Casi pratici

L'azione per il risarcimento del danno da reato

di Claudio Coratella

la QUESTIONE
L'azione per il risarcimento del danno da reato può essere esercitata, indistintamente, sia nel processo penale che nel processo civile? Cosa succede quando vi è una compiuta coincidenza fra le due domande di risarcimento? L'azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale e, in tal caso, cosa succede al giudizio civile?


Azione per il risarcimento del danno da reato e rapporti tra azione civile e azione penale
Nel nostro ordinamento giuridico è stabilito che ogni reato obbliga il soggetto condannato e, in solido con quest'ultimo, il soggetto tenuto a norma delle leggi civili a rispondere per il fatto dell'imputato (c.d. responsabile civile) alle restituzioni e/o al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale prodotto (art. 185 c.p.). Il risarcimento consiste nella corresponsione di una somma di denaro equivalente al pregiudizio arrecato con il reato al danneggiato e ricorre, solitamente, quando la restituzione non è possibile e/o non è sufficiente a riparare il danno cagionato.
L'azione per il risarcimento del danno da reato può essere esercitata, indistintamente, nel processo penale o nel processo civile, purché la medesima azione non sia esercitata contemporaneamente sia in sede penale che in sede civile (cfr., Cassazione civ., Sez. III, 27 gennaio 2005, n. 1654: «l'azione civile meramente risarcitoria, fondata su un fatto che rilevi ai sensi dell' c.c. e, allo stesso tempo, costituisca fattispecie penalmente considerata, può essere esperita sia attraverso un'opzione penale, mediante costituzione di parte civile nel processo penale, sia attraverso un'opzione civile, che si verifica nelle ipotesi in cui il danneggiato agisce in sede civile prima dell'inizio dell'azione penale o quando la costituzione di parte civile non gli è più consentita, ma prima che sia stata emessa sentenza penale di primo grado»).
Ovviamente, tale ultimo principio, finalizzato a escludere la duplicazione dei giudizi, trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande (Cassazione pen., Sez. IV, 1° giugno 2007, n. 21588); ciò comporta che, qualora un medesimo fatto illecito produca diversi tipi di danno, il danneggiato può pretendere il risarcimento di ciascuno di essi separatamente dagli altri, agendo per uno in sede civile e costituendosi parte civile nel giudizio penale per l'altro (Cassazione pen., Sez. II, 14 ottobre 2008, n. 38806).
Il codice di procedura penale attualmente in vigore, del resto, si differenzia da quello precedentemente vigente poiché ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile e ha introdotto, invece, l'opposto principio della pressoché completa autonoma separazione tra i due giudizi di modo che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione, il processo civile autonomamente promosso può e deve proseguire nonostante la pendenza del processo penale (cfr., Cassazione civ., Sez. VI, 22 maggio 2014, n. 11336; Cassazione civ., Sez. III, 15 marzo 2007, n. 6009; Cassazione civ., Sez. Lavoro, 10 gennaio 2006, n. 154; Cassazione civ., Sez. Lavoro, 3 agosto 2004, n. 14875; Cassazione Civ., Sez. Lavoro, 18 gennaio 2007, n. 1095).
I rapporti tra l'azione civile e l'azione penale, specificatamente, sono attualmente disciplinati dall'art. 75 c.p.p. il quale statuisce che «l'azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato» e che «l'esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio» (comma 1).
Pertanto, secondo una parte della giurisprudenza, a fronte di due azioni identiche proposte l'una in sede civile e l'altra in sede penale, il giudice civile deve dichiarare la litispendenza di quella proposta innanzi a sé e poi trasferita in sede penale, sempre che i presupposti di tale vicenda ancora sussistano (Cassazione civ., Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5135, che richiama Cassazione civ., Sez. Un., 5 aprile 2013, n. 8353). Secondo parte della giurisprudenza, tuttavia, a seguito della "translatio" dinanzi al giudice penale, non è configurabile alcuna ipotesi di litispendenza, posto che l'estinzione del giudizio civile esclude la contemporanea pendenza di due giudizi (Cassazione civ., Sez. III, 30 giugno 2005, n. 13946).
