Casi pratici

L'onere della prova nel processo tributario alla luce della novella normativa

L'inquadramento normativo antecedente e successivo all'entrata in vigore della legge n. 130/2022

di Giancarlo Marzo e Enrichetta Glave

LA QUESTIONE
In materia di riparto dell'onere probatorio, qual è l'attuale inquadramento normativo alla luce dell'entrata in vigore della legge n. 130/2022? Può il contenuto della novella normativa porsi come una disciplina autonoma ed innovativa rispetto a quella prevista in ambito civilistico?


Tra le novità introdotte dalla legge n. 130 del 2022, meritano particolare attenzione le disposizioni afferenti al riparto dell'onere probatorio e alla valutazione degli elementi di prova da parte del giudice.
Al riguardo, può essere utile rammentare che, antecedentemente alla prefata legge, l'orientamento costante della Cassazione e della dottrina maggioritaria si è assestato sull'applicazione, anche nel processo tributario, dell'art. 2697 c.c., ai sensi del quale: "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda".
Si è, quindi, adottata – ormai da tempo – l'impostazione civilistica secondo cui, colui il quale desidera far valere in giudizio un proprio diritto ha l'onere di dimostrarne i fatti costitutivi; per contro, colui il quale contesta la rilevanza di tali fatti ha invece l'onere di dimostrarne l'inefficacia, o, eventualmente, può addurre ulteriori fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto invocato dalla controparte.
La prassi della Corte si è, dunque, mossa in larga prevalenza sulla scia della disciplina dell'onere della prova delineata dal Codice civile, adattandola alle peculiarità del processo tributario e tenuto conto che, nel contenzioso tributario, i ruoli di "attore in senso sostanziale" e "convenuto in senso sostanziale" sono invertiti.
Nella maggior parte dei casi, infatti, il procedimento ha origine con l'emissione di un atto impositivo da parte dell'Amministrazione finanziaria (i.e. il soggetto attivo) nei confronti del contribuente (i.e. il soggetto passivo) che propone ricorso innanzi al giudice tributario per scongiurare l'inoppugnabilità dell'atto emesso nei suoi confronti. In altri termini, l'Amministrazione finanziaria ha il potere di promuovere l'iniziativa del procedimento tributario e il contribuente non può far altro che resistere in giudizio proponendo ricorso avverso gli atti emessi dalla prima per evitare che questi divengano definitivi.
È, inoltre, ampiamente diffusa nella giurisprudenza di vertice la prassi di accostare all'art. 2697 c.c. l'applicazione del c.d. criterio di vicinanza della prova, invocato alla stregua di un rimedio correttivo al primo, anche al fine di evitare condotte abusive in presenza di una evidente asimmetria conoscitiva tra le parti. Secondo tale principio, di derivazione prettamente giurisprudenziale, l'onere della prova graverebbe sul soggetto dotato di effettiva disponibilità dei mezzi di prova il quale, dunque, per la particolare posizione rivestita, sarebbe posto in prossimità della fonte di prova, prescindendo da ogni distinzione tra fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi.
Seppur non previsto nel testo originario del disegno di legge presentato dal Governo in Senato, il Legislatore fiscale, con la legge n. 130 del 2022, di riforma del processo tributario, ha inteso introdurre una specifica disposizione sull'onere della prova nell'ambito del processo tributario.
Più nel dettaglio, con l'art. 6 della legge n. 130 cit. – entrata in vigore lo scorso 16 settembre 2022 – il Legislatore ha inserito, all'interno dell'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 (rubricato «Poteri delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado»), il nuovo comma 5-bis contenente una "regola autoctona che supera l'improprio orientamento della Corte di Cassazione di trasporre nel comparto tributario dinamiche essenzialmente privatistiche"[3].
Nel corso del presente contributo si tenterà, pertanto, di approfondire in modo puntuale il contenuto della novella normativa e della sua efficacia temporale, tenendo, altresì, in considerazione la recente ordinanza della Cassazione n. 31878 del 27 ottobre 2022 che, seppur in via incidentale, si è pronunciata sul contenuto del nuovo comma 5-bis, delineando una prima possibile "reazione" degli Ermellini alla portata innovativa della norma.

