Il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale in ambito lavorativo
Rilevanza disciplinare e penale del comportamento del lavoratore
la QUESTIONE
Che rapporto intercorre, in ambito lavorativo, tra procedimento penale e procedimento disciplinare originati dalla medesima condotta del lavoratore? Vi è sostanziale autonomia o sussiste una reciproca influenza? Quali conseguenze derivano dalla violazione degli obblighi lavorativi in ambito aziendale? Quali sono gli strumenti a disposizione del datore di lavoro? Quando ricorre la sospensione cautelare?
Ogni dipendente è tenuto al rispetto di una serie di obblighi nei confronti del proprio datore di lavoro e la violazione di tali obblighi può, talvolta, configurare fattispecie rilevanti, non solo da un punto di vista disciplinare (con conseguenze afferenti al rapporto di lavoro subordinato), ma anche sotto il profilo penale (si pensi, ad esempio, al caso di furto in azienda). In questi casi, spesso si assiste all'instaurazione di due diversi procedimenti, quello penale nella deputata sede e quello disciplinare, che può condurre al licenziamento. Proveremo, dunque, ad analizzare, in questo breve approfondimento di sintesi, le principali caratteristiche delle possibili interazioni tra tali procedimenti.
Obblighi del dipendente ex artt. 2104 e 2105 c.c.
Vengono anzitutto in rilievo le norme ed i principi che disciplinano i principali obblighi di comportamento cui sono tenuti i dipendenti in quanto tali, ovvero:
•l'obbligo di diligenza (ossia l'obbligo di «usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, c.d. diligenza in senso tecnico, e dall'interesse dell'impresa»). Rientra nell'obbligo di diligenza, il dovere di «eseguire la prestazione, anche in assenza di specifiche direttive del datore di lavoro, secondo la particolare qualità dell'attività dovuta, risultante dalle mansioni e dai profili professionali che la definiscono, e di osservare altresì tutti quei comportamenti accessori e quelle cautele che si rendano necessari ad assicurare una gestione professionalmente corretta» (C. App. Napoli 25 settembre 2017, n. 5985, Cass. 17 giugno 2011, n. 13425). Peraltro, l'obbligo di diligenza diventa più intenso man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente (Cass. 26 ottobre 2001, n. 13329);
•l'obbligo di obbedienza (ovvero l'obbligo di «osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo»). Va peraltro precisato che l'obbligo di obbedienza non deve essere rispettato in modo assoluto e incondizionato, ma incontra pur sempre il limite della c.d. "liceità", nel senso che «il lavoratore può e deve rifiutare l'obbedienza agli ordini del datore di lavoro quando questi siano illeciti e anzi, in caso di mancato rifiuto, il lavoratore è responsabile per l'esecuzione acritica dell'ordine illegittimo» (in questo senso cfr . Cass. 16 gennaio 2001, n. 519). Secondo Tribunale di Bologna 23 novembre 2010, ad esempio, sussiste una responsabilità disciplinare della lavoratrice, colpevole di aver commesso alcuni illeciti qualificabili come reato sotto l'ordine di suoi superiori: la lavoratrice avrebbe avuto il dovere di astenersi dall'eseguire ordini illeciti, dovendo l'obbligo del lavoratore di cui al secondo comma dell'art. 2104 c.c. arrestarsi di fronte a ordini manifestamente illeciti;
•l'obbligo di fedeltà (ossia il divieto di «trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore» art. 2105 c.c. e, più in generale, l'obbligo di "un leale comportamento nei confronti del datore di lavoro che va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c."). Il lavoratore deve quindi comportarsi diligentemente e secondo lealtà, correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro, astenendosi dal porre in essere, non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma tutti quei comportamenti che, «per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultino in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o siano, comunque, idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro» (in dottrina, cfr. Mattarolo , art. 2105, in Il Codice Civile Commentario, diretto da Schlesinger, Giuffrè, e Tatarelli , Il licenziamento individuale e collettivo , 2006, 183. In giurisprudenza, cfr. C. App. Brescia 31 gennaio 2019, Cass. 30 maggio 2017, n. 13613, Cass. 10 febbraio 2015, n. 2550; Cass. 9 gennaio 2015, n. 144, Cass. 1° febbraio 2008, n. 247; Cass. 14 giugno 2004, n. 11220; Cass. 19 aprile 2006, n. 9056; Cass. 14 giugno 2004, n. 11220).
