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L’imprenditore e i suoi rapporti contrattuali: alcuni effetti del dovere di istituire adeguati assetti

La violazione del dovere di istituire adeguati assetti e la configurabilità dei rimedi sinallagmatici nei rapporti contrattuali di cui sia parte (almeno) un imprenditore

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di Alessandro Palma*

Postulando l’avvenuto innesto nel nostro ordinamento giuridico, con l’interpolazione del secondo comma dell’art. 2086 c.c., di un ulteriore specifico “dovere di protezione” che è anche un dovere di professionalità, la tutela del rapporto obbligatorio di cui sia parte (almeno) un imprenditore può ritenersi estesa a un preciso interesse che ha la controparte contrattuale dello stesso imprenditore. Si tratta dell’interesse a che gli assetti dell’impresa gestita da quest’ultimo siano idonei a gestire preventivamente sia il rischio della crisi e della perdita della continuità aziendale, sia gli altri rischi di impresa che possono mettere a rischio il ricevimento della esatta prestazione dovuta dal medesimo imprenditore (mi sia consentito il rinvio a La responsabilità contrattuale dell’imprenditore, dopo l’interpolazione del secondo comma dell’art. 2086 c.c.). A una prima verifica circa la tutelabilità di questo interesse è dedicato il presente, sintetico, contributo.

Ora, in un contesto economico come quello attuale i cui protagonisti sono perennemente in crisi e nel quale i danni che può produrre l’attività economica sono lungolatenti e difficilmente risarcibili [1], l’esigenza di configurare rimedi anticipatori dovrebbe essere molto avvertita. E pertanto, sulla scia di quanto già acquisito dalla scienza giuridica con riferimento all’azionabilità autonoma degli obblighi di protezione in generale (al riguardo, rimando ancora a La responsabilità contrattuale dell’imprenditore, dopo l’interpolazione del secondo comma dell’art. 2086 c.c. e, in particolare, al paragrafo “L’estensione della responsabilità contrattuale”), non sarà peregrino indagare, anzitutto, circa l’invocabilità dei rimedi sinallagmatici (in particolare, della risoluzione, della eccezione di inadempimento e della sospensione della esecuzione delle prestazioni) a fronte della violazione dello specifico (dovere, che nel rapporto contrattuale diventa) obbligo di protezione che ha l’imprenditore di istituire adeguati assetti.

L’invocabilità dei rimedi sinallagmatici con riferimento alla violazione dell’obbligo di istituire adeguati assetti

Con particolare riferimento alla risoluzione per inadempimento del contratto e se non vogliamo fare “prevenzione” solo a parole, potrebbe, anzitutto, configurarsi un “inadempimento anticipato” contestabile all’imprenditore-debitore che si riveli, nel corso dell’esecuzione del rapporto contrattuale, sprovvisto di adeguati assetti e, quindi, incapace di prevenire la crisi e di gestire – per quanto dovuto e gli sia possibile – gli altri rischi che possono mettere in pericolo la corretta esecuzione della prestazione dedotta in obbligazione. Mi sia consentito il rinvio a Gli “adeguati assetti” e l’inadempimento delle obbligazioni: qui si sottolinea solo che la Cassazione (si vedano, ad esempio, Cass., n. 23823/2012 e Cass., n. 10546/2015) si è già espressa nel senso che l’inadempimento contrattuale può essere fatto valere in maniera anticipata quando, secondo buona fede, la parte che si assume essere inadempiente si comporta in maniera da rendere antieconomica o impossibile la prosecuzione del rapporto.

