Civile

L'eccezione di compensazione nel giudizio di cognizione promosso dalla curatela fallimentare

La differenza tra i due istituti, come insegna la Suprema Corte , non è dunque nella natura del diritto fatto valere, ma nello scopo perseguito ovvero nell'uso che viene fatto del proprio diritto

di Stefano Vona*

È noto che la Corte di Cassazione ha affermato che l'eccezione di compensazione, formulata dal debitore nell'ambito di un giudizio ordinario di cognizione promosso dalla procedura fallimentare, non sia di competenza esclusiva del Tribunale fallimentare -ovvero non costituisca una questione di rito se il Tribunale ordinario e quello fallimentare coincidono- e non debba quindi esser accertata esclusivamente dal giudice fallimentare .

Ovviamente, è ben nota la differenza tra azione ed eccezione: la prima ha, a proprio fondamento, un fatto costitutivo mentre la seconda un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato. "A metà strada", invece, si trova l'eccezione riconvenzionale, nel caso di specie di compensazione, che, a differenza della domanda (riconvenzionale), non mira a conseguire un'utilità bensì solamente a paralizzare la domanda attrice mediante un controcredito vantato dal convenuto.

La differenza tra i due istituti, come insegna la Suprema Corte (Cass. 7 giugno 2013, n.14418) , non è dunque nella natura del diritto fatto valere, ma nello scopo perseguito ovvero nell'uso che viene fatto del proprio diritto.

Declinando quanto appena detto nel nostro caso, secondo l'orientamento di legittimità in questione, altro non vuol dire se non che l'eccezione riconvenzionale di compensazione della parte in bonis è ammissibile poiché non costituisce una domanda di condanna in favore di colui che assume essere creditore dell'importo posto in compensazione e, quindi, "sfugge" al rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo di cui agli artt.93 e ss. L.F. e/o 201 e ss. C.C.I.I.

Questa impostazione, a nostro sommesso avviso, stride con lo spirito della Legge fallimentare, a partire dall'art.24 a seguire con gli artt.52 e 56 e a terminare con gli artt.93 e ss. L.F., né è conforme a quello del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza che, sul punto, non ha innovato la previgente disciplina : infatti, l'eccezione di compensazione comporta comunque un accertamento del credito opposto e questo non può che essere riservato al giudice fallimentare.

Questo orientamento giurisprudenziale, che ammette il diritto del soggetto in bonis di opporre in compensazione un proprio credito con quello azionato dal Curatore fallimentare in un giudizio ordinario, si fonda essenzialmente -se non unicamente- sulla facoltà del convenuto debitore di sollevare un'eccezione riconvenzionale di tale compensazione che (cfr. ex plurimis Cass. 12 gennaio 2005, n.453) , non essendo una domanda, non è "soggetta alla procedura di accertamento del passivo in sede concorsuale" (Cass. sez. un. 12 novembre 2004, n.21499 e Cass. sez. un. 12 novembre 2004, n.21500)

Tale tesi, tuttavia, non convince.

Infatti, lo scopo perseguito ovvero l'uso che viene fatto del proprio diritto, nel caso dell'eccezione riconvenzionale di compensazione, comporta comunque l'accertamento del diritto del soggetto in bonis, a maggior ragione, se si considera che tale eccezione è fondata su un autonomo diritto che, astrattamente, potrebbe esser posto a fondamento di una altrettanto autonoma domanda.

Questo motivo unitamente a quelli che qui appresso si illustreranno sembrano rendere tale orientamento non particolarmente condivisibile.

Innanzitutto, la Legge fallimentare prima ed il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza ora sono più che chiari nello statuire che è il Tribunale "del fallimento" a conoscere di tutte le azioni che ne derivano.