Il trasferimento dell'azione civile comporta la revoca della costituzione di parte civile e l'estinzione del rapporto processuale civile nel processo penale, impedendo al giudice penale di ulteriormente decidere sulle statuizioni civili di una sentenza relativa a un rapporto processuale ormai estinto.
L'azione civile, invece, prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile (comma 2). Se l'azione è proposta in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, di converso, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge (comma 3).
Da tale complesso coacervo di disposizioni si ricava, da un lato, che non è possibile esercitare contemporaneamente l'azione civile sia in sede civile che in sede penale e, dall'altro, che l'azione civile nel processo penale è facoltativa.


Trasferimento dell'azione civile nel processo penale: fatto "impeditivo" o fatto "estintivo" del processo civile?
Il trasferimento dell'azione civile in sede penale che, come già evidenziato, comporta la rinuncia dell'attore al giudizio civile postula che tra le due azioni vi sia identità di oggetto (causa petendi e petitum) e di soggetti (personae) (Cassazione civ., Sez. I, 27 dicembre 2019, n. 34529; Cassazione civ., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633; Cassazione civ., 26 ottobre 2005, n. 20823; Cassazione civ., Sez. II, 19 settembre 2006, n. 20241; Cassazione civ., Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7396; cfr., anche la recente Cassazione civ., Sez. III, 19 marzo 2014, n. 6351). Pertanto, ad esempio, laddove il soggetto danneggiato da un reato agisca dinanzi al giudice civile per il risarcimento del danno morale e del danno biologico e, successivamente, si costituisca parte civile nel processo penale chiedendo il risarcimento del solo danno patrimoniale (Cassazione pen., Sez. II, 14 ottobre 2008, n. 38806), tale effetto non si produrrà. E infatti, il disposto di cui all'art. 75 c.p.p., comporta che, qualora un medesimo fatto illecito produca diversi tipi di danno, il danneggiato possa pretendere il risarcimento di ciascuno di essi separatamente dagli altri, agendo in sede civile per un tipo e poi costituendosi parte civile nel giudizio penale per l'altro (Cassazione civ., Sez. III, 10 marzo 2006, n. 5224).
L'accertamento sull'identità delle azioni che prescinde dall'esame della fondatezza dell'azione esperita con la costituzione di parte civile è rimesso, in ogni modo, all'apprezzamento del giudice di merito (come tale incensurabile in sede di legittimità ove non siano rilevabili vizi di motivazione) e, qualora da tale analisi emerga che l'azione proposta innanzi al giudice civile è identica a quella proposta mediante costituzione di parte civile nel processo penale, si avrà "trasferimento" della prima azione in quest'ultimo processo, con rinuncia agli atti del primo giudizio.
La dottrina e la giurisprudenza, sul punto, hanno accolto due diversi orientamenti e qualificato, di volta in volta, il citato trasferimento dell'azione civile nel processo penale o quale fatto "impeditivo" alla prosecuzione del primo processo (ossia, un temporaneo ostacolo all'esercizio della giurisdizione del giudice civile; ex plurimis , Cassazione civ., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15995; Cassazione civ., Sez. III, 28 agosto 2007, n. 18193; Cassazione civ., Sez. III, 3 novembre 2004, n. 21057; Cassazione civile, Sez. III, 8 gennaio 2001, n. 189), o quale fatto "estintivo" (Cassazione civ., Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7396; Cassazione civ., Sez. II, 31 marzo 2005, n. 6754; Cassazione civ., Sez. III, 30 giugno 2005, n. 13946; Cassazione civ., Sez. III, 6 agosto 2007, n. 17172), immediato e definitivo, del processo civile, indipendente dall'esito del processo penale (ex plurimis, Cassazione civ., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633).
Il tema in discussione coinvolge, pertanto, sia il rapporto tra competenza del giudice civile e competenza del giudice penale sull'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno, che l'interpretazione della norma che disciplina gli effetti del "trasferimento" dell'azione dal processo civile al processo penale.