All'inadempimento dei suddetti obblighi, il datore di lavoro può reagire esercitando il potere disciplinare, che si estrinseca nell'irrogazione, all'esito di un procedimento regolato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, di sanzioni disciplinari che debbono risultare proporzionate alla gravità dell'inadempimento e che possono giungere, nei casi più gravi, sino al licenziamento per giustificato motivo soggettivo o addirittura per giusta causa.
L'art. 2106 c.c. dispone infatti che «l'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari secondo la gravità dell'infrazione».
Grave inadempimento quale possibile ragione di licenziamento
Come noto, ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604, «nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, (...) il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. (ovvero per una causa che non consente la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro) o per giustificato motivo», per tale intendendosi «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» (il c.d. giustificato motivo soggettivo).
Vi è poi l'ampia area del licenziamento per "giustificato motivo oggettivo", per tale intendendosi quello determinato da una «ragione inerente all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», su cui tuttavia non ci soffermeremo in tale analisi, stante le esigenze di contenimento della trattazione e la non diretta incidenza della tematica trattata rispetto a tale fattispecie risolutiva.
Tornando quindi ai profili di rilevanza per l'approfondimento in oggetto, va evidenziato come tanto la "giusta causa" quanto il "giustificato motivo soggettivo" presuppongono un inadempimento del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali, posto che tra le due tipologie non vi è alcuna differenza "qualitativa" ma solo "quantitativa", in termini di maggiore o minore gravità dell'inadempimento imputabile al lavoratore.
Ben diverse sono, invece, le ricadute concrete sulla cessazione del rapporto, dal momento che in presenza di una giusta causa il lavoratore può essere lecitamente licenziato con effetto immediato, mentre in ipotesi di giustificato motivo soggettivo il dipendente ha diritto al termine di preavviso, che potrà essere integrato con la prestazione lavorativa del destinatario o sostituito, a scelta del datore di lavoro, con il pagamento della relativa indennità ad effetto monetizzante.
Quanto, in particolare, alla giusta causa di licenziamento, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (tra le tante Cass. 28 maggio 2017, n. 10568, Cass. 9 giugno 2014, n. 12882; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 30 maggio 2012, n. 8651; Cass. 12 aprile 2010, n. 8641; Cass. 23 giugno 2000, n. 8568; Cass. 21 novembre 2000, n. 15004), per stabilirne in concreto l'esistenza, occorre valutare:
•da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze e al contesto nelle quali sono stati commessi, alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, all'intensità dell'elemento psicologico-intenzionale (dolo o colpa). La Suprema Corte, infatti, ha più volte ribadito il principio di diritto per cui, «in tema di licenziamento per giusta causa, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento» (Cass. 30 maggio 2017, n. 13613; Cass. 12.12.2012 n. 22798).;
•dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la gravità della sanzione rappresentata dalla cessazione del rapporto, valutando quindi se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Integra giusta causa quel «comportamento del lavoratore di gravità tale da scuotere la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro, facendola venir meno, così legittimando il recesso datoriale in tronco» (così, Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, 2006, 175; in giurisprudenza, tra le tante, Cass. 15 maggio 2004, n. 9299; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4061). E ancora, ciò che rileva ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento è «la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti» (cfr. Cass. 19 agosto 2004, n. 16291, Cass. 3 marzo 2000, n. 2404, Cass. 19 agosto 2003, n. 12161, Cass. 27 gennaio 2004, n. 1475). Il giudice di merito, dunque, deve «valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo» (da ultimo Cass. 4 maggio 2017, n. 10846; cfr. anche Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).
