Casi pratici

Il licenziamento dei dirigenti, tra giustificatezza, ipotesi peculiari e garanzie procedurali

La figura del dirigente

di Paolo Patrizio

la QUESTIONE
In cosa si connota la figura del dirigente? Quali sono gli elementi caratteristici della disciplina del licenziamento del dirigente? Quali sono le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo del dirigente?

L'art. 2095 c.c. classifica i lavoratori subordinati nelle seguenti categorie: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Tuttavia, il legislatore non ha previsto alcuna indicazione specifica per la determinazione dei criteri di appartenenza a tali categorie, né ha disposto un richiamo ad altre fonti normative al fine di integrare la norma sopra indicata, attribuendo invece alla contrattazione collettiva il compito di individuare tali elementi «in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare struttura dell'impresa».
A titolo esemplificativo, l'art. 1 del Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi identifica i dirigenti come «i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all'art. 2094 del c.c. e che ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa».
In senso analogo, l'art. 1 del Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende del terziario, distribuzione e servizi stabilisce che «sono dirigenti a norma dell'art. 2094 c.c., e agli effetti del presente contratto, coloro che, rispondendo direttamente all'imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l'impresa o a una sua parte autonoma».
Non si differenzia particolarmente nella qualificazione del ruolo dirigenziale anche il Contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie, prevedendo all'art. 2 che «sono dirigenti i lavoratori/lavoratrici subordinati, ai sensi dell'art. 2094 del c.c., come tali qualificati dall'azienda in quanto ricoprano un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, di autonomia e potere decisionale ed esplichino le loro funzioni di promozione, coordinamento e gestione generale al fine di realizzare gli obiettivi dell'impresa».
Dal tenore delle definizioni delineate nella contrattazione collettiva è, dunque, possibile affermare che la figura del dirigente si caratterizza e si differenzia rispetto alle altre categorie di lavoratori in relazione ai seguenti elementi: professionalità, autonomia, supremazia gerarchica e potere direttivo.
Tuttavia, il carattere non troppo circostanziato delle disposizioni contrattuali ha sollecitato un intervento da parte della giurisprudenza, proprio al fine di individuare quegli elementi comuni alla figura professionale del dirigente e al ruolo funzionale specificamente attribuito a quest'ultimo.
A tale proposito, è opportuno segnalare che il tema in questione è stato oggetto di specifica disamina nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 30 marzo 2007, n. 7880.
In particolare, la Suprema Corte ha dato conto di un primo orientamento giurisprudenziale secondo cui «la qualifica di dirigente spetta (…) a colui che, nell'ambito dell'azienda, abbia un ruolo caratterizzato dall'ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego dell'imprenditore, in quanto preposto all'intera azienda o a un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l'andamento e le scelte dell'attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi» (cfr., tra le molte, Cass. 22 dicembre 2006, n. 27464, Cass. 9 settembre 2003, n. 13191, Cass. 16 settembre 2015, n. 18165).
È stato poi segnalato un secondo filone interpretativo per cui nelle organizzazioni aziendali complesse «può sussistere una pluralità di dirigenti di diversi livelli, con una graduazione dei loro compiti (ferma restando l'esistenza di una particolare qualità, autonomia e discrezionalità delle loro mansioni), sicché non può ritenersi perfettamente adeguata in tutte le situazioni la formula riassuntiva di alter ego dell'imprenditore a connotare la figura del dirigente» (cfr., tra le molte, Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, Cass. 28 dicembre 1998, n. 12860, Cass. 29 febbraio 2016, n. 3981 e Cass. 24 giugno 2009, n. 14835).
La Sezioni Unite hanno così concluso che «la proliferazione nei sensi esposti della categoria dirigenziale (…) si configura come l'esito finale dell'evoluzione della figura del dirigente indotta, come è stato perspicuamente evidenziato, proprio dalla contrattazione collettiva e dalla prassi sindacale, che hanno portato al riconoscimento della qualifica dirigenziale a lavoratori in possesso di elevate conoscenze scientifiche e tecniche o, comunque, dotati di tale professionalità da collocarsi nel mercato del lavoro in condizioni di particolare forza pur non essendo investiti di quei poteri di direzione in mancanza dei quali non appare appropriato il richiamo alla nozione di alter ego dell'imprenditore».
È stato, comunque, precisato che «il necessitato accrescimento della categoria scrutinata non può però spingersi sino al punto di includere in essa i cd. pseudodirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome e il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell'organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei cd. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva e tanto meno da un contratto individuale».
Di conseguenza, nonostante la presenza di alcune sentenze che limitano la figura del dirigente esclusivamente a quei soggetti identificabili come alter ego dell'imprenditore, l'analisi esposta dalle Sezioni Unite risulta essere più conforme allo sviluppo dell'organizzazione imprenditoriale, sempre più complessa e ramificata, nonché supportata da una prassi sindacale e da una contrattazione collettiva in continua evoluzione.

