Indebita percezione e non truffa per il datore che inganna l'Inps sull'indennità di malattia
Se il datore di lavoro dichiara falsamente all'istituto previdenziale l'avvenuta corresponsione in favore dei suoi dipendenti di somme a titolo di indennità di malattia, ottenendo così una compensazione di pari importo dallo stesso istituto, non si configura il reato di truffa, bensì quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, che prescinde dall'esistenza di artifici o raggiri, induzione in errore e danno patrimoniale per la vittima. In tal caso, se la somma falsamente dichiarata è al di sotto di 4mila euro, ovvero la soglia di punibilità prevista dall'articolo 316-ter del codice penale, il datore di lavoro non è punibile. Lo ha precisato il Tribunale di Firenze con la sentenza 1274/2016 optando tra diverse interpretazioni giurisprudenziali sul tema.
La vicenda - Protagonista della vicenda è l'amministratore unico di una Srl il quale aveva indotto in errore l'Inps dichiarando falsamente di aver corrisposto ad un dipendente della società l'indennità di malattia per un valore di poco più di 130 euro, ottenendo così dall'istituto di previdenza un corrispondente riconoscimento economico. Una volta scoperta la falsa dichiarazione, l'amministratore veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di truffa commessa ai danni di un ente pubblico, ai sensi dell'articolo 640 comma 2 n. 1 del codice penale.
L'ingiusto profitto per il datore - Il Tribunale però non è d'accordo col capo di imputazione. Una volta accertato il verificarsi del fatto, il giudice opta infatti per una diversa soluzione nell'individuazione della fattispecie concretamente configurabile. In primo luogo, il Tribunale spiega che le indennità di malattia, così come assegni familiari o di maternità, costituisce un debito dell'Inps e non del datore di lavoro, il quale è tenuto solo ad anticiparle, salvo ottenere in seguito il conguaglio dall'istituto previdenziale. Chiaro è dunque l'ingiusto profitto maturato dal datore di lavoro. Problematica è invece l'esistenza di un danno per l'Inps, il che ha dato luogo a diverse interpretazioni da parte dei giudici.
La configurabilità del reato previsto dall'articolo 316-ter cp - Sul punto la giurisprudenza tradizionale ha optato per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, in quanto la condotta del datore di lavoro che, per mezzo della falsa dichiarazione induce in errore l'Inps sul diritto al conguaglio di dette somme mai corrisposte, realizza «un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva».
Per altra giurisprudenza, invece, la condotta descritta del datore di lavoro non è idonea a determinare un danno all'Inps, «perché il lavoratore potrebbe rivolgersi solo al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta» e non anche all'istituto previdenziale che con il conguaglio ha assolto il suo obbligo. Non di truffa si tratterebbe, ma di appropriazione indebita del datore di lavoro di somme spettanti al lavoratore indebitamente portate a conguaglio e fatte figurare come erogate al lavoratore.
E ancora, altro orientamento ritiene che pur non essendo configurabile il reato di truffa per mancanza del danno patrimoniale in capo all'Inps, la condotta descritta del datore di lavoro deve essere «inquadrata nella fattispecie criminosa della indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all'art. 316-ter c.p., che prescinde sia dall'esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall'esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa». Ed è a questo filone che il Tribunale toscano dichiara di aderire. Il giudice ritiene infatti che il legislatore, con l'introduzione di questa fattispecie, abbia voluto per l'appunto escludere che «la mera ostentazione di dichiarazioni o documentazioni false o attestanti cose non vere (nonché l'omissione di informazioni dovute), possa configurare un artificio o raggiro, tale da integrare il delitto di truffa». E se poi la somma in questione è al di sotto dei 4mila euro – come nel caso di specie – la soglia di punibilità prevista dalla norma esclude la punibilità.
Tribunale di Firenze - Sezione I penale - Sentenza 3 marzo 2016 n. 1274