La gravità dei fatti addebitati è da valutarsi con riferimento al grado di lesione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro e non deve essere influenzata da eventuali valutazioni di tenuità o assenza del danno patrimoniale, elemento valutabile ai soli fini del processo penale e irrilevante ai fini disciplinari. Con riferimento proprio al licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente accusato di furto di beni aziendali, la giurisprudenza ha riconosciuto che «in conseguenza dell'abusivo impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso viene in considerazione non l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale (rilevanti in sede penale) (...), ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti» (Cass. 2 novembre 2011, n. 22692; Cass. 19 agosto 2004, n. 16260) .
Conseguenze in caso di illegittimità del licenziamento
Con riferimento alla disciplina a tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, la riforma introdotta con il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (recentemente modificato dal c.d. "Decreto Dignità"), ha introdotto un sistema a doppio binario: tali disposizioni si applicano, infatti, ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, mentre ai rapporti di lavoro già in corso a tale data continua ad applicarsi quanto disposto dall'art. 18 St. lav., come modificato dalla riforma Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92) o dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 a seconda del numero di lavoratori impiegati. Pertanto:
a) in caso di licenziamento illegittimo di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 ed impiegati presso imprese che, in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, o comunque nello stesso comune, occupano più di quindici lavoratori (o più di cinque se si tratta di datori di lavoro agricoli) o comunque, complessivamente, più di sessanta sull'intero territorio nazionale, salvo i casi di licenziamento nullo, ai sensi dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ("Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183") la reintegrazione è prevista solo a fronte della «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore». In tale ipotesi il giudice «annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione», indennità dalla quale deve dedursi tanto l'aliunde perceptum (ovvero quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative), quanto l'aliunde percipiendum (ovvero quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione). Quanto alla misura dell'indennità, la stessa «non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» (a prescindere, quindi, dal tempo intercorso tra il giorno del licenziamento e il giorno della reintegrazione). Oltre alla suddetta indennità, il datore di lavoro è poi condannato al versamento «dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva». In ogni caso, il lavoratore potrà optare, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, per un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Al di fuori del caso sopra descritto, ove il licenziamento disciplinare sia illegittimo sotto il profilo sostanziale (perché, ad esempio, tale provvedimento si risolve in una sanzione sproporzionata rispetto alla gravità dell'inadempimento pur accertato del lavoratore), il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannerà il datore al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, innalzate a seguito del Decreto Dignità in misura comunque, rispettivamente, non inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità.
Il criterio di determinazione previsto dal Jobs Act (indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio) è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza del 26 settembre 2018. Infatti, mentre da un lato la Corte ha ritenuto legittima la differenziazione di trattamento tra nuovi e vecchi assunti, dall'altro ha dichiarato inadeguato il ristoro del pregiudizio da licenziamento illegittimo ancorato alla sola anzianità di servizio. Spetterà dunque al Giudice modulare l'indennità risarcitoria - pur tra il minimo e il massimo stabiliti dalla legge - anche sulla base di parametri ulteriori, ovverosia il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica e il comportamento e le condizioni delle parti, desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti. Il solo criterio automatico della anzianità di servizio previsto dall'art. 3, comma 1 del D.lgs. 23/2015 - ad avviso della Corte - non realizza il giusto equilibrio tra libertà di organizzazione dell'impresa e tutela del lavoratore ingiustamente licenziato.
Per le imprese con meno di 15 dipendenti nella stessa unità produttiva (o meno di 60 sul territorio nazionale), è esclusa la reintegrazione, salvo in ipotesi di licenziamento nullo, e l'indennità risarcitoria dovuta in caso di licenziamento disciplinare illegittimo è dimezzata e non potrà essere comunque superiore a 6 mensilità.
b1) Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, invece, è stata mantenuta la disciplina di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dalla riforma Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), cosicché per i licenziamenti disciplinari, ed eccezion fatta per i licenziamenti nulli, la reintegrazione è prevista in due sole, tassative, ipotesi: in caso di «insussistenza del fatto contestato» e nel caso in cui «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300). In tali ipotesi, e solo in queste, il Giudice «annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione» (art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300), da cui deve dedursi tanto l'aliunde perceptum quanto l'aliunde percipiendum. Quanto alla misura dell'indennità, la stessa non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto (a prescindere, quindi, dal tempo intercorso tra il giorno del licenziamento e il giorno della reintegrazione) .