Quali sono gli elementi caratteristici della disciplina del licenziamento del dirigente?
Nel nostro ordinamento, la qualifica dirigenziale è soggetta ad una specifica regolamentazione, che trova il suo fondamento nella particolarità del ruolo rivestito.
Il dirigente, infatti e come visto, è una figura professionale difficilmente inquadrabile in rigidi schemi tipici, siccome caratterizzata da un'ampia autonomia sia organizzativa che decisionale e funzionalmente connessa allo svolgimento di un'attività che si pone come elemento di raccordo tra la figura dell'imprenditore e del lavoratore subordinato.
La natura eccezionale di tale ruolo giustifica una visione più sfumata degli elementi che connotano il rapporto di lavoro subordinato, assumendo, invece, particolare rilevanza la sussistenza di un legame fiduciario tra datore di lavoro e dirigente, che si ripercuote non solo sulla regolamentazione del rapporto di lavoro, ma anche, e soprattutto, sulla disciplina del recesso.
Tali principi trovano conferma nella stessa presa di posizione del legislatore, che ha spesso escluso la figura dirigenziale dal suo ambito di intervento, lasciando ampi spazi alla contrattazione collettiva e al ruolo interpretativo della giurisprudenza.
Con particolare riferimento al licenziamento del dirigente, viene quindi in rilievo l'introduzione, da parte dei contratti collettivi, della nozione di "giustificatezza" quale parametro di valutazione della legittimità del recesso datoriale (vedasi Cass. civ. 17 Febbraio 2015, n. 3121), che si caratterizza per essere molto più ampia ed elastica della giusta causa e del giustificato motivo, consentendo di prendere in considerazione situazioni o condotte generalmente non integranti tali causali.
Questa differenza si fonda essenzialmente sul suddetto carattere intenso del legame fiduciario che contraddistingue il rapporto di lavoro dirigenziale.
Dalla sussistenza, infatti, di specifici poteri e di una particolare autonomia nella gestione del rapporto, discende, come contrappeso, un più ampio margine di lesione della fiducia instaurata.
Diverso è altresì il regime delle garanzie in ipotesi di licenziamento illegittimo, in quanto caratterizzato dall'assenza, salve specifiche eccezioni, della tutela reintegratoria e fondato, principalmente, sulla monetizzazione del pregiudizio subito, attraverso l'istituto dell'indennità supplementare.