Il contenuto della novella normativa
Come si è anticipato nel precedente paragrafo, è indubbio lo sforzo innovatore compiuto dal Legislatore affinché possa operare, anche nel sistema tributario, una "regola" ad hoc in materia di riparto dell'onere probatorio e di valutazione degli elementi di prova da parte del giudice. Ritenendo prematura in questa fase ogni previsione sulla prassi giurisprudenziale di risposta all'applicazione della suddetta norma, deve, comunque, accogliersi con favore l'introduzione, nel sistema processuale tributario, di una norma che disponga espressamente la ripartizione dell'onere probatorio in capo alle parti del rapporto tributario.
Venendo più specificamente al contenuto della disposizione in parola, il Legislatore ha previsto, testualmente, che: «L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati».
Partendo proprio dall'incipit della norma, è inequivocabilmente richiesto all'attore in senso sostanziale nel sistema tributario (i.e. all'Amministrazione finanziaria), di provare tutte le contestazioni mosse al contribuente, a prescindere che si tratti di violazioni che attengono a fattispecie agevolative o meno. Dunque, in prima battuta il soggetto su cui grava l'onere probatorio della pretesa impositiva è l'Erario che, attraverso l'atto emesso nei confronti del contribuente, è tenuto a fornire prova esaustiva circa le violazioni contestate. È, inoltre, esclusa dalla lettera della norma ogni puntualizzazione in merito al tipo di contestazioni che la parte pubblica ha l'onere di provare: si deve, perciò, concludere che l'Amministrazione finanziaria debba dimostrarle tutte, affinché il principio del "giusto processo" ed il diritto di difesa del contribuente siano rispettati. A fare eccezione è l'unica ipotesi, espressamente prevista dal Legislatore, attinente alle liti da rimborso, in cui il relativo onere probatorio grava sul contribuente.
Come rilevato da parte della dottrina, alla luce del testo della nuova norma, dovrebbe ritenersi, quindi, superata la tesi del c.d. "doppio binario" – avvalorata, vieppiù, da un orientamento costante della Cassazione – secondo cui l'Amministrazione finanziaria avrebbe l'onere di provare i componenti positivi del reddito d'impresa e il contribuente quelli negativi. Sembrerebbe, infatti, tale ipotesi discostarsi dalla stessa normativa sostanziale, la quale stabilisce chiaramente che il reddito d'impresa corrisponde ad un valore netto, determinato dalla contrapposizione contestuale di elementi positivi e negativi. Coerentemente con quanto appena precisato si pone, altresì, la recente sentenza n. 3856/5/2022 – di cui si dirà meglio in seguito – nel corso della quale la Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Siracusa ha preso le distanze dal suddetto orientamento della Cassazione, ritenendolo incompatibile con i presupposti di diritto sostanziale tributario e, perciò, definendolo come "strabico ed illogico".
Rispetto al contenuto della motivazione dell'atto impositivo emesso dall'Amministrazione finanziaria, resta dubbia, invece, la definizione dello spettro di incidenza della novella; ciò, specie avuto riguardo alle prove che la stessa è tenuta a fornire al fine di dare evidenza della legittimità della propria pretesa. Il dibattito dottrinario si è incentrato, principalmente, sugli effetti della novità in merito all'esaustività o meno della motivazione fornita dall'Ufficio – all'esito del procedimento amministrativo – quando questa sia fondata esclusivamente su indizi, anziché su prove vere e proprie. Si discute se possa ritenersi sufficiente, ai sensi del riformato dettato normativo, che l'Amministrazione finanziaria si limiti ad illustrare nell'atto impositivo la presenza di un quadro indiziario idoneo a legittimare la sua pretesa, sgravandosi dall'onere di fornire prove complete (e non, perciò, soltanto indizi), rinviandone l'integrazione alla successiva ed eventuale fase contenziosa. Volendo procedere ad una lettura non riduttiva della novella – benché quest'ultima nulla prescriva in merito alla fase del procedimento tributario e si limiti a considerare la sola fase giudiziale – si dovrebbe, comunque, pervenire alla conclusione che il quadro indiziario da solo non possa valutarsi idoneo a fondare la motivazione dell'atto impositivo, essendo doveroso allegare – ab origine – prove puntuali, non contraddittorie e sufficienti a sostegno della pretesa erariale.
Per quanto attiene ai poteri attributi dalla novella al giudice tributario, la norma stabilisce espressamente che quest'ultimo può fondare la propria decisione esclusivamente su quelle prove dedotte in giudizio tanto dall'Amministrazione finanziaria, quanto dal contribuente, ricostruendo nella motivazione fornita con la propria decisione l'iter logico seguito. È, dunque, imposto al giudice di illustrare in modo esaustivo e puntuale gli elementi probatori posti a fondamento della propria decisione al fine di evitare che la motivazione fornita con la sentenza risulti meramente apparente.
Ai sensi del secondo e terzo periodo della disposizione in parola, il giudice competente è, poi, tenuto a dichiarare la pretesa erariale illegittima non soltanto nei casi in cui gli elementi di prova manchino del tutto, ma anche quando questi siano contraddittori tra loro o inidonei a dimostrare, in modo puntuale e dettagliato, le ragioni effettive a sostegno della pretesa tributaria e dell'irrogazione delle relative sanzioni.