Oltre alla suddetta indennità, il datore di lavoro è poi condannato al versamento «dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni (...)», fermo restando che dalla misura di tale contribuzione verrà dedotta quella eventualmente «accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative» .
In tutte le altre ipotesi diverse dalle due sopra indicate, in cui il giudice dovesse accertare che «non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa», il rapporto di lavoro viene dichiarato risolto dallo stesso giudice, con effetto dalla data del recesso, e il datore di lavoro viene condannato «al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità» (art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300).
Infine, nell'ipotesi in cui il licenziamento sia inefficace perché privo del «requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604» , oppure perché intimato in violazione delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 dello St. lav., il datore di lavoro viene condannato al pagamento di «un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto», con «onere di specifica motivazione» per il giudice in ordine alla quantificazione.
b2) Quanto alle piccole realtà produttive, in relazione ai rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015, la conseguenza del licenziamento disciplinare illegittimo è, ai sensi dell'art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, la condanna alla riassunzione del prestatore di lavoro oppure, a scelta del datore di lavoro, a corrispondere «un importo compreso fra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti».
La misura massima della predetta indennità precisa la legge può essere maggiorata fino a 10 mensilità per quei lavoratori con un'anzianità superiore ai dieci anni, e fino a 14 mensilità per quelli con anzianità superiore ai venti anni.
Va detto, infine, che al licenziamento dei dirigenti non trova applicazione la nozione legale di giustificato motivo soggettivo di cui alla legge n. 604/1966 (ex multis, Cass. 20 dicembre 2006, n. 27197; Cass. 14 giugno 2006, n. 13179; Cass. 1° giugno 2005, n. 11691), bensì solo quella di giusta causa posta dall'art. 2119 c.c. È dunque intervenuta la contrattazione collettiva che ha stabilito che ove il licenziamento, oltre a non essere fondato su una giusta causa risulti inoltre totalmente "ingiustificato", al dirigente licenziato spetti una indennità risarcitoria (c.d. indennità supplementare), in aggiunta a quella di mancato preavviso, ferma peraltro l'efficacia del licenziamento a porre termine al rapporto.
La "giustificatezza" del licenziamento dirigenziale richiede (i) che «il motivo addotto nella lettera di licenziamento sia reale» (Cass. 13 marzo 1998, n. 2761), e (ii) che vi sia «un rapporto di corretta congruenza tra il motivo per il quale il licenziamento è stato affermato come giustificato e i fatti entro i quali il recesso si inserisce» (Tribunale di Milano 28 novembre 1995).
È ritenuto un licenziamento, invece, privo di "giustificatezza", quello in cui il datore di lavoro abbia esercitato il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede, in attuazione di un comportamento pretestuoso e/o comunque irrispettoso delle regole procedimentali che assicurano la correttezza nell'esercizio del diritto (Cass. 17 marzo 2014, n. 6110; Cass. 1° giugno 2005, n. 11691; Cass. 8 novembre 2001, n. 13839).