La disciplina applicabile in tema di licenziamento
La peculiarità della figura dirigenziale si manifesta soprattutto con riferimento alle norme applicabili in caso di licenziamento.
L'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, disciplina di riferimento in materia licenziamenti individuali, prevede che «le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell'art. 2095 del c.c.», escludendo, quindi, i dirigenti dal relativo campo di applicazione.
La Corte Costituzionale, più volte investita della questione, ha sempre ritenuto legittima tale disposizione, in considerazione della particolare natura fiduciaria del rapporto di lavoro dei dirigenti che giustifica razionalmente la diversità di trattamento rispetto alle altre categorie di lavoratori (cfr. Corte Cost. 6 luglio 1972, n. 121; Corte Cost. 7 maggio 1975, n. 101; Corte Cost. 1° luglio 1992, n. 309; Corte Cost. 26 ottobre 1992, n. 404).
L'esclusione sopra richiamata, tuttavia, non ha carattere assoluto. L'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ha infatti sostituito l'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prevedendo, al comma 1, che «il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro» e specificando, al comma 4, che «le disposizioni di cui al comma 1 (…) si applicano anche ai dirigenti».
Il medesimo articolo, però, nulla dispone circa l'estensione dell'obbligo di motivazione del licenziamento anche alla categoria dirigenziale, determinando così un'incertezza applicativa, in relazione alla quale sono state fornite dalla giurisprudenza interpretazioni diametralmente opposte.
Secondo un primo orientamento, legato al tenore letterale della norma, l'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604 «ha esteso nei confronti del dirigente l'obbligo della comunicazione per iscritto del licenziamento, ma non quello della motivazione» (in tal senso, fra le varie: Cass. 1° giugno 2005, n. 11691; Cass. 19 giugno 1999, n. 6169 e Cass., Sez. Un., 29 maggio 1995, n. 6041).
Ad altra soluzione è approdata, invece, parte della giurisprudenza, affermando che «anche al rapporto di lavoro dirigenziale si applica il principio relativo alla necessaria tempestività del licenziamento, per cui ai fini della giustificatezza del licenziamento è necessaria una formulazione specifica dei motivi» (in tal senso, fra le varie: Cass. 11 luglio 2002, n. 10113; Cass. 28 settembre 1988, n. 5260 e Trib. Milano 12 luglio 2005) .
Quest'ultima interpretazione sembra, invero, quella più convincente. Infatti, tutte le volte in cui la Corte di Cassazione afferma che il dirigente può essere licenziato per qualsiasi motivo, purché sorretto da giustificazione (cfr., al riguardo: Cass. 9 luglio 2015, n. 14301 e Cass. 17 marzo 2014, n. 6110), implicitamente presuppone che l'esercizio datoriale del recesso non possa essere indipendente da una motivazione, e quindi risultare acausale. A ciò si aggiunga, inoltre, come la mancata indicazione dei motivi potrebbe dissimulare un licenziamento discriminatorio, con tutte le conseguenze che saranno di seguito approfondite.
La questione ha, peraltro, scarsa rilevanza pratica, considerando che la contrattazione collettiva di riferimento prevede un obbligo di motivazione, la cui assenza, come vedremo, è sanzionata con il pagamento di un'indennità supplementare a carico del datore di lavoro.
Altra questione, oggetto di dibattito giurisprudenziale, consiste nell'applicabilità dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, meglio nota come "Statuto dei Lavoratori", con particolare riferimento al comma 2, secondo cui «il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa».
A tale proposito, merita di essere segnalata una prima sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, la n. 6041 del 29 maggio 1995, secondo cui l'obbligo di contestazione disciplinare e l'assegnazione di un termine di difesa riguarderebbero unicamente la figura del «cd. pseudo-dirigente, o dirigente meramente convenzionale nel quale le mansioni concretamente attribuite ed esercitate, non hanno le caratteristiche proprie del rapporto propriamente dirigenziale», in uno alle ipotesi in cui il C.c.n.l. Applicato contenga l'espressa previsione regolamentare del procedimento e delle sanzioni disciplinari. Rimarrebbe, invece, escluso, dalle previsioni dell'obbligo di contestazione disciplinare e dell'assegnazione di un termine di difesa, il dirigente "genuino", inteso come alter ego dell'imprenditore.
Tale pronuncia ha sollevato notevoli perplessità, soprattutto con riferimento ad una precedente presa di posizione della Corte Costituzionale (cfr. sentenza 25 luglio 1989, n. 427) che si era espressa a favore di un'interpretazione estensiva della disciplina garantista dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, confermata successivamente dalla stessa Corte di Cassazione secondo cui «la sopravvenuta (…) sentenza della Corte Costituzionale ha posto in evidenza una vis expansiva dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori prima non generalmente riconosciuta e per cui è necessario interpretarlo, meglio adeguandolo alla Carta fondamentale, nel senso di ritenerlo applicabile anche al licenziamento disciplinare dei dirigenti» (Cass. 28 novembre 1991, n. 12758).
La giurisprudenza maggioritaria, dunque, ha dato continuità nel suo percorso nomofilattico procedendo nel solco tracciato dalla Corte Costituzionale e ribadendo l'applicabilità dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori anche a favore dei dirigenti (cfr., in particolare, Cass. 3 aprile 2003, n. 5213 e Cass. 2 marzo 2006, n. 4614) sino al nuovo intervento delle Sezioni Unite, con la già citata sentenza 30 marzo 2007, n. 7880.
Con tale pronuncia la Suprema Corte, dando atto delle critiche intercorse e dell'intervento della Corte Costituzionale, nonché sul presupposto della necessità di una lettura in ottica evolutiva della figura del dirigente, ha statuito che «una interpretazione del dato normativo costituzionalmente orientata, che voglia rispondere anche a criteri logico-sistematici, induc(e) a condividere la tesi favorevole a estendere a tutti coloro che rivestono la qualifica di dirigenti in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro – e, quindi, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager e altri (cd. dirigenti "medi" o "minori") appartenenti alla stessa categoria – l'iter procedurale previsto dall'art. 7 st. lav.».
Tale orientamento ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva, secondo cui «la distinzione, operata dalla giurisprudenza in passato, tra dirigente apicale e dirigente convenzionale è irrilevante con specifico riferimento alle garanzie procedimentali dettate dall'art. 7 st. lav., le quali devono essere, comunque, applicate a prescindere dalla specifica collocazione che il dirigente assume nell'impresa» (cfr., tra le tante: Cass. 21 novembre 2007, n. 24246; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2553; Cass. 30 luglio 2013, n. 18270; Cass. 21 marzo 2011, n. 6367).
Da tale orientamento, che può definirsi ormai consolidato, discende anche l'obbligo da parte del datore di lavoro di rispettare il principio di tempestività del licenziamento «per cui ai fini della giustificatezza di esso, (…) è necessaria una formulazione specifica dei motivi, e una sufficiente contiguità temporale tra i fatti posti alla base del licenziamento e quest'ultimo, anche ai fini della configurabilità di un effettivo nesso causale tra i detti fatti e il recesso» (Cass. 11 luglio 2002, n. 10113).
Sul punto, è il caso di segnalare quanto ribadito più recentemente dalla giurisprudenza, che offre una chiara interpretazione dei principi sopra esposti e della relativa ratio, precisando altresì i canoni di valutazione del giudice circa la tempestività del licenziamento: «Le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi 2 e 3, legge 20 maggio 1970, n. 300 devono trovare applicazione anche nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente, ciò a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assuma nell'impresa e sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Ne consegue l'applicazione a detta categoria di rapporti anche del canone dell'immediatezza che è proprio non solo della contestazione di addebito, ma, in radice, dell'intero procedimento disciplinare poiché, da un lato, soddisfa l'esigenza di proteggere il diritto di difesa dell'incolpato la cui difficoltà cresce in misura proporzionale al decorso del tempo (per la memoria degli episodi che svanisce, per la difficoltà di reperire documenti ecc.), e, dall'altro lato, è funzionale a un esercizio delle prerogative punitive nel rispetto dei limiti imposti dalla buona fede e correttezza contrattuale e quindi dell'affidamento, anch'esso crescente con il passare del tempo, che il lavoratore matura in ordine alla determinazione datoriale di non considerare come illecita una determinata condotta. Infatti, l'atteggiamento con cui il datore di lavoro procrastina, oltre il tempo strettamente necessario ad accertare e valutare i fatti, l'intrapresa del procedimento disciplinare, lede il diritto di qualunque lavoratore, ivi compreso un dirigente, a non essere ostaggio di rilievi che il datore di lavoro si riservi di far valere nei suoi confronti quando lo ritenga opportuno. Ciò posto, la valutazione della tempestività della contestazione di addebito e della successiva sanzione disciplinare va effettuata – in mancanza di specifiche disposizioni di contratto collettivo nazionale di lavoro – tenendo conto della relatività che permea l'applicazione al caso concreto di detto canone. Detta valutazione va condotta verificando, in particolare, l'entità dell'arco temporale impiegato dal datore di lavoro dal momento in cui ha acquisito consapevolezza dei fatti, al momento in cui li ha contestati al dipendente, ponderando le esigenze imposte dalla necessità di compiere alcuni accertamenti e di valutare il fatto» (in tal senso vedasi: Trib. Perugia 22 maggio 2012, n. 355).