Non a caso, l'art.52 L.F. e l'art.151 C.C.I.I. prescrivono che il fallimento e la liquidazione giudiziale aprono il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e che "ogni credito" -e, quindi, ogni diritto- deve essere accertato secondo le norme previste per l'accertamento del passivo: accertamento che viene effettuato e si svolge solamente innanzi al giudice fallimentare. ( Cass. sez. un. 12 novembre 2004, n.21499, Cass. sez. un. 12 novembre 2004, n.21500, Cass. 14 luglio 2011, n.15562 e Cass. 7 giugno 2013, n.14418.)

Proprio in virtù di quanto appena sostenuto, un altro orientamento della Suprema Corte ha affermato, anche di recente, che "non assume alcun rilievo l'eventualità che il credito sia stato opposto in compensazione in un giudizio ordinario promosso dal fallimento per la riscossione di un credito del fallito, in quanto la compensazione, oltre a presupporre l'accertamento del credito, può esser riconosciuta soltanto in sede fallimentare "(Cass. 7967/2008, Cass. 18691/2014" (così testualmente Cass. 5 agosto 2020, n.16708).

Del resto, è solamente in sede fallimentare che può svolgersi un contraddittorio "pieno" non solo -o non tanto- con la curatela fallimentare, ma anche con gli altri creditori. Infatti, gli artt.95, comma 2, L.F. e 203, comma 2, C.C.I.I. prescrivono il diritto dei creditori e dei titolari di diritti sui beni di esaminare il progetto di stato passivo e di presentare al curatore osservazioni, mentre il successivo comma di entrambe le disposizioni statuisce che il giudice delegato decide su ciascuna domanda avendo riguardo anche alle eccezioni formulate dagli altri interessati, in primis gli altri creditori, i quali possono presentare osservazioni ed eccezioni al fine di escludere dallo stato passivo i creditori concorrenti.

D'altronde, l'ammissione di un credito determina una conseguente e potenzialmente minore soddisfazione degli altri creditori già ammessi.

Tale contraddittorio, con tutta evidenza, non si ha ove si ammettesse la proponibilità dell'eccezione riconvenzionale di compensazione nell'ambito di un giudizio ordinario promosso dal fallimento. Contraddittorio -quello del giudizio ordinario- che ovviamente esclude quei creditori che hanno cognizione della storia della società fallita e che, dunque, potrebbero osservare e/o eccepire fatti volti ad escludere quel creditore dallo stato passivo e di cui la curatela fallimentare può non aver contezza.

È bene ricordare, peraltro, che la realtà empirica ha insegnato che spesso la parte in bonis che oppone in compensazione un controcredito alle pretese del fallimento è un soggetto vicino al fallito quale, ad esempio, società a questi riconducibile -magari anche socia della società fallita- che eccepiscono presunti crediti per finanziamenti o prestiti al fine di paralizzare il credito del fallimento/liquidazione giudiziale.

Non solo, quindi, il presunto creditore si svincolerebbe dal rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo -e, dunque, anche dalle eventuali osservazioni ed eccezioni degli altri creditori- ma potrebbe anche determinare un danno per la procedura fallimentare che azionasse il proprio credito in sede ordinaria. Infatti, un controcredito di pari o superiore ammontare rispetto a quello della procedura renderebbe questa soccombente, con la conseguenza di esporla anche al pagamento delle spese di lite di controparte: ergo, oltre al danno la beffa.

Infine, the last but not the least, si avrebbe come paradosso -o, meglio, per un'eterogenesi dei fini- che il soggetto in bonis otterrebbe un accertamento (rectius: un titolo) giudiziale successivo alla dichiarazione di apertura della procedura che giustificherebbe la sua ammissione al passivo ove il suo controcredito fosse maggiore dell'importo vantato da questa, così di fatto negando il carattere esclusivo dell'accertamento del credito del rito fallimentare che, in questo caso, diventerebbe una mera formalità.

In definitiva, alla luce di quanto esposto, è da ritenersi maggiormente condivisibile il più recente orientamento di legittimità che nega la possibilità di eccepire in compensazione un controcredito nell'ambito di un giudizio ordinario promosso dalla procedura fallimentare per il pagamento di un credito.

*a cura dell'Avv. Stefano Vona, Ordine degli Avvocati di Roma


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