Il procedimento disciplinare
Prima di poter comminare la sanzione del licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a seguire un procedimento disciplinare, che si articola come segue:
(i) il datore di lavoro deve contestare, per iscritto, al dipendente, un atto o un fatto specifico del quale abbia avuto previa conoscenza concreta (in particolare, la contestazione deve contenere le indicazioni necessarie a individuare il fatto nella sua materialità, in relazione al momento e al luogo in cui è stato compiuto (cfr. Cass. 12 maggio 2015, n. 9615; Cass. 20 luglio 2007, n. 16132), connotato da una teorica illegittimità, potendo il medesimo configurare in astratto un inadempimento, a titolo commissivo od omissivo, di obblighi contrattuali o di legge;
(ii) la contestazione non deve essere né precipitosa né tardiva, nel senso che il datore di lavoro deve portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiano ragionevolmente sussistenti (a tal fine, ben può la lettera di contestazione essere preceduta da approfondimenti svolti direttamente dal datore di lavoro, o tramite consulenti esterni, che consentano al datore di acquisire consapevolezza circa la ragionevole sussistenza di ciò che si andrà a contestare), non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne l'assoluta certezza (in questo senso, Cass. 14 maggio 2015, n. 9903; Cass. 12 maggio 2005, n. 9955). Ciò, «nell'interesse, da un lato, del datore di lavoro a promuovere il procedimento disciplinare una volta acquisiti importanti elementi di fatto della vicenda e, dall'altro, del lavoratore al più rapido avvio del procedimento, a tutela dell'integrità delle proprie difese e per evitare il perpetuarsi di una situazione di incertezza in ordine alla sorte del rapporto di lavoro» (Cass. 28 novembre 2008, n. 28448). In ogni caso, il principio dell'immediatezza e della tempestività deve essere inteso in senso relativo, «potendo in concreto sussistere un intervallo di tempo abbastanza lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore» (Cass. 11 marzo 2019, n. 6933; Cass. 16 aprile 2019, n. 10565, Cass. 21 maggio 2015, n. 10472: Cass. 13 maggio 2015, n. 9802; Cass. 23 gennaio 2015, n. 1247; Cass. 9 maggio 2012, n. 7096; Cass. 13 febbraio 2012, n. 1995; Cass. 17 dicembre 2008, n. 29480) anche in relazione alla gravità dell'addebito mosso (Cass. 8 gennaio 2001, n. 150), alla necessità di svolgere indagini interne (Cass. 8 febbraio 2017, n. 3370; Cass. 13 febbraio 2012, n. 1995; Cass. 17 dicembre 2008, n. 29480; Tribunale di Milano 2 novembre 2006), all'esigenza di attendere l'esito dell'eventuale procedimento penale in corso per gli stessi fatti (Cass. 25 ottobre 2018, n. 27069, Cass., 21 giugno 2016, n. 12824; Cass. 26 novembre 2008, n. 28280; Cass. 18 gennaio 2007, n. 1101). Si ritiene in giurisprudenza che gravi sul datore di lavoro l'onere di provare puntualmente le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l'accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell'esercizio del potere disciplinare;
(iii) il lavoratore dispone, dal momento della ricezione della lettera di contestazione disciplinare, di un determinato periodo di tempo per far pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni;
(iv) solo dopo aver ricevuto le difese del dipendente (o dopo l'infruttuoso decorso del termine concesso al dipendente senza che questi abbia fornito alcuna giustificazione) e averle debitamente verificate e approfondite quanto opportuno, il datore può irrogare la eventuale sanzione disciplinare (ivi compreso il licenziamento), basandosi su quanto contestato, entro il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto o, se il contratto collettivo nulla dispone sul punto, entro un termine che risponda, comunque, ai principi di immediatezza e tempestività, anche in questo caso interpretabili in senso relativo (cfr. al riguardo Cass. 14 settembre 2011, n. 18772), dimodoché l'eccessivo ritardo nella comminazione della sanzione può essere considerato contrario a buona fede e correttezza, in quanto potrebbe ingenerare nel dipendente il legittimo affidamento circa la volontà datoriale di non procedere in via disciplinare (Cass. 27 giugno 2013, n. 16227; Cass. 8 giugno 2009, n. 13167; Cass. 19 agosto 2003, n. 12141);
(v) è, infine, possibile procedere a un supplemento di contestazione ove emergano ulteriori addebiti nei confronti del dipendente prima dell'irrogazione della sanzione (con conseguente necessità di attendere un ulteriore termine per le eventuali specifiche giustificazioni sul punto), mentre condotte o comportamenti non contestati (né in sede di prima contestazione né quale supplemento) restano assolutamente irrilevanti, dal punto di vista tecnico-giuridico, ai fini della valutazione di congruità e legalità della sanzione.