La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente
La non applicabilità ai dirigenti delle norme relative ai licenziamenti individuali, salve le eccezioni sopra ricordate, comporta l'inclusione di tale categoria nell'area della cd. libera recedibilità, soggetta esclusivamente alla disciplina in tema di preavviso prevista dagli artt. 2118 e 2119 c.c. e dunque al licenziamento senza preavviso, in presenza di giusta causa o al licenziamento con preavviso in tutti gli altri casi.
Il principio della libera recedibilità ha trovato, però, un contrappeso nelle previsioni della contrattazione collettiva di riferimento, con l'introduzione della nozione di "giustificatezza" del licenziamento, di cui però non viene fornita una definizione univoca, così da aggravare di fatto un vuoto normativo già esistente e determinato per una precisa scelta del legislatore: non incatenare il rapporto di lavoro dirigenziale a regole eccessivamente dettagliate e rigide.
L'obiettivo consisteva, infatti, nel garantire quell'autonomia tipica della figura del dirigente, attribuendo la regolamentazione degli equilibri del rapporto alla libera determinazione delle parti.
Tale scelta ha richiesto, però, un intervento suppletivo da parte della giurisprudenza, che ha chiarito in via preliminare come «la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo ex art. 1, legge n. 604/1966» (Cass. 17 febbraio 2015, n. 3121; cfr. anche Cass. 3 giugno 2013, n. 13918).
In particolare, la nozione di giustificatezza, al pari del giustificato motivo, può essere di natura soggettiva o oggettiva.
Sotto il primo profilo, è stato precisato che «ai fini della "giustificatezza" (…), è rilevante qualsiasi motivo che lo sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, atteso che non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente» (Cass. 17 marzo 2014, n. 6110).
In particolare, è stato rilevato che «anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extra lavorativo incidente sull'immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e, quindi, giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso» (Cass. 1° febbraio 2012, n. 1424), mentre, sotto un punto di vista oggettivo, l'ampiezza della nozione di giustificatezza comporta anche che «la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda può inoltre divenire nel tempo non pienamente adeguata nello sviluppo delle strategie di impresa del datore di lavoro nell'esercizio della sua iniziativa economica e quindi rendere, anche solo per questa minore utilità, giustificata la sua espulsione nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell'impresa sul mercato» (Cass. 11 giugno 2008, n. 15496).
Posti questi principi, appare allora necessario approfondire in quali casi il licenziamento del dirigente possa definirsi legittimo.

