Comunitario e Internazionale

Il datore per esigenze reali può chiedere ai suoi dipendenti di non indossare il velo islamico

Va fornita la prova che, in assenza di una politica "neutra", la libertà di impresa sarebbe violata e che ci sarebbero conseguenze sfavorevoli

di Simona Gatti


Giustificabile il divieto di indossare sul luogo di lavoro indumenti che corrispondono a convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Secondo la Corte Ue (sentenza nelle cause riunite C-804/18 e C-341/19 WABE e MH Müller Handel) il datore può avere un'esigenza reale di imporre un abbigliamento neutro o nei confronti dei clienti o per prevenire conflitti sociali.

La decisione dei giudici europei ha origine da un ricorso presentato davanti al tribunale del lavoro di Amburgo da due impiegate presso una società di diritto tedesco, che per aver indossato un velo islamico sul posto di lavoro hanno ricevuto dal datore la richiesta di tornare a casa e presentarsi in ufficio senza segni vistosi della loro appartenenza religiosa.

I giudici del rinvio hanno deciso di interrogare la Corte sull'interpretazione della direttiva 2000/78 ed è stato anche chiesto se una norma interna di un'impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose costituisca, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di precetti religiosi, una discriminazione diretta o indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali; a quali condizioni l'eventuale differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali che discende da una tale norma possa essere giustificata e quali siano gli elementi da prendere in considerazione nell'ambito dell'esame del carattere appropriato di una tale differenza di trattamento.

Sul fronte delle disparità di trattamento, secondo Lussemburgo la norma controversa è stata applicata in maniera generale e indiscriminata, dato che la stessa cosa è stata chiesta e ottenuta nei confronti di una lavoratrice che indossava una croce religiosa.
Per quanto riguarda poi le finalità del datore, la Corte rileva che la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere legittima: gli elementi rilevanti che servono a individuare una tale esigenza sono, in particolare, i diritti e le lecite aspettative dei clienti o degli utenti e, più nello specifico, in materia di istruzione, il desiderio dei genitori di far educare i loro figli da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali quando sono a contatto con i bambini. Inoltre nel valutare la sussistenza di questa necessità, è particolarmente rilevante che il datore fornisca la prova del fatto che, in assenza di una politica "neutra", la libertà di impresa sarebbe violata, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui esse si svolgono, ed egli quindi subirebbe conseguenze sfavorevoli.

In conclusione la richiesta del datore deve rispondere a un bisogno reale e, nell'ambito della conciliazione dei diritti e interessi in gioco, i giudici nazionali possono tener conto del contesto specifico del rispettivo Stato membro e, in particolare, delle disposizioni nazionali più favorevoli per quanto concerne la tutela della libertà di religione.

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