Un possibile collegamento tra prova in giudizio e motivazione dell'atto impositivo da parte dell'Amministrazione finanziaria
Prima ancora di accedere alla fase processuale, come noto, la dialettica tra fisco e contribuente si realizza mediante uno scambio di informazioni che ha inizio proprio nel corso del procedimento amministrativo tributario.
In linea generale, infatti, l'obbligazione tributaria trae origine da un atto dichiarativo del contribuente o all'esito di un'attività istruttoria condotta dall'Amministrazione finanziaria, culminante con l'emissione di un avviso di accertamento nei confronti del contribuente.
Essendo gli atti impositivi atti di natura amministrativa, gli stessi necessitano di essere adeguatamente motivati dall'Amministrazione finanziaria per consentire al contribuente, quale destinatario dell'atto stesso, di esercitare il proprio diritto di difesa e, quindi, di contestare gli accertamenti effettuati dall'Agenzia. Alla motivazione dell'atto sono dedicate norme sia di carattere generale come, ad esempio, l'art. 3 della legge n. 241 del 1990 e l'art. 7 della legge n. 212 del 2000, sia di carattere speciale con riferimento alla normativa prevista per ciascuna singola imposta.
Per quanto concerne, più nel dettaglio, l'art. 3 della legge n. 241 del 1990 va ribadito che esso si riferisce in via generica a tutti gli atti adottati dalla Pubblica Amministrazione, prescrivendo a quest'ultima l'obbligo di motivarli indicando i "presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria".
L'art. 7 della legge 212 del 2000 fa, invece, specifico riferimento agli atti emessi dall'Amministrazione finanziaria disponendo che questi ultimi devono essere motivati secondo quanto stabilito dall'art. 3 della legge n. 241 del 1990 per i provvedimenti amministrativi, indicando "i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione" e specificando che, qualora nella motivazione si faccia riferimento ad altro atto, "questo deve essere allegato all'atto che lo richiama".
Gli atti impositivi dell'Amministrazione finanziaria devono, quindi, essere motivati attraverso argomentazioni coerenti e non contraddittorie, mediante un'esposizione esauriente dei fatti via via accertati, delle prove raccolte e delle ragioni giuridiche poste alla base della pretesa erariale.
Inoltre, in attinenza agli elementi probatori raccolti dall'Amministrazione finanziaria al fine di dimostrare le violazioni compiute dal contribuente, dovrebbe sempre prediligersi il loro inserimento nella motivazione dell'atto impositivo con annessa valutazione degli stessi da parte dell'Ufficio competente, affinché il suo destinatario conosca la sequela di argomenti dedotti dall'Agenzia. L'inserimento nella motivazione della valutazione degli elementi probatori, così come predisposta dall'Amministrazione finanziaria, è strumentale, senza dubbio, all'accertamento in fase processuale del giudizio di valore fornito su tali elementi, consentendo in sostanza al contribuente di ricorrere al giudice tributario per contestarne l'eventuale fondatezza.
Ciò posto, a seguito della novella in commento, e vista la sua collocazione tra le norme processuali, sono state esposte, da diversi autori, talune perplessità in ordine ai possibili riverberi di tale scelta sulla precedente fase istruttoria pre-accertativa.
Al riguardo, si segnala la posizione espressa dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contrabili e dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti nel recente documento di ricerca del 14 dicembre 2022, «L'onere della prova nel processo tributario, a seguito della legge 31 agosto 2022, n. 130». In tale documento si è osservato che, pur prendendo atto che "la precisazione ‘in giudizio' riveli la natura processuale della norma"[8] (e che, dunque, il nuovo comma 5-bis si limiti a regolamentare esclusivamente le dinamiche probatorie in fase di giudizio, senza aggiungere nulla in merito al momento procedimentale in cui ha origine l'obbligo motivazionale), debba, comunque, ritenersi indubbio che "nella materia tributaria il fisco è gravato dall'onere probatorio prima ancora che il giudizio venga formalmente introdotto dal contribuente mediante ricorso, precisamente già all'atto di emettere l'avviso di accertamento; la formazione della prova, più in dettaglio, avviene durante l'istruttoria pre-accertativa e l'atto impositivo non fa altro che contenerne l'esito"[9].