Giusta causa e giustificatezza soggettiva
Nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari e, quindi, determinato da circostanze attinenti alla sfera soggettiva del dirigente, è necessario porre una linea di demarcazione tra il recesso datoriale fondato su giusta causa e quello determinato da giustificatezza soggettiva.
Sul punto merita di essere richiamato, più di ogni altra considerazione, quanto affermato sull'argomento dalla Suprema Corte, la quale ha avuto modo di evidenziare come «mentre la giusta causa consiste in un fatto che, in concreto valutato (e cioè, sia in relazione alle sua oggettività sia con riferimento alle sue connotazioni soggettive), determina una grave lesione della fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto, tenuto conto altresì della natura di quest'ultimo e del grado di fiducia che esso postula, la ricorrenza della giustificatezza dell'atto risolutivo – ancor più strettamente vincolata al carattere fiduciario del rapporto di lavoro dirigenziale – è da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto lavorativo, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede» (Cass. 19 settembre 2011, n. 19074).
Tale distinzione comporta che, mentre per la giusta causa rilevano fatti o circostanze le quali, valutate nella loro accezione oggettiva e tenuto conto dell'elemento psicologico dell'autore, determinano una grave lesione del rapporto fiduciario con il datore di lavoro, la giustificatezza è una nozione «molto più ampia e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l'arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, e del divieto di licenziamento discriminatorio» (Trib. Milano 18 luglio 2014, n. 1710).
La casistica giurisprudenziale offre diversi spunti in merito alle ipotesi di recesso per giusta causa e per giustificatezza soggettiva.
Con riferimento al licenziamento per giusta causa, è stato, ad esempio, ritenuto legittimo il recesso datoriale nelle seguenti fattispecie: il direttore di banca che abbia autorizzato la concessione di anticipi sulla base di semplici fotocopie di fatture, deliberato mutui per importi superiori a quelli consentiti e permesso a terzi di accedere alla postazione del terminale con sessione aperta per l'immissione di dati riferibili a operazioni di mutuo fondiario (Cass. 1° settembre 2015, n. 17366); il direttore di banca che abbia informato un cliente dell'esistenza di un'indagine in corso in merito alle violazione di norme relative all'antievasione e all'antiriciclaggio (Cass. 17 settembre 2014, n. 19612); il dirigente di banca che abbia compiuto rischiose operazioni finanziarie ponendo in essere «comportamenti contrastanti con la legge e con i valori comunemente accettati in quanto connessi ai doveri fondamentali del lavoratore e agli interessi dell'impresa», con «grave violazione del dovere fondamentale di svolgere la propria attività con diligenza, buona fede e correttezza», soprattutto considerato «l'elevato ruolo e inquadramento» (Cass. 12 dicembre 2012, n. 22798); il dirigente che non abbia segnalato ai vertici aziendali l'esistenza di attività irregolari (Cass. 7 dicembre 2012, n. 22221); il responsabile di una filiale di banca il quale abbia compiuto operazioni sul mercato finanziario senza copertura, utilizzato irregolarmente il conto di alcuni clienti al fine di favorirli, aumentato i fidi in assenza di adeguate garanzie e, più in generale, violato il regolamento Consob (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1403); il chief financial officer che abbia fornito una errata valutazione dell'indebitamento, omettendo la stima delle imposte e l'effettuazione del relativo accantonamento, nonché l'omissione del pagamento di alcune fatture di un fornitore strategico (Trib. Milano 10 marzo 2011, n. 702); il dirigente avente funzioni di carattere strategico al quale siano addebitate una serie di operazioni fraudolente, tra cui la mancata vigilanza su anomalie operative, procedurali e organizzative, fonte di rilevante pregiudizio economico per il datore di lavoro (Trib. Genova 14 ottobre 2010); il direttore generale che abbia ottenuto risultati di gestione negativi che hanno inciso negativamente sull'affidamento fiduciario riposto dal datore di lavoro (Trib. Milano 9 settembre 2010 e Trib. Torino 21 febbraio 2009); il direttore commerciale che abbia redatto e indirizzato agli azionisti e all'amministratore delegato della società una serie di lettere contenenti espressioni lesive del prestigio dei vertici del gruppo e attacchi diretti a quest'ultimo, con particolare riferimento alla sua presunta incapacità di seguire e gestire il processo di integrazione di una società neo acquisita (Trib. Milano 9 gennaio 2008).
Per quanto concerne, invece, la giustificatezza soggettiva, si segnalano alcune pronunce che hanno ritenuto legittimo il licenziamento a causa delle seguenti condotte: il dirigente che si sia opposto ad alcune circolari aziendali, in quanto le stesse avrebbero comportato l'esautorazione delle sue funzioni, ordinando la loro immediata revoca, dietro minaccia di adire l'autorità giudiziaria e manifestando con tale condotta la sua «radicale opposizione in insanabile contrasto con la consolidata posizione di accordo della datrice di lavoro con la capogruppo» (Cass. 17 marzo 2014, n. 6110); il dirigente in malattia che si sia assentato dal domicilio nelle ore di reperibilità per la visita medica di controllo, al fine di sottoporsi a cure ambulatoriali programmabili in orari differenti (Cass. 10 aprile 2012, n. 5671); il dirigente di una nota casa automobilistica che abbia autorizzato, tramite sottoscrizione di un ordine di acquisto, spese ingenti per il trasporto di un'autovettura destinata allo svolgimento di un test che in realtà non riguardava una vettura aziendale, ma privata, e l'aver concesso in uso a un cliente, per svariati mesi, un'autovettura assegnata al servizio e destinata alle prove (Cass. 2 settembre 2010, n. 18998); il dirigente che abbia riconosciuto a una società compensi più alti di quelli corrisposti ad altri fornitori, con modalità di pagamento più favorevoli (Trib. Milano 5 dicembre 2008, n. 5126); il dirigente che abbia omesso di controllare l'ufficio amministrativo di cui era responsabile per ottenere, all'occorrenza, dati contabili certi e precisi, sulla base dei quali predisporre un progetto di bilancio attendibile e tempestivo e per non aver fatto in modo che le funzioni aziendali da lui dipendenti fossero efficienti e in grado di approntare la documentazione necessaria (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322); il dirigente che abbia organizzato la produzione interna di una macchina che la società aveva fino a quel momento commercializzato, acquistandola da altra società, esorbitando dalla propria area di competenza, imponendo un obiettivo non concordato con l'amministratore della società e in contrasto con le scelte aziendali (Trib. Milano 8 gennaio 2001); il dirigente che abbia assunto tre dipendenti, esorbitando dai limiti dei suoi poteri, anche se successivamente il datore di lavoro ne aveva ratificato l'operato (Cass. 28 maggio 1982, n. 3296); il dirigente, che, in nome e per conto della società datrice di lavoro, abbia sottoscritto una modifica di patti contrattuali, rivelatasi poi eccessivamente onerosa per l'azienda (Trib. Milano 19 aprile 1997).

Giustificatezza oggettiva
La "giustificatezza" oggettiva è generalmente rappresentata da eventi che non derivano da un'evoluzione patologica del rapporto fiduciario tra il dirigente e il datore di lavoro, ma che attengono a esigenze connesse a una ristrutturazione aziendale, finalizzata a una più economica gestione, ovvero al venire meno di una posizione lavorativa in cui si esprimeva la professionalità del dirigente.
Anche in questa ipotesi, sul presupposto che il licenziamento del dirigente non richiede un giustificato motivo ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604, la giurisprudenza ne ha riconosciuto una portata particolarmente estesa, affermando che la stessa «non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione» (Cass. 16 febbraio 2015, n. 3045).
In particolare, è stato chiarito che «ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo finalizzato a una più economica gestione dell'azienda, la cui scelta imprenditoriale è insindacabile nei suoi profili di opportunità, il licenziamento del dirigente potrà considerarsi ingiustificato, con conseguente diritto alla relativa indennità supplementare, soltanto nei casi di motivo pretestuoso, arbitrario o del tutto assente, volto unicamente a liberarsi della persona del dirigente» (Cass. 3 giugno 2013, n. 13918).
In senso analogo, è stato precisato che «per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un dirigente intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale (…) quel che rileva è che presso l'azienda non esista più una posizione lavorativa esattamente sovrapponile a quella del lavoratore licenziato, dovendo altresì considerarsi che, poiché il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo, esso è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie» (Cass. 26 novembre 2012, n. 20856).
Come ulteriore corollario della non applicabilità ai dirigenti della disciplina dei licenziamenti prevista per le altre categorie di lavoratori, è stato altresì ritenuto che non possono ritenersi validi i principi giurisprudenziali elaborati in relazione all'obbligo di repêchage, «in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro» (Cass. 19 giugno 2014, n. 13958; cfr. anche Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175).

