà nell’attività concorrenziale, ha un duplice effetto: quello di distrarre la clientela che preferisce rivolgersi all’impresa apparentemente rispettosa dell’ambiente con conseguente danno reputazionale che segue al debunking di informazioni scorrette e falsi proclami, e quello di spingere l’impresa non menzognera ad affrontare costi molto elevati per adeguarsi agli indici ecologici vantati da altri.
Il greenwashing risponde al bisogno dei consumatori di soddisfare il desiderio di compliance rispetto ad esigenze sociali, nonché di superare un moto interiore, da alcuni teorizzato in eco-ansia, ossia nella paura delle conseguenze che possano scaturire da eventi naturali cagionati anche dalle condotte umane.
Tale pratica commerciale può trovare forma in vari modi: è il caso della proposta di una “Conscious Choice” formulata da una nota catena di abbigliamento che induceva ad acquistare “capi creati con maggiore attenzione per il pianeta”; o di slogan come “Made to be remade” e “End plastic waste” adottati da un noto gruppo internazionale di capi sportivi o ancora di pubblicità come quella con cui si reclamizzava un diesel bio, green e rinnovabile, che “riduce le emissioni gassose fino al 40%”.
Da ultimo, con un provvedimento di avvio di istruttoria dello scorso 25 settembre 2024, l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha contestato a S., colosso dell’ultra fast fashion, di porre in essere una serie di pratiche apparentemente ingannevoli integrate da affermazioni ambientali che risultano generiche, vaghe, confuse e fuorvianti in tema di “circolarità” e di qualità dei prodotti e del loro consumo responsabile.
E’ chiaro che qualunque sia la forma adottata dal messaggio pubblicitario, si tratta, in ogni caso, di forme volte a carpire il consenso del consumatore sensibile alle tematiche ambientali ed intenzionato a contribuire, attraverso i propri acquisti, ad un miglioramento delle condizioni di vita in un ambiente più protetto e pulito.
Il fenomeno in parola pare tutt’altro che di poco momento atteso che, secondo uno studio della Commissione Europea, ben il 53,3% delle indicazioni ambientali fornite nei messaggi pubblicitari forniscono informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche dei prodotti in tutta l’UE e in un’ampia gamma di gruppi di prodotti.
Cosa rischiano le imprese?
L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (che può agire d’ufficio o sollecitata da singoli consumatori o da organizzazioni) ha il potere di inibire la prosecuzione delle pratiche commerciali scorrette, di sospenderle provvisoriamente ove sussistano particolari motivi d’urgenza ovvero di “ordinare, anche in via cautelare, ai fornitori di servizi di connettività alle reti internet, ai gestori di altre reti telematiche o di telecomunicazione nonché agli operatori che in relazione ad esse forniscono servizi telematici o di telecomunicazione, la rimozione di iniziative o attività destinate ai consumatori e diffuse attraverso le reti telematiche o di tele-comunicazione che integrano gli estremi di una pratica commerciale scorretta”. In caso di inottemperanza senza giustificato motivo, l’Autorità Garante può applicare rilevanti sanzioni pecuniarie.
Cosa può fare il consumatore?
Ad oggi è in fase di recepimento la direttiva CE 2024/825 che comporterà una serie di modifiche al codice del consumo e disciplinerà alcune condotte oggetto di accertamento da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Nello specifico, la direttiva pone una serie di divieti e di obblighi generici di trasparenza in materia di claims ambientali e di sostenibilità. Porterà all’inserimento di nuove regole specifiche relative, ad esempio, ai marchi di sostenibilità e alle relative certificazioni, spesso mancanti, alle dichiarazioni sulle prestazioni ambientali future, ai green claim tanto generici quanto pericolosi nel loro messaggio ingannevole.
Nell’attesa del recepimento, che dovrà avere luogo entro il 27 marzo 2026, continua a trovare applicazione una disciplina interna che non presta specifica attenzione al tema, ma che si adatta alle nuove circostanze cercando di offrire validi rimedi ai consumatori.
Se la ricerca dei “giusti rimedi” di cui il consumatore può disporre qualora il professionista ponga in essere pratiche di greenwashing deve rispondere alla necessità di tutelare i consumatori deboli, essa, parimenti, deve essere funzionale al corretto andamento del mercato ed alla sostenibilità delle relazioni commerciali. Di qui la necessità che i rimedi proposti non siano “insostenibili” come accadrebbe nell’ipotesi in cui i consumatori, esercitando il diritto di ripensamento, dovrebbero restituire, oltre che la caparra o il prezzo pagato, anche la merce imballata con una notevole produzione di rifiuti.
Per ovviare a questa situazione, si ritiene che possa applicarsi la disciplina in tema di garanzia di conformità (artt. 128 ss. Codice Consumo) e, al riguardo, le caratteristiche ambientali (durata, funzionalità, compatibilità e sicurezza), che il consumatore può attendersi da un bene, assurgono a parametro di conformità con la conseguenza che, qualora non vi sia rispondenza tra la sostenibilità dichiarata nei claims pubblicitari e quella effettiva del prodotto oggetto di vendita, possono trovare applicazione i rimedi, quali la riparazione o la sostituzione o, in alcuni casi, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
Al riguardo, però occorre distinguere tra bene finito o bene sottoposto ancora al proprio ciclo produttivo. Laddove, infatti, la falsa dichiarazione di compatibilità o non conformità alle qualità ecologiche riguardi il bene finito, il consumatore può chiedere la riparazione o il ripristino del bene che non cagionano un impatto ambientale rilevante e diventano un disincentivo contro l’obsolescenza programmata. Quando, invece, la falsa dichiarazione di ecocompatibilità riguarda il ciclo produttivo ma il difetto non è tale da inficiare l’an della contrattazione, il rimedio sostenibile appare essere quello della riduzione del prezzo e dell’eventuale risarcimento del danno.
A fronte di un fenomeno tanto illegittimo quanto odioso, l’esperienza insegna che la segnalazione all’Autorità Garante, magari di un numero di soggetti danneggiati dal fenomeno in parola, costituisce un’iniziativa utile ad inibire la continuazione della condotta rimproverata, sebbene tale azione non restituisca un vantaggio economico per il soggetto che la intraprende.
Invece, la successiva iniziativa processuale, volta a far accertare al Giudice, magari dopo l’emissione del provvedimento di condanna dell’AGCM, è in grado di soddisfare le aspettative del soggetto danneggiato con una tutela, anche risarcitoria, più ampia.
_______
*A cura dell’Avv. Roberto Panetta, Founder Panetta Law Firm