Il rapporto tra procedimento disciplinare e indagine penale
Ove le circostanze da contestare al dipendente integrino possibili ipotesi di reato, le medesime possono essere oggetto, contemporaneamente, di un procedimento disciplinare e di una parallela indagine penale.
Come chiarito dalla giurisprudenza, tra i due procedimenti vige un principio di autonomia. È, infatti, consolidato il dato della inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza (stabilito dall'art. 27 della Costituzione soltanto con riferimento al potere punitivo pubblico), così come il principio per cui l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di rilevanza in sede disciplinare (in questo senso, ultimo Cass. 16 aprile 2019, n. 10565; Cass. 4 ottobre 2017, n. 23177, Cass. 12 dicembre 2013, n. 27810; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 26 marzo 2010, n. 7410).
La ratio di tale previsione si basa sull'assunto per cui «l'irrilevanza penale del fatto addebitato non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore secondo la legge del contratto, ferma restando la rilevanza che la sussistenza del reato (e la sua qualificazione ad opera del giudice penale) possono assumere, anche nell'impiego privato, ove costituiscano presupposto per la configurazione dell'illecito disciplinare e per l'applicazione conseguente della sanzione» (cfr. Cass. 5 luglio 2016, n. 13675).
Ciò significa che il datore di lavoro non è tenuto ad attendere la conclusione del procedimento penale per definire il procedimento disciplinare ed eventualmente irrogare la sanzione del licenziamento (così da ultimo Trib. Roma, sez. lav., 24 maggio 2017, n. 4918; cfr. anche così da ultimo Cass. 27 febbraio 2014, n. 4724). Al contrario, egli può svolgere proprie indagini interne, dirette all'accertamento del comportamento illecito, autonomamente rispetto alle indagini penali parallelamente svolte dall'autorità giudiziaria (ferma la possibilità, in ogni caso, di specificare meglio la contestazione con gli eventuali elementi che dovessero emergere nell'ambito del procedimento penale), e può intimare all'esito dei propri accertamenti interni una sanzione disciplinare al lavoratore, indipendentemente dalle risultanze del giudizio penale (in questo senso, cfr. Tribunale di Milano 10 agosto 2012).
È stato inoltre rilevato che «nella valutazione della legittimità di un licenziamento disciplinare, l'accertamento della giusta causa non può essere motivato con un generico riferimento alle risultanze di un processo penale; il giudice del lavoro, infatti, non è chiamato a decidere sulla colpevolezza del dipendente in ordine a fatti-reato, ma deve procedere a un'autonoma valutazione dell'episodio illecito al fine di stabilire se esso possa incidere sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, tenendo conto dell'incidenza del fatto commesso, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali» (Cass. 25 gennaio 2008, n. 1661).
E ancora, con riferimento alla valutabilità, da parte del giudice civile, di prove ed elementi indiziari desunti dal processo penale, la giurisprudenza ha affermato che il giudice del lavoro può liberamente fondare il suo convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso del dibattimento nonché delle indagini preliminari, dunque anche fuori dalla garanzia del dibattimento, nel caso in cui il processo penale si sia concluso con un patteggiamento ex art. 444 c.p.c. (Cass. 3 aprile 2009, n. 8127), e ciò in virtù del principio del libero convincimento del giudice e dell'assenza di divieti in tal senso.
Va poi aggiunto che quando i fatti possono considerarsi accertati con ragionevole sicurezza, attendere l'esito del procedimento penale potrebbe far ritenere intempestiva l'iniziativa disciplinare del datore di lavoro. Ed infatti, secondo la giurisprudenza, neanche la presentazione di una denuncia in sede penale, da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, è sufficiente a escludere l'onere di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il dipendente, non sottoposto a sospensione cautelare, nel caso in cui il datore sia già a conoscenza di elementi di responsabilità (in questo senso, Cass. 27 febbraio 2014, n. 4724; Cass. 9 agosto 2004, n. 15361).