Il licenziamento illegittimo
La tutela prevista in caso di licenziamento illegittimo del dirigente può avere due nature, legale e convenzionale, a seconda dei vizi che inficiano la legittimità del recesso datoriale.

La tutela legale

Con riferimento alla prima ipotesi, l'art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, prevede espressamente l'applicazione, anche a favore dei dirigenti, della tutela prevista in ipotesi di licenziamento inefficace per mancanza di forma scritta e viziato da nullità.
In tali ipotesi, il dirigente ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, salvo la possibilità di optare per l'indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Oltre al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perse tra la data del licenziamento e quella della reintegrazione.
In realtà, vale la pena precisare che già l'art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, aveva esteso a favore dei dirigenti la tutela dell'art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, in ipotesi di licenziamento nullo; di conseguenza, la novità principale introdotta dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 è stata l'estensione di tale garanzia anche in caso di licenziamento intimato verbalmente.
Proprio con riferimento alle ipotesi elencate dall'art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, si ritiene opportuno approfondire la fattispecie del licenziamento discriminatorio del dirigente.
A tale proposito, il citato primo comma richiama espressamente l'art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, secondo cui «il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell'art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall'art.18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti».
Con specifici riferimenti normativi, la disposizione richiamata identifica alcune fattispecie che, di per sé, possono integrare la nullità del licenziamento in quanto fondato sull'illiceità del motivo ex art.1345 c.c., applicabile anche agli atti unilaterali (cfr. Cass. 15 marzo 2006, n. 5635). Si tratta, in particolare, delle seguenti ipotesi: credo politico; fede religiosa; appartenenza a un sindacato e partecipazione ad attività sindacabili; discriminazione razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Tale elencazione, però, non deve ritenersi esaustiva. Sul punto è necessario richiamare quanto affermato dalla Suprema Corte, secondo cui «la previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio (…) deve essere riferita, con le conseguenze sanzionatorie implicanti la tutela reale (ex cit. art. 18), anche a fattispecie di licenziamenti che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate nelle suddette norme, siano determinati in maniera esclusiva da motivo, illecito, di ritorsione o rappresaglia, e costituiscano cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo – essenzialmente quindi di natura "vendicativa" –, a fronte di un comportamento legittimo, e sotto ogni profilo corretto, posto in essere dal lavoratore (a esempio, per far valere rivendicazioni anche a mezzo di iniziative giudiziarie) e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro, o a questo comunque connessi» (Cass. 6 maggio 1999, n. 4543).
La Corte di Cassazione ha quindi interpretato la nozione di licenziamento discriminatorio in via estensiva, ritenendo applicabile la sanzione della nullità del licenziamento anche a fattispecie estranee alla casistica richiamata dall'art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108.
Con particolare riferimento al licenziamento ritorsivo, che presuppone la presenza di precise circostanze, la giurisprudenza ha precisato che «il lavoratore deve specificamente dimostrare che l'intento discriminatorio o di rappresaglia per l'attività svolta abbia determinato in via esclusiva la volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso» (Cass. 14 luglio 2005, n. 14816), con la conseguenza che il lavoratore «non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei a individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia» (Cass. 5 agosto 2010, n. 18283).
Per contro, quando il licenziamento non sia stato determinato esclusivamente da un motivo illecito, in quanto «con tale motivo concorra, nella determinazione del licenziamento, anche un motivo lecito, come una giusta causa prevista dall'art. 2119 c.c. – quale risulta essere stata nella specie contestata a fondamento del primo licenziamento – l'atto espulsivo non può ritenersi viziato ai sensi del citato art. 1345, ed è idoneo a spiegare la efficacia, sua propria, risolutiva del rapporto di lavoro» (Cass. n. 4543/1999 cit.; cfr. anche Cass. 18 novembre 1997, n. 11464).
Di conseguenza, ai fini della nullità del recesso datoriale, il motivo illecito deve essere unico e determinante.