Questa elaborazione giurisprudenziale è stata mutuata dal common law, in particolare dall’istituto dell’anticipatory breach. I casi in cui è intervenuta la Cassazione non hanno riguardato l’attività di impresa, ma non è difficile ipotizzare, mutatis mutandis, una parte contraente che, resasi conto della grave inadeguatezza dell’impresa gestita dalla controparte-imprenditore nell’eseguire la prestazione caratteristica, decida di domandare la risoluzione del contratto senza aspettare la scadenza del pattuito termine di esigibilità; e ciò invocando il combinato disposto degli artt. 1453 e 1455 c.c. in collegamento proprio con l’art. 2086 c.c. (più prudente sarebbe l’invio di una “diffida ad adempiereex art. 1454 c.c., che consentirebbe all’imprenditore di contraddire e smentire la contestazione ricevuta dando conto, per contro, dell’adeguatezza dell’organizzazione dell’impresa). E si badi bene che, in questa ipotesi, saremmo ben al di là dei doveri generali di buona fede che ha utilizzato la Cassazione per statuire l’anticipatory breach; qui, ci sarebbe la violazione del preciso dovere di istituire gli adeguati assetti, che sono sì una clausola generale, ma, per quanto generale, tipizzata (per darle contenuto l’interprete, e prim’ancora l’imprenditore che deve istituire gli adeguati assetti, si deve approvvigionare da quella particolare tecnica che è la scienza aziendalistica: si veda già V. Buonocore , Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, 1, pag. 5 e ss.).

Ovviamente, per giungere alla conclusione della risoluzione del contratto prima della scadenza del termine di esigibilità della prestazione contrattuale [2], l’interprete della legge deve inforcare nuove lenti e, sia pure maneggiando vecchie categorie, considerare che – con il nuovo dovere a carico dell’imprenditore di istituire adeguati assetti a protezione di interessi non solo suoi – assume senz’altro rilevanza per la controparte contrattuale l’organizzazione dell’attività di impresa che è alla base del prodotto o del servizio promesso. In particolare, dal punto di vista della controparte contrattuale dell’imprenditore, sarà rilevante la idoneità dell’organizzazione dell’impresa a fargli conseguire – anche attraverso la gestione preventiva della crisi – quanto promesso sin dal primo momento e durante tutto il rapporto. E ciò pur considerando, da una parte, il limite (altrettanto ovvio) previsto dall’art. 1455 c.c., secondo cui “(i) l contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”; e, dall’altra (per evitare abusi della controparte contrattuale dell’imprenditore), la concreta rilevanza dell’assetto dell’impresa per la esatta esecuzione della prestazione principale che viene in considerazione. Del resto, il limite normativo della “scarsa importanza” dell’inadempimento di cui alla ora menzionata disposizione potrebbe svolgere, d’ora in poi, anche una funzione positiva: perché un inadempimento di per sé di scarsa importanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1455 c.c., non dovrebbe diventare grave se a questo si accompagna una evidente carenza organizzativa dell’imprenditore-debitore?

Allo stesso modo mi pare che si possano configurare i presupposti per l’applicabilità degli artt. 1460 e 1461 c.c., ancorquando la disfunzione del sinallagma non riguardi le prestazioni principali ma quel particolare obbligo di protezione costituito, come si è detto, dal dovere per l’imprenditore di istituire adeguati assetti.

E così, la controparte contrattuale dell’imprenditore che sia coinvolto in un rapporto che scaturisce dall’attività di impresa caratteristica di quest’ultimo, ben potrebbe rifiutarsi di adempiere – ex art. 1460 c.c. – le sue obbligazioni ancorquando sia tenuto ad adempiere per primo e ciò quando risulti la violazione, da parte dello stesso imprenditore, dell’obbligo, per così dire, “organizzativo” collegato al dovere di istituire adeguati assetti; obbligo che andrà individuato con riferimento al rischio tipico collegato al contratto di volta in volta stipulato dall’imprenditore (si pensi, ad esempio, al caso in cui sia stato commissionato, a un’impresa del settore, l’arredamento di un immobile e il committente si ponga nella prospettiva di rifiutare il pagamento degli ulteriori acconti pattuiti perché si avvede, in corso di rapporto, che le consegne parziali sono in ritardo, che il negozio espositivo degli arredi è sempre più spoglio e che lo stesso negozio è spesso chiuso negli orari indicati di apertura). Così, ancora una volta, questo rischio avrà sempre nel suo perimetro il rischio che l’impresa vada in crisi e l’imprenditore diventi insolvente (ai sensi e per gli effetti delle nuove norme del Codice della crisi); e poi includerà il rischio di una determinata carenza, in senso lato, “organizzativa” che spetterà alla controparte che solleva l’eccezione di individuare in maniera qualificata (sempre per evitare abusi) e che, comunque, dovrà essere tale da mettere in concreto pericolo il ricevimento della prestazione che deve l’imprenditore (nel caso poc’anzi ipotizzato come esempio, la controparte contrattuale dovrebbe essere in grado sia di allegare le circostanze di cui si è scritto, sia di fornire, se del caso, la relativa prova; mentre l’imprenditore, se vorrà paralizzare fondatamente l’eccezione di controparte, dovrà dare conto dell’adeguatezza dell’assetto della propria impresa e ciò anche al di là delle circostanze allegate dalla controparte).