Al contrario, quando manca una ragionevole consapevolezza circa l'effettiva sussistenza delle circostanze oggetto di contestazione, ben può, il datore di lavoro, anziché procedere a indagini interne, attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, senza per questo violare il principio di immediatezza (Cass. 15 marzo 2016 n. 5057; Cass. 25 novembre 2009, n. 24769; Cass. 27 marzo 2008, n.7983; Cass. 8 luglio 2004, n. 12649; Cass. 17 giugno 2002, n. 8730).
Non va però dimenticato come, per la Suprema Corte (Cass. 11 aprile 2016, n. 7031) «in tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti non fa venir meno l'obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa dell'incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a suo carico».
Così come viene in rilievo in materia il principio di consunzione del potere disciplinare del datore di lavoro, per cui una identica condotta non può essere sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione giuridica, posto che, come chiarito a più riprese dalla giurisprudenza, «l'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare» (Cass. 04 maggio 2017, n. 10834; cfr. anche Cass., 22 ottobre 2014, n. 22388).
La sospensione cautelare
La sospensione cautelare è una misura di natura non disciplinare, avente carattere provvisorio e strumentale, a cui può ricorrere il datore di lavoro qualora debba verificare e valutare l'effettiva commissione, da parte di un proprio dipendente, di fatti che, se confermati (Cass. 13 luglio 2009, n. 16321), costituirebbero inadempimenti di gravità tale da non permettere la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro (sulla necessaria gravità dei fatti posti a fondamento della sospensione cautelare si veda Cass. 6 giugno 2008, n. 15070).
Tale strumento risponde ad un «interesse all'autotutela» (Cass. 15 novembre 1999, n. 12631; Cass. 30 marzo 1998, n. 3343) del datore di lavoro e trova il proprio fondamento giuridico nel potere direttivo e organizzativo di cui questi è titolare. Secondo la giurisprudenza, infatti, «anche se non prevista dalla specifica disciplina legale o contrattuale del rapporto, costituisce legittima espressione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro per assicurare lo svolgimento ordinato ed efficiente dell'attività aziendale in pendenza dell'accertamento di possibili responsabilità disciplinari o penali del dipendente, per il tempo necessario all'esaurimento del procedimento in sede penale o disciplinare» (Cass. 15 novembre 1999, n. 12631).
Ciò detto, si consideri però che, in linea generale, ciascun dipendente non solo ha diritto a essere retribuito per il lavoro svolto, ma ha altresì il diritto di lavorare, essendo anzi il "diritto al lavoro" un diritto di rango costituzionale (art. 4 Cost.) che garantisce non solo la tutela della professionalità (art. 2103 c.c.), ma anche lo sviluppo della personalità e dell'identità sociale del lavoratore (art. 2 Cost.). In ragione di ciò, la sospensione del rapporto di lavoro non può che rappresentare, rispetto a tale diritto, una vera e propria eccezione, come tale consentita solo in ipotesi limite.
In particolare, in alcuni casi, la sospensione cautelare viene espressamente inquadrata quale declinazione della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 della Costituzione e, dunque, del potere organizzativo del datore di lavoro, che può essere legittimamente utilizzato dal datore di lavoro anche nel caso in cui non sia prevista dal contratto collettivo (Cass. 13 settembre 2012, n. 15353; Cass. 15 novembre 1999, n. 12631; Cass. 19 maggio 1986, n. 3319; implicitamente anche Cass. 2 febbraio 2009, n. 2580).
Inoltre, qualora la contrattazione collettiva se ne occupi, individuando alcuni casi tipici, non può escludersi che i dipendenti eventualmente sospesi per casi diversi da quelli tipizzati dal contratto collettivo, possano contestarne la legittimità e agire conseguentemente per il risarcimento del danno subìto, anche ex art. 2103 c.c., a causa della forzata inattività.
Quanto, invece, alla possibilità di ricorrere alla sospensione cautelare anche in assenza di una preventiva contestazione dell'addebito, l'orientamento giurisprudenziale sul punto non è univoco: si riscontrano infatti diverse pronunce secondo cui, stante la natura non disciplinare del provvedimento, non si applicherebbero le garanzie previste per il procedimento disciplinare di cui all'art. 7 dello St. lav.