La tutela convenzionale
Le ipotesi sopra evidenziate sono le uniche per cui è prevista una tutela legislativa a favore del dirigente in ipotesi di licenziamento illegittimo. Ciò anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 sul cosiddetto contratto "a tutele crescenti", applicabile solo ai «lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri».
In tutti gli altri casi, il regime di tutele a favore del dirigente è di natura convenzionale, in quanto stabilito direttamente dal contratto collettivo applicabile al singolo rapporto.
La contrattazione collettiva prevede, infatti, che nell'ipotesi in cui il licenziamento sia privo di motivazione, cioè non giustificato, il datore di lavoro venga condannato al pagamento di un'indennità supplementare, di natura meramente indennitaria, parametrata tra un minimo e un massimo variabile in base all'anzianità aziendale e, in alcuni casi, all'età anagrafica del dirigente.
La determinazione del relativo ammontare è rimessa alla determinazione del giudice (cfr. Cass. 16 marzo 2015, n. 5175) e normalmente è commisurata alla gravità del vizio, alla condotta delle parti e all'anzianità di servizio del dirigente.
Tali conseguenze vengono applicate anche in ipotesi di ingiustificatezza del recesso per violazione del principio dell'immediatezza del licenziamento, «non potendosi per motivi (oltre che giuridici) logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso» (Trib. Perugia 22 maggio 2012, n. 355).
È necessario altresì precisare che nell'ipotesi in cui il licenziamento, oltre a essere ingiustificato, risulti privo di giusta causa, il datore di lavoro sarà tenuto a corrispondere al dirigente, in aggiunta all'indennità supplementare, anche l'indennità sostitutiva del preavviso che, ai sensi dell'art. 2121 c.c., deve essere calcolata sulla base della c.d. retribuzione globale di fatto, comprensiva di ogni compenso di carattere continuativo corrisposto al dirigente, inclusi i fringe-benefits, nonché di eventuali compensi variabili valorizzati sulla media degli ultimi tre anni di servizio (o del minor periodo).
Va ancora sottolineato che un licenziamento comunicato in costanza di un periodo di malattia del dirigente è – salvo che nel caso in cui ricorra una giusta causa – privo di effetti fino alla fine del periodo di malattia (art. 2110 c.c.). In tal caso, dunque, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dirigente (oltre al preavviso) la retribuzione dovuta per tutto il periodo di malattia (entro i limiti del cd. periodo di comporto). Dall'altro lato, invece, un recesso comunicato a un dirigente regolarmente in servizio, quand'anche per una "giustificatezza", rimane efficace anche in caso di successiva malattia del lavoratore, ma solo se intimato con effetto immediato e con la corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso (stante l'orientamento maggioritario circa la cd. natura obbligatoria del preavviso).
L'indennità supplementare è calcolata utilizzando la medesima base di calcolo dell'indennità sostitutiva del preavviso.