Ancora, proseguendo in questa prospettiva: dovrebbe essere possibile sospendere l’esecuzione della propria prestazione da parte del contraente che, ad esempio, sia vincolato a pagare acconti e che si accorga di una crisi “organizzativa” dell’imprenditore obbligato, sempre ad esempio, a rendere una prestazione continuativa o anche solo complessa (si pensi al caso del promittente acquirente di un immobile in corso di costruzione che non sia protetto dal meccanismo della fideiussione ex art. 2, D. Lgs. 122/2005). Se si valorizza la ratio della norma di cui all’art. 1461 c.c., le “condizioni patrimoniali” costituenti il presupposto della sua applicabilità, ben potrebbero essere configurate dalle circostanze finanziarie, funzionali e, in senso lato, “organizzative” che mettono in pericolo il conseguimento della prestazione dovuta dall’imprenditore (si veda V. Roppo , Il contratto, Milano, 2001, pag. 925, il quale – al di là del caso previsto dall’art. 1662 c.c. [“Verifica nel corso di esecuzione dell’opera”] e prima dell’entrata in vigore del secondo comma dell’art. 2085 c.c. – ha ipotizzato l’applicabilità dell’art. 1461 c.c. proprio in una ipotesi di crisi di carattere organizzativo di un appaltatore che sia tale da porre “in evidente pericolo la realizzazione dell’opera appaltata”). È superfluo aggiungere che, pure in questi casi, l’utilizzabilità dei rimedi di cui agli artt. 1460 e 1461 c.c. soggiace agli espressi limiti previsti dalle due norme, perché non sarà possibile sollevare eccezioni di inadempimento o sospendere l’esecuzione della propria prestazione se, rispettivamente, il rifiuto di adempiere sia contrario a buona fede e se l’imprenditore presti idonea garanzia per rassicurare l’altro contraente circa il suo adempimento.

L’invocabilità dei rimedi sinallagmatici sopra prospettata sarà di particolare interesse pratico qualora si ritenga – e parrebbero non esserci ragioni ostative al riguardo (mi si consenta ancora il rinvio a La responsabilità contrattuale dell’imprenditore, dopo l’interpolazione del secondo comma dell’art. 2086 c.c. e, in particolare, al paragrafo “L’estensione della responsabilità contrattuale”) – che la regola probatoria dell’art. 1218 c.c. è applicabile (direttamente o analogicamente) alla violazione di quel particolare obbligo di protezione, che abbiamo detto gravare in capo all’imprenditore e che è costituito dall’istituzione di adeguati assetti. Infatti, in questa prospettiva, la parte che faccia valere la violazione di questo particolare obbligo di protezione dovrà allegare in maniera qualificata, in relazione alle circostanze del caso (che, queste sì, deve allegare ed essere pronto a provare), l’inadempimento dell’imprenditore dall’angolo visuale della istituzione degli adeguati assetti rilevanti per la prestazione che gli spetta e, qualora chieda il risarcimento, provare il danno subito. Sarà l’imprenditore, se intende sottrarsi alla responsabilità (che, a questo punto, potrà ritenersi indiscutibilmente) contrattuale, che dovrà provare l’adempimento dell’obbligo che si assume violato (e quindi, nel caso ipotizzato, l’adeguatezza degli assetti messa in discussione) o la non imputabilità dell’inadempimento secondo quanto prevede la migliore lettura del combinato disposto di cui agli artt. 1218 e 2697 c.c. (si veda l’insegnamento di Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, che si è più che consolidato fino a oggi). Varranno, ovviamente, le altre peculiarità di disciplina previste in materia di responsabilità contrattuale: ad esempio, quelle relative alla prescrizione, che per la responsabilità contrattuale diventa in linea di massima decennale (art. 2946 c.c. invece che art. 2947 c.c.), alla prevedibilità del danno disciplinata dall’art. 1225 c.c., e al lucro cessante, di cui l’art. 2056 c.c. dispone solo con riguardo alla responsabilità extracontrattuale una valutazione operata dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.

