Il divieto di pantouflage introdotto dalla legge anticorruzione non è incostituzionale
Finalità della disciplina è il contenimento del rischio di situazioni di corruzione e più in generale di maladministration
Il termine pantouflage deriva da «pantoufle» («pantofola»), vocabolo inserito per la prima volta nel gergo dell'École Polytechnique (accademia militare francese di alta formazione e ricerca) nel 1880, con il quale si indicava la somma di denaro che un iscritto doveva restituire all'istituzione pubblica nel caso avesse rinunciato al servizio di Stato, per essere assunto da una ditta privata, prima di aver completato dieci anni di servizio. La sanzione in danaro aveva la funzione di ripagare le spese di formazione, ma soprattutto di dissuadere intenti di acquisire grandi capacità e competenze da utilizzare per poi «scivolare» nel mercato del lavoro privato: appunto da «la botte» (stivale militare) a «la pantoufle» (scarpetta civile).
Nella vicenda esaminata dal Consiglio di Stato (sentenza 9684/2022) secondo l'attore la disciplina sul divieto di pantouflage sarebbe incostituzionale in quanto si porrebbe in contrasto con il diritto all'esplicazione della personalità del lavoratore. In altre parole violerebbe la Costituzione perché la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto e tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha dichiarato infondata l'ipotizzata illegittimità costituzionale della normativa sul divieto di pantouflage. Secondo il giudice di palazzo Spada nel bilanciamento dei contrapposti interessi di rango costituzionale e in una logica comparativa, la norma sospettata di incostituzionalità a ben vedere mira a salvaguardare il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione pubblica vietando il meccanismo delle cosiddette revolving doors ("porte girevoli"); nonché ad assicurare il rispetto del principio che impone ai pubblici impiegati di essere al servizio esclusivo della Nazione e di adempiere alle funzioni pubbliche con disciplina ed onore. Proprio come recita la Costituzione repubblicana.
La legge anticorruzione del 2012 ha introdotto nell'Ordinamento il precetto secondo cui i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell'Amministrazione pubblica non possono svolgere nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività dell'ente svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto stabilito sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li abbiano conclusi o conferiti di contrattare con l'Amministrazione per i successivi tre anni; con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.
La ratio del divieto
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che detta normativa si basa su due rilevanti ragioni: da una parte prevedere una soglia temporale - periodo di raffreddamento - che consenta di contemperare le esigenze di imparzialità del servizio con l'interesse dei soggetti di intrattenere rapporti di impiego e professionali; dall'altra parte prevedere una soglia temporale adeguata a ritenere non più idonea l'eventuale posizione di interesse creatasi nel periodo di svolgimento delle funzioni pubbliche a recare pregiudizio all'imparzialità dell'Amministrazione pubblica. L'istituto mira, pertanto, ad evitare che determinate posizioni lavorative, subordinate o autonome, possano essere anche solo astrattamente fonti di possibili fenomeni corruttivi limitando per un tempo ragionevole, secondo la scelta insindacabile del legislatore, l'autonomia negoziale del lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro. In tal senso, il divieto è volto anche a ridurre il rischio che soggetti privati possano esercitare pressioni o condizionamenti sullo svolgimento dei compiti istituzionali, prospettando al dipendente di un'amministrazione l'opportunità di assunzione o incarichi una volta cessato dal servizio.
La finalità della disciplina è dunque quella del contenimento del rischio di situazioni di corruzione e più in generale di maladministration: in particolare, il rischio valutato dalla norma è che durante il periodo di servizio il dipendente possa artatamente precostituirsi delle situazioni lavorative vantaggiose e così sfruttare a proprio fine la sua posizione e il suo potere all'interno dell'Amministrazione per ottenere un lavoro per lui attraente presso l'impresa o il soggetto privato con cui entra in contatto. La norma prevede quindi una limitazione della libertà negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto – e a maggior ragione in costanza di rapporto - per eliminare la "convenienza" di accordi fraudolenti. Il divieto in questione può pertanto dirsi applicabile solo a fronte: della sussistenza di un rapporto tra un soggetto pubblico ed un soggetto privato; dell'esercizio da parte di un dipendente del primo di poteri autoritativi o negoziali nei confronti del secondo.
Il perseguimento del valore primario dell'imparzialità amministrativa destituisce, pertanto, di fondamento la prospettata violazione del principio costituzionale di proporzionalità dell'azione amministrativa e del principio di uguaglianza.