Civile

Interpretazione del contratto: non basta il "testo" occorre considerare il "contesto"

Ciò sta a significare che la valutazione della lettera non è mai esauriente; cioè che il dato letterale pur di indispensabile importanza non può essere da solo risolutivo

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di Pietro Alessio Palumbo


Il nostro codice civile stabilisce espressamente che nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

Ciò sta a significare che la valutazione della lettera non è mai esauriente; cioè che il dato letterale pur di indispensabile importanza non può essere da solo risolutivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra-testuali, indicati dal legislatore. E si badi – ha evidenziato la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 29250 depositata il 20 ottobre scorso - ciò vale anche quando le espressioni appaiano di per sé non necessitanti di approfondimenti interpretativi, dal momento che una espressione "a prima vista" chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
Dal che in sintesi può affermarsi che il nostro Ordinamento non accoglie il principio riassunto nel latinetto "in claris non fit interpretatio".

Da sola, dunque, la lettera non basta: non basta il "testo", occorre considerare il "contesto".
Per altro verso la ricerca dell'interpretazione nell'ottica della verifica dell'intenzione dei contraenti, alla luce degli elementi testuali ed extratestuali considerati, non può trascendere nel totale, assoluto distacco dal dato letterale. Tale "sconnessione" non tenendo in considerazione il concreto precetto dettato dalla norma, che parte proprio dal dato letterale, può spingere il giudice/interprete ad attribuire alla previsione contrattuale un significato abnorme, sproporzionato ovvero esorbitante rispetto ai "paletti "fissati dal significante.
Ma così il giudice non interpreta, crea.
E "crea" un precetto contrattuale fondato non sulla lettera benché intesa nella sua massima "potenzialità" di significato ma su una supposta intenzione dei contraenti da egli ricostruita. Attenzione: secondo la "propria" soggettiva opinione. Così da trasgredire, da venir meno al dovere d'interpretazione secondo i canoni legali; "lanciandosi" in una esegesi svincolata da regole comprensibili, nel senso di verificabili successivamente attraverso il riscontro del testo e degli altri elementi disponibili. Un impiego "distorto" delle regole dell'ermeneutica.

Insomma – ha posto l'accento la Suprema Corte - nell'interpretazione, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, occorre pur sempre prestare ossequio al carattere prioritario dell'elemento letterale; sebbene esso non possa essere inteso in senso esclusivo, ma si debba in ogni caso tener conto degli altri elementi rammentati.

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