La confusione è generata, del resto, dalla stessa costruzione letterale dell'art. 75 c.p.p. che espressamente statuisce che l'esercizio della facoltà di trasferimento nel processo penale dell'azione civile «comporta la rinuncia agli atti del giudizio», inducendo parte della giurisprudenza ad argomentare che si produrrebbe un effetto estintivo immediato e definitivo a prescindere dall'esito del processo penale (Cassazione civ., Sez. I, 7 aprile 1994, n. 3289).
Peraltro, occorre dar conto del fatto che la giurisprudenza che ha accolto tale primo orientamento si è poi divisa quanto alla disciplina applicabile: alcune sentenze hanno fatto riferimento al fatto estintivo della rinuncia agli atti del processo ex art. 306 c.p.c. (Cassazione civ., Sez. III, 30 gennaio 1982, n. 595; Cassazione Civ., Sez. lavoro, 27 luglio 1983, n. 5180; Cassazione civ., Sez. III, 9 aprile 1992, n. 4368) che può operare ipso iure , con rilievo anche d'ufficio del giudice (cfr., Cassazione civ., Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7396; Cassazione civ., Sez. III, 30 giugno 2005, n. 13946; Cassazione civ., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633); altre, di converso, a quello dell'inattività delle parti ex art. 307 c.p.c. (cfr., Cassazione civ., Sez. I, 11 maggio 1995, n. 5167; Cassazione civ., Sez. I, 8 settembre 1997, n. 8737; Cassazione civ., Sez. III, 6 agosto 2007, n. 17172).
Più recentemente, tuttavia, altra parte delle giurisprudenza ha ritenuto che l'esercizio della facoltà di trasferire nel processo penale l'azione civile non comporta un effetto estintivo, ma solo un temporaneo ostacolo all'esercizio della giurisdizione del giudice civile sull'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno (ossia, una preclusione impeditiva del suo proseguimento; cfr., Cassazione civ., Sez. III, 6 agosto 1991, n. 8580; Cassazione civ., Sez. III, 11 febbraio 1994, n. 2779; Cassazione civ., Sez. I, 8 settembre 1997, n. 8737 in vigenza del codice abrogato nonché Cassazione civ., Sez. III, 8 gennaio 2001, n. 189; Cassazione civ., Sez. III, 3 novembre 2004, n. 21057; Cassazione civ., Sez. III, 28 agosto 2007, n. 18193), la cui declaratoria, in ogni modo, non può essere pronunciata se nel frattempo il processo penale si è concluso senza una pronuncia sull'azione civile (ad esempio, con una sentenza ex articolo 444 c.p.p., che quindi non ha deciso sull'azione civile, lasciando così impregiudicate le ragioni del danneggiato costituito parte civile, per le quali potrebbe essere validamente proseguito il processo civile già precedentemente instaurato; oppure, con un decreto di archiviazione emesso dal giudice per le indagini preliminari: cfr., Cassazione civ., Sez. III, 3 novembre 2004, n. 21057).
Secondo buona parte della giurisprudenza che accoglie tale orientamento, la preclusione potrà essere dichiarata solo quando sussiste nel momento in cui è rappresentata al giudice, senza che sia necessaria una apposita eccezione di parte, poiché attiene a un interesse all'ordinato esercizio della giurisdizione che sovrasta il potere dispositivo delle parti (cfr., Cassazione civile, Sez. III, 8 gennaio 2001, n. 189; nello stesso senso, Cassazione civ., Sez. III, 28 agosto 2007, n. 18193; Cassazione civ., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15995).
