Impugnazione del riconoscimento, la «verità» va bilanciata con l’interesse del figlio
Il giudice deve anche tenere conto del diritto a conservare una situazione identitaria consolidata
Nell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non sposati, «il bilanciamento che il giudice adito è tenuto a effettuare tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata (...) ma impone di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto», tra cui il diritto all’identità personale, che è legato non solo alla verità biologica ma anche ai legami affettivi maturati in seno alla famiglia, alla condizione identitaria come consolidatasi in conseguenza del falso riconoscimento e all’idoneità dell’autore del riconoscimento a esercitare il ruolo di genitore. È quanto afferma la Cassazione che, con l’ordinanza 3252 depositata il 2 febbraio 2022, ha accolto uno dei motivi di ricorso di un figlio, già quarantacinquenne, contro la pronuncia che dichiarava non veritiero il riconoscimento di paternità avvenuto quando aveva sei anni; a impugnare il riconoscimento in primo grado era stata la nuova moglie del padre “legale”, a cui l’uomo si era unito dopo la separazione dalla precedente compagna e madre del figlio.
Se infatti l’orientamento in precedenza prevalente operava un’automatica coincidenza tra favor veritatis e status filiationis, ritenendo la falsità del riconoscimento già di per sé lesiva del diritto del figlio alla propria identità, con la riforma della filiazione e la conseguente rimodulazione dell’articolo 263 del Codice civile, anche a seguito della modifica dei termini per procedere, «è subentrata (...) una regolamentazione che ha notevolmente rafforzato l’esigenza di stabilità dello status filiationis e di tutela del figlio».
A conforto di tale cambio di passo alcuni interventi della Corte costituzionale e segnatamente le pronunce 127 del 2020 e 133 del 2021, secondo cui in questi procedimenti il giudice deve tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso: non può limitarsi a un mero accertamento della verità biologica, ma deve operare un bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti. In particolare, la sentenza 127 del 2020 della Consulta, di cui la Cassazione ripercorre i passaggi principali, esclude che l’«accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento», in linea con la giurisprudenza della Suprema corte stessa (Cassazione 13638/2013, 26767/2016, 8617/2017). Ciò in armonia con l’evoluzione, sul piano interno e internazionale, del concetto di famiglia in cui assumono rilievo quelle relazioni affettive significative anche ove non fondate sul legame di sangue, di modo che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa».
Principi, questi, ora estesi anche al figlio maggiorenne, non potendo costui essere privato dello stato di filiazione acquisito. Ritiene infatti la Corte che quel bilanciamento fra gli interessi implicati sia ancor più rilevante in vicende, quali quella in esame, in cui il giudizio è intrapreso da un terzo e riguarda un soggetto maggiorenne, dovendosi tenere conto di tutte le variabili del caso concreto «tra cui il diritto all’identità personale, correlato non solo alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali interni alla famiglia, al consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento e all’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore».
Un bilanciamento che la pronuncia impugnata non fa, rimanendo invece legata al solo criterio del favor veritatis, e pertanto viene cassata dalla Suprema Corte; al giudice del rinvio il compito di un nuovo esame svolgendo tali valutazioni.