La conclusione

L’indagine iniziata al paragrafo che precede potrebbe proseguire passando al setaccio altri istituti giuridici, in particolare quelli che hanno valenza di rimedi anticipatori e anche di natura processuale, che vedano convolto l’imprenditore nel suo agire professionale: ad esempio, perché, d’ora in poi, il pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale, costituente uno dei presupposti del sequestro conservativo, non dovrebbe essere fondato anche sulla allegazione qualificata di comprovate e concrete circostanze, che siano significative dall’angolo visuale della inadeguatezza dell’assetto dell’impresa i cui beni si vogliono cautelativamente sequestrare?

Lo sprone a continuare questa indagine potrebbe essere rinvenuto nella considerazione che il contesto giuridico in cui l’imprenditore sia sollecitato a dare prova, in ogni momento, dell’adeguatezza dell’assetto della sua attività di impresa, è evidentemente l’humus più idoneo a indirizzare lo stesso imprenditore verso la gestione preventiva dei rischi e, tra questi, del rischio crisi (economico-finanziaria). Altrimenti, per chi si cimenta nell’iniziativa economica, gli adeguati assetti e più in generale l’organizzazione d’impresa saranno sempre un costo da limitare (quando non si può evitare) e per il Legislatore di turno il problema da regolare – quando si tratta di crisi di impresa e della salvaguardia della mitizzata continuità aziendale – sarà sempre di più e solo quello di comprimere i diritti dei creditori, sacrificandoli, ogni volta in maniera più fantasiosa. Tutto ciò con l’unico preconizzabile effetto che si consoliderà a distanza: sarà minata la fiducia reciproca degli operatori del mercato, con conseguente sopravvivenza dei soli monopoli od oligopoli che, forti delle loro risorse per istituire adeguati assetti, avranno sempre più credito dagli intermediari finanziari e sicuramente sapranno approfittare per accaparrarsi ciò che rimane, tra le macerie, delle imprese decotte (per lo più costituite, come risaputo, da PMI).

Se invece l’assetto di norme concretamente operante nel nostro ordinamento venga configurato in modo che chiunque voglia esercitare un’attività economica imprenditoriale sa che deve fare i conti – adoperandosi concretamente e prima di “mettere in piedi” l’impresa – con “una vera e propria condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica[3]; allora, anzitutto, l’imprenditore “sprovveduto non potrà che imputare a se stesso il fatto di essere stato messo fuori dal mercato già nella fase fisiologica della vita dell’impresa. E, soprattutto, il Legislatore non avrà alibi per distrarsi dall’unico tema che a quel punto sarebbe davvero rilevante e che si può declinare, esemplificativamente, nei seguenti più pregnanti quesiti: il nostro Stato di diritto tollera che un’impresa possa essere costituita ed esercitata solo da chi ha le risorse per istituire adeguati assetti nel senso più pregnante del termine? È plausibile che un ordinamento giuridico nazionale sviluppato come il nostro, anziché spargere bonus a pioggia una tantum (per accontentare l’istanza sociale ed economica di volta in volta emergente), impegni la burocrazia ministeriale con un affiancamento dell’imprenditore meritevole, assumendosi, se del caso, una parte dei costi della sua formazione e (perché no?) per l’istituzione di adeguati assetti dell’impresa?