Nondimeno, risultano alcuni precedenti, altrettanto recenti, nelle cui massime è nuovamente ribadita l'affermazione della necessità dell'eccezione di parte, sul presupposto che si tratti di fatto estintivo (cfr., Cassazione civ., Sez. III, 6 agosto 2007, n. 17172) o che continuano a discorrere della rinuncia di cui all'art. 75, comma 1, c.p.p. come fatto estintivo ex lege del giudizio civile (cfr., Cassazione civ., Sez. III, 30 giugno 2005, n. 13946). Per tale ragione, con le ordinanze interlocutorie n. 7820 del 17 maggio 2012 e n. 17137 dell'8 ottobre 2012, la Terza Sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha recentemente rimesso la questione al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezione Unite.


Sospensione del processo civile
L'art. 75, comma 3, c.p.p. statuisce che qualora l'azione nei confronti dell'imputato sia proposta in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, si ha la sospensione del processo civile fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione (salvo le eccezioni previste dalla legge).
Nell'ordinamento processuale vigente, la citata disposizione rappresenta l'unico mezzo preventivo di coordinamento tra il processo civile e quello penale ed esaurisce ogni possibile ipotesi di sospensione del giudizio civile per pregiudizialità, ponendosi come eccezione al principio generale di autonomia al quale s'ispirano i rapporti tra i due processi (Cassazione civ., Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13544).
E, infatti, fuori dal caso in cui i giudizi di danno possono proseguire davanti al giudice civile ai sensi dell'art. 75, comma 2, c.p.p., il processo può essere sospeso se tra processo penale e altro giudizio ricorre il rapporto di pregiudizialità indicato dall'art. 295 c.p.c. o se la sospensione è prevista da altra specifica norma, e sempre che la sentenza penale esplichi efficacia di giudicato nell'altro giudizio, ai sensi degli artt. 651, 652 e 654 c.p.p. (Cassazione civ., Sez. VI, 21 giugno 2012, n. 10417; Cassazione civ., Sez. VI, 22 maggio 2014, n. 11336).
L'affermata autonomia dei due giudizi, infatti, esclude la possibilità che il giudice possa disporre la sospensione del processo civile facendo applicazione del disposto di cui all'art. 42 c.p.c. che, prevedendo l'autonoma impugnabilità dell'ordinanza di sospensione è norma posta a tutela dell'interesse della parte alla prosecuzione e alla sollecita definizione del procedimento, sicché una eventuale sospensione adottata dal giudice al di fuori dei casi indicati dalla legge risulterebbe inammissibile (Cassazione civ., Sez. I, 1° agosto 2012, n. 13828).
Secondo la più recente giurisprudenza, inoltre, la norma deve essere interpretata anche nel senso che la sospensione necessaria del processo civile disposta per il caso in cui il danneggiato abbia dapprima esercitato l'azione civile in sede penale con la costituzione di parte civile e successivamente esercitato l'azione civile in sede civile, non trova applicazione allorquando il detto danneggiato eserciti l'azione civile in sede civile non solo contro l'imputato, ma anche contro altri coobbligati e ciò tanto se il cumulo soggettivo così realizzato dia luogo a un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, quanto se dia luogo a un'ipotesi di litisconsorzio necessario, restando, altresì, in ogni caso irrilevante che alcuno o tutti fra i coobbligati fossero stati citati nel processo penale come responsabili civili (Cassazione civ., Sez. VI, 18 maggio 2020, n. 9066; Cassazione civ., Sez. VI, 27 dicembre 2013, n. 28703; conf., Cassazione civ., Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17608). Sulla base di tale principio la Suprema Corte di Cassazione ha sancito, ad esempio, che l'art. 75, comma 3, c.p.p., non si applica nel caso in cui il danneggiato intenti azione di danno cumulativamente nei confronti del danneggiante, del responsabile civile e dell'Assicurazione della responsabilità civile successivamente alla pronuncia di primo grado nel processo penale in cui sia imputato il danneggiante. Ciò in conformità all'orientamento del legislatore di sfavore rispetto al proliferare dei casi di arresto e sospensione del processo civile che si basa sul superamento del principio di prevalenza del processo penale su quello civile e sull'affermazione di parità dei diversi ordini giurisdizionali e di autonomia dei giudizi che rende recessivo il valore dell'uniformità dei giudicati (Cassazione civ., SS.UU., 21 maggio 2019, n. 13662; Cassazione civ., SS. UU., 21 maggio 2019, n. 13661).