La Cass. 16 maggio 2016, n. 10017, infatti, ha precisato che «in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso» (cfr. anche Cass. 15 novembre 2018, n. 29398, Cass. 19 giugno 2014, n. 13955; Cass. 16 febbraio 2010 n. 3600; Cass. 21 febbraio 2008, n. 4502).
Secondo parte della giurisprudenza, la ratio di tale differimento può essere individuata nella necessità di non rendere noti gli atti rilevanti ai fini delle indagini fino alla conclusione delle indagini preliminari, al fine di salvaguardare il segreto istruttorio ex art. 329 (Cass. 20 giugno 2014, n. 14103).
Peraltro, in alcuni casi la Suprema Corte ha posto un limite a tale assunto, ritenendo violato il principio di immediatezza nel caso di un lavoratore sospeso in via cautelare per sei anni, in conseguenza dell'avvio di un procedimento penale a suo carico, poiché la società datrice non aveva mai avviato una indagine interna sui fatti a fondamento della sospensione. In questa occasione i giudici hanno ribadito che il principio di immediatezza «riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, non consente all'imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto» (Cass. 8 febbraio 2017, n. 3370, nello stesso senso anche Cass., 16 agosto 2018, n. 20743).
Da altro lato, non mancano precedenti giurisprudenziali e contributi dottrinali, abbastanza risalenti, secondo cui «il provvedimento in oggetto non potrà essere adottato se non successivamente, o al più, contestualmente, alla contestazione degli addebiti» (Cass. 22 marzo 1996, n. 2517; Tribunale di Bari 25 gennaio 2007; Tribunale di Genova 26 settembre 2001. In dottrina, Meucci, in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 12/97 e Di Paola, in Il potere disciplinare, 2006).
Certo è, in ogni caso, che il ricorso alla sospensione cautelare, soprattutto nel caso in cui vi sia la necessità di attendere gli esiti di un parallelo procedimento penale prima di concludere il procedimento disciplinare, può ritenersi strumento utile ad evitare contestazioni circa la mancata tempestività della sanzione disciplinare. Ed infatti, secondo una parte della giurisprudenza, l'intervallo di tempo fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore è rilevante in quanto rivela una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso. Conseguentemente, nonostante il differimento di questo, è possibile desumere la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) il licenziamento da misure cautelari, come la sospensione, adottate in detto intervallo dal datore di lavoro (così Cass. 2 febbraio 2009, n. 2580; Cass. 25 novembre 2009, n. 24769; Cass. 21 febbraio 2008, n. 4502; Cass. 10 settembre 2003, n. 13294).
Considerazioni conclusive
In conclusione, il procedimento disciplinare promosso nei confronti del lavoratore è autonomo rispetto al diverso processo penale che vede coinvolto lo stesso dipendente con riferimento alle medesime circostanze di fatto contestate in sede disciplinare.
Infatti, il datore di lavoro può e deve svolgere indagini interne che viaggiano su binari paralleli rispetto alle indagini o risultanze penali, essendo tenuto ad avviare l'azione disciplinare nel rispetto del principio di tempestività, laddove possa maturare la ragionevole consapevolezza dell'addebitabilità dei fatti illeciti in capo al lavoratore, senza necessariamente dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza penale, di condanna o assoluzione che sia.
Al contrario, quando manca una ragionevole consapevolezza circa l'effettiva sussistenza delle circostanze oggetto di contestazione, ben può, il datore di lavoro, anziché procedere a indagini interne, attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, senza per questo violare il principio di immediatezza.
In tale ipotesi, tuttavia, dovrà provvedere comunque alla immediata contestazione dell'addebito disciplinare nei confronti del lavoratore, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a suo carico, in considerazione della rilevanza del principio di tutela dell'affidamento e del diritto di difesa dell'incolpato, ricorrendo, se del caso allo strumento della sospensione cautelare, per fugare ogni dubbio in merito alla mancanza di interesse datoriale all'esercizio della facoltà di recesso, in caso di successivo positivo accertamento in sede penale delle circostanze oggetto di contestazione.
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