È vero che il modello antropologico attualmente imperante lascia intravedere pochi spiragli di speranza affinché si vada nella direzione di questa assunzione di responsabilità (che è individuale e collettiva allo stesso tempo); così come è vero che la prassi giurisprudenziale potrebbe essere impegnata per lungo tempo a contrastare i possibili abusi perpetrati da creditori che, alla ricerca di pretesti, tentino di approfittare del riconoscimento dei nuovi doveri di professionalità in capo all’imprenditore; ma la via che si sta seguendo oggigiorno in nome del motto “prevenire è meglio di curare”, di forzare il sistema coinvolgendo, senza i giusti contrappesi, creditori e collettività nei costi per superare crisi e insolvenze – beninteso, si fa riferimento solo a imprese ab initio o che diventino non adeguatamente organizzate e non già ai casi di fisiologico insuccesso dell’attività economica dell’imprenditore –, “è intuitivamente un controsenso” (queste ultime parole virgolettate sono prese a prestito da M. S. Spolidoro , Gli strumenti negoziali di regolazione della crisi e dell’insolvenza – contributo che, a chi scrive, risulta pubblicato solo su LinkedIn –, che le ha utilizzate, per la precisione, per esprimere una sana diffidenza verso i rimedi della crisi configurati dal Legislatore [4]).

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*A cura di Alessandro Palma, Founder di Studio Legale Palma, Socio Centro Studi Borgogna

NOTE

[1] Si tratta di danni che vanno ben al di là di quello che, in caso di crisi e di insolvenze, subiscono i creditori e la collettività sub specie di danno erariale. U. Beck , nel suo libro “La società del rischio. Verso una seconda modernità”, Carocci editore, ristampa 2021, ci ammoniva, già prima del disastro di Chernobyl, del fatto che il rischio di danni per la società, prodotto dalla attività di produzione della ricchezza, è un rischio fuori controllo. Il menzionato sociologo scriveva di “irresponsabilità organizzata” per fare riferimento alla gara ingaggiata dagli operatori del mercato, al fine di sottrarsi alle eventuali responsabilità per la causazione di questi danni.

[2] Sull’applicabilità nel nostro ordinamento dell’inadempimento anticipato, si veda l’ampia monografia, anche con riferimenti comparatistici, di T. Pertot , L’inadempimento anticipato. Dalla tutela manutentiva ai rimedi risarcitori, Napoli, 2021, che conduce la sua approfondita indagine partendo dalla “assenza nel nostro ordinamento di una disciplina generale ed organica sulle conseguenze rimediali di un c.d. inadempimento anticipato”.

[3]  P. Benazzo , Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “corporativi”: che ne resta dei soci?, in Diritto della crisi, 4 dicembre 2023, il quale puntualizza che questa condizione è costituita dalla organizzazione e gestione della attività d’impresa “in condizioni di continuo equilibrio, non solo di natura finanziaria, ma anche rispetto a quei valori, quelle istanze, quei principi costituzionali consacrati negli articolo 9 e 41 della Carta costituzionale”.

[4] Secondo l’Autore, in particolare, “(c)he i responsabili della gestione dell’impresa, dopo averne procurato la crisi o l’insolvenza, siano anche coloro che più e meglio sapranno salvarla, è intuitivamente un controsenso. Qualche volta, ciò potrà anche essere vero; tuttavia, una sana diffidenza (ciò che i revisori legali chiamano “scetticismo professionale”) induce piuttosto a credere che i responsabili della crisi dell’impresa ne gestiranno spesso la ristrutturazione nel modo meno doloroso per sé, anche a costo di procurare altri e nuovi danni ad altri soggetti, assolutamente incolpevoli”. Lo stesso Autore, nel suo intervento, dà atto peraltro che “(i)n Francia, la burocrazia ministeriale affianca l’imprenditore con servizi di grande valore, assumendo una parte di costi che, da noi, sono ineluttabilmente a carico del privato”.