Il licenziamento ingiurioso e il risarcimento del danno
Tra le varie ipotesi di danno che possono configurarsi in connessione al licenziamento del dirigente, merita particolare attenzione quella relativa al licenziamento ingiurioso.
A tale proposito, è necessario premettere che il licenziamento ingiurioso consiste nel recesso datoriale che «per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano » si traduca «in un atto "ingiurioso", cioè lesivo della dignità e dell'onore del lavoratore licenziato» (Cass. 11 giugno 2008, n. 15496).
La giurisprudenza ha più volte chiarito che non vi è alcuna coincidenza tra licenziamento ingiustificato e licenziamento ingiurioso. Quest'ultimo si caratterizza per un quid pluris rispetto alla mancanza di giustificazione del recesso datoriale.
Per utilizzare le parole della Corte di Cassazione, «il carattere ingiurioso del licenziamento, che va provato da chi lo deduce (…), deriva unicamente dalla forma in cui esso venga espresso o dalla pubblicità o da altre modalità con cui sia stato adottato, idonee a ledere l'integrità psico-fisica del lavoratore. Solo in tali evenienze il danno da licenziamento ingiurioso eccede quello risarcibile a seguito di recesso meramente ingiustificato, strumentale o pretestuoso (…).
Dunque, l'insistenza con cui il ricorrente principale rimarca il carattere pretestuoso del licenziamento, desumibile da una pluralità di elementi presuntivi, non è conferente, perché pretestuosità e ingiuriosità del licenziamento non sono concetti coincidenti né necessariamente concorrenti» (Cass. 23 ottobre 2014, n. 22536).
Inoltre, è necessario chiarire che l'ingiuriosità del licenziamento deve essere rigorosamente provata dal dirigente, sia in relazione alla sussistenza che al pregiudizio subito (cfr. Cass. n. 22536/2014 e Cass. n. 15496/2008 cit.).
Con particolare riferimento alle circostanze che possono identificare un recesso datoriale come "ingiurioso", è stato precisato che «è ingiurioso il licenziamento cui l'azienda dia indebita e non necessaria pubblicità, che si accompagni a non necessarie considerazioni sulle qualità personali e/o professionali del lavoratore e/o che gli attribuisca condotte dolose e/o infamanti secondo il comune sentire, non anche quello che ne evochi (per quanto infondatamente) un contegno meramente colposo» (Cass. n. 22536/2014 cit.).
E ancora «rientra nella nozione giurisprudenziale di licenziamento ingiurioso l'ipotesi di indebita pubblicità al licenziamento e di diffusione di giudizi sul lavoratore come persona contraria all'azienda e scorretta ove tale condotta intervenga prima e contestualmente all'atto del licenziamento. In queste ipotesi, poiché i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore devono essere improntati a regole di civile correttezza, pur nella difesa anche forte dei diversi interessi, ove, per determinate peculiarità comportamentali eccedenti le normali conseguenze di un provvedimento, sia stato cagionato un danno, il responsabile è tenuto a risarcirlo ex art. 2043 c.c.» (Cass. 16 maggio 2006, n. 11432).
In relazione, invece, alla qualificazione e alla risarcibilità del danno, è stato chiarito che «il danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, cagionato dalla perdita del lavoro e della retribuzione, è una conseguenza soltanto mediata e indiretta (e, quindi, non fisiologica e non prevedibile) del recesso datoriale e, pertanto, non è risarcibile, salvo che nell'ipotesi di licenziamento ingiurioso (o persecutorio o vessatorio) trovando la sua causa immediata e diretta non nella perdita del posto di lavoro, bensì nel comportamento intrinsecamente illegittimo del datore di lavoro, della cui prova – unitamente a quella della lesione alla propria integrità psico-fisica – è onerato il lavoratore» (Cass. 12 marzo 2014, n. 5730; cfr., nel merito, Trib. Taranto 17 marzo 2015, n. 1348).
Si ritiene opportuno precisare che la tipologia di danno derivante dal licenziamento ingiurioso non consiste solo in una lesione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, ma può anche assumere la connotazione di danno morale, che costituisce «un pregiudizio ulteriore e autonomo (…) e, come tale, deve essere separatamente liquidato» (Cass. 30 dicembre 2011, n. 30668).
Per comprendere in quali ipotesi un recesso datoriale possa connotarsi anche di una natura ingiuriosa, meritano di essere segnalate alcune sentenze della giurisprudenza milanese.
In un primo caso, un dirigente adiva il Tribunale di Milano per veder accertare l'ingiuriosità del licenziamento e la liquidazione del relativo danno, sostenendo che la pubblicità data al recesso dal datore di lavoro, mediante pubblicazione di articoli sulla stampa nazionale e specializzata, avesse leso la sua dignità. Il giudice, per contro, riteneva non sussistente l'ingiuriosità del licenziamento sulla scorta delle seguenti motivazioni: «la notizia data ai quotidiani appare assolutamente asciutta»; «la notizia è stata divulgata anche con notevole ritardo rispetto al licenziamento»; «la stringatezza della notizia stessa e la sua corrispondenza a verità non consentono di dare al licenziamento nessun particolare rilievo tale da fargli acquisire i caratteri dell'ingiuriosità» (Trib. Milano 20 aprile 2005, n. 3253). Tale sentenza è stata poi confermata dalla Corte di Appello di Milano (Corte Appello Milano 10 giugno 2008, n. 722).
In un secondo caso, un dirigente proponeva ricorso al Tribunale di Milano, lamentando che il giorno seguente alla consegna della lettera di licenziamento, la società aveva pubblicato un comunicato nel quale si rendeva noto l'ammontare delle perdite subite nell'anno in corso, l'insediamento di una nuova struttura manageriale e la conseguente decisione di licenziare il dirigente. Secondo il ricorrente, le modalità di diffusione della notizia lo facevano apparire come responsabile del cattivo andamento della gestione, creando grave pregiudizio alla sua professionalità.
Il tribunale ha ritenuto sussistente il carattere ingiurioso del licenziamento sulla base delle seguenti argomentazioni: «di particolare rilievo è quello che accadde (…) il giorno successivo alla comunicazione del licenziamento, in occasione della conferenza stampa e del comunicato stampa diramato in lingua danese e inglese. Con tale atto furono comunicate le perdite della società nel 2003, la necessità dell'adozione di una nuova struttura di management e il licenziamento (…) che venivano posti in così stretta connessione da apparire l'uno il motivo e l'altro la conseguenza inevitabile. Una tale stretta relazione consequenziale metteva, per chi leggeva il comunicato, in una stretta correlazione il licenziamento del ricorrente con le perdite della società e non con le difficoltà del mercato, quasi a indicare nel ricorrente la causa di tale insuccesso»; «alla comunicazione aziendale sono seguiti articoli apparsi sui maggiori giornali internazionali del settore economico e finanziario nei quali si riportava il licenziamento come strettamente collegato alle perdite economiche della società»; «è ovvio che un manager di livello internazionale da una tale propaganda negativa estesa all'ambito internazionale, non può che trarre un grave danno in termini di immagine e prestigio»; «la società è sicuramente responsabile di aver presentato le notizie in un modo equivoco che ha condotto a una interpretazione unilaterale nel senso di individuare (…) i responsabili delle sfortune aziendali»; «non si comprende quale utilità avesse l'azienda a tenere tale comportamento nei confronti del proprio dirigente»; «il licenziamento ha comportato una lesione dell'onore e del decoro sia della persona che del dirigente di livello internazionale con la divulgazione di informazioni parziali, maliziosamente riferite in connessione l'una con l'altra, con modalità inusuali, atipiche suscettibili di causare grande risonanza internazionale»; «anche la peculiare forma di pubblicità scelta (conferenza e comunicato stampa) sono state lesive dell'onore del ricorrente che mai avrebbe avuto analogo e "roboante" mezzo per precisare la sua "incolpevole" estromissione dall'azienda».
I casi sopra richiamati evidenziano come il licenziamento, affinché possa qualificarsi come "ingiurioso", deve essere connotato da condotte specificamente finalizzate, per il relativo contenuto e per le modalità di estrinsecazione, a causare un nocumento al lavoratore, con specifico riferimento alla propria immagine e professionalità.
Per contro, il fatto che venga data notizia del recesso datoriale, a mero scopo informativo, senza particolari riferimenti alla condotta o alle qualità del dirigente, non comporta che il licenziamento assuma necessariamente una valenza ingiuriosa.

Considerazioni conclusive

È innegabile che la disciplina del licenziamento del dirigente si differenzi decisamente da quella prevista per le altre categorie di lavoratori, sia per la sussistenza di ragioni giustificatrici più ampie e sfumate, sia per un regime di tutele meno garantista.
Da un punto di vista delle tutele, se è vero che tali considerazioni potevano avere una valenza assoluta fino a poco più di un anno fa, con l'entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, tale distinzione si è fatta più sottile.
Il citato decreto ha, infatti, introdotto nei confronti dei lavoratori subordinati non dirigenti, assunti a partire dal 7 marzo 2015, una sensibile riduzione delle possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro, previste «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore».
Di conseguenza, anche con riferimento a tali categorie, la tutela reintegratoria assume una connotazione sanzionatoria di extrema ratio (al netto delle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale), applicabile solo nelle ipotesi più gravi, dove l'illegittimità del licenziamento è determinata dalla totale assenza di un qualsiasi presupposto fattuale tale da poter giustificare il recesso.

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