L'eventuale esclusione della parte civile dal processo penale, di converso, non solo non pregiudica l'esercizio dell'azione risarcitoria in sede civile, ma per il relativo giudizio, in considerazione del carattere necessitato e non volontario dell'esodo, non opera il meccanismo di stasi previsto dall'articolo 75, comma 3, c.p. in attesa della conclusione del giudizio penale, con l'ulteriore conseguenza che, in questo caso, il processo civile proseguirà il suo corso senza essere in alcun modo influenzato dal processo penale e sarà, quindi, inapplicabile nei confronti del danneggiato l'efficacia vincolante dell'eventuale giudicato assolutorio (cfr., Cassazione pen., Sez. II, 10 aprile 2009, n. 15680).
La disciplina di cui all'art. 75 c.p.p. nel regolamentare i rapporti tra azione civile e penale, pertanto, ha natura eccezionale, esaurendo ogni possibile ipotesi di sospensione del giudizio civile per pregiudizialità.


Efficacia del giudicato penale in sede civile
L'aspetto della valenza del giudicato penale in sede civile è disciplinato, invece, dagli artt. 651 ("Efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno") 651 bis (Efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno) e 652 c.p.p. ("Efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno").
L'art. 651 c.p.p. statuisce che la sentenza penale irrevocabile di condanna, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
L'art. 651 bis c.p.p., poi, sancisce che la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. Tale efficacia è riconosciuta anche alla sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell'articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.
Di converso, ai sensi dell'art. 652 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della insussistenza del fatto o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile (a meno che il danneggiato, iniziata l'azione civile di responsabilità in epoca anteriore a quella penale, non abbia proseguito l'azione in sede civile, a norma dell'art. 75, comma 2, c.p.p.; cfr., Cassazione civ., Sez. I, 9 gennaio 2013, n. 319).
In entrambe le ipotesi, ha efficacia di giudicato anche la sentenza irrevocabile di assoluzione o di condanna pronunciata a norma dell'art. 442 c.p.p., salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato. La giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato, a tal proposito, che qualora la parte civile, in luogo di esprimere la volontà di non accettare il rito abbreviato così determinando, ai sensi dell'art. 441, comma 4, c.p.p., l'unico effetto di rendere inapplicabile la sospensione di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p. si limita a non esprimere né dissenso né consenso all'instaurazione del suddetto rito speciale, tale comportamento processualmente neutro, non può essere interpretato come indicativo di una scelta della parte civile di trasferire la domanda civilistica nella sua sede naturale, rinunciando all'azione proposta nel processo penale (Cassazione pen., Sez. I, 3 marzo 2004, n. 10001).
Inoltre, la mancata accettazione della parte civile del rito abbreviato non equivale alla revoca della costituzione di parte civile, ma determina esclusivamente la conseguenza di rendere inapplicabile il disposto di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p..
Pertanto, il giudizio civile di danno dovrà essere sospeso soltanto allorché l'azione civile, ex art. 75 c.p.p., sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado, in quanto esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente a un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto (Cassazione civ., Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3820).


Considerazioni conclusive
L'inserimento di un'azione civile per il risarcimento del danno da reato nel processo penale trova fondamento nel principio della sostanziale unità della giurisdizione statuale e nell'esigenza di evitare giudicati contraddittori, così realizzandosi, tramite una misura processuale preventiva, una pluralità di rapporti processuali in un solo processo, senza che l'azione civile perda la sua originaria connotazione. Tuttavia, tale principio, finalizzato a escludere la duplicazione dei giudizi, trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande. Il codice di procedura penale in vigore, difatti, si differenzia da quello precedentemente vigente poiché ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile e ha introdotto, invece, l'opposto principio della pressoché completa autonoma separazione tra i due giudizi, di modo che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione, il processo civile autonomamente promosso può e deve proseguire nonostante la pendenza del processo penale.