Resta, tuttavia, aperto il dibattito sui possibili riflessi della novella in ordine all'onere di motivazione degli atti impositivi gravante sull'Amministrazione.
Le presunzioni legali e giurisprudenziali in ambito tributario alla luce del nuovo comma 5-bis
Di notevole importanza si pone la dialettica tra il dettato del comma 5-bis e l'intricato sistema presuntivo tipico del diritto tributario.
Il tema è stato oggetto di analisi nel sopra menzionato documento di ricerca che, a tal riguardo, ha osservato – seguendo la lettera della norma - che l'inciso "comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale" dovrebbe far salve le ipotesi presuntive ex lege dall'ambito di operatività del nuovo comma 5-bis; ciò, con conseguente permanere dell'onere probatorio sul contribuente. In altri termini, per quelle presunzioni aventi un fondamento normativo "sostanziale" opererebbe la deroga al precetto contenuto nella novella normativa, realizzata mediante una traslazione dell'onus probandi.
Discorso ben diverso dovrebbe, invece, formularsi con riferimento alle presunzioni di natura giurisprudenziale, ossia rispetto a tutte quelle fattispecie nelle quali il trasferimento dell'onere probatorio non sia previsto dalla legge, bensì legittimato dalla giurisprudenza di legittimità. In tal caso, la deroga al precetto del nuovo comma 5-bis non opererebbe, in quanto priva del suo fondamentale presupposto. Diversamente opinando, l'inciso della norma menzionato supra resterebbe privo di significato.
Tra le fattispecie presuntive più comunemente adoperate dal fisco e legittimate dalla Cassazione si segnala la presunzione di distribuzione dei maggiori utili delle società a "ristretta base" azionaria. In tale specifica ipotesi, la dottrina sembrerebbe escludere la sua efficacia in conseguenza all'entrata in vigore della nuova norma, ritenendo – come si è visto – che quest'ultima possa essere derogata solo in presenza di una disposizione sostanziale preminente.
Una dubbia collocazione sul dies a quo ai fini dell'applicazione della novella normativa
Nulla è detto nella legge n. 130 del 2022 in materia di disposizioni transitorie sull'applicazione della nuova disciplina dell'onere della prova. Resta, perciò, dubbia la soluzione a tale quesito.
Va precisato che in dottrina si è prospettato di applicare la nuova disciplina, alternativamente:
i) ai soli procedimenti instaurati successivamente all'entrata in vigore della suddetta legge; ii) a quelli pendenti;
iii) a quelli i cui atti siano stati notificati a partire dal 16 settembre 2022, data di entrata in vigore della legge stessa.
Considerato, però, che la disposizione in commento regola aspetti prettamente processuali, è da più parti sostenuta l'applicabilità del principio del c.d. tempus regit actum, propendendo, pertanto, per un'estensione della disciplina anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 130 cit..
L'Ordinanza n. 31878 del 2022 della Corte di Cassazione: una pronuncia, seppur incidentale, sul nuovo comma 5-bis
Una prima, seppur incidentale, pronuncia che richiama il dettato del nuovo comma 5-bis deve ricercarsi nella recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 31878 del 27 ottobre 2022.
Il fatto oggetto della decisione trae origine da una complessa attività di indagine compiuta dalla Guardia di Finanza, cui ha fatto seguito l'attività accertatrice dell'Ufficio, che ha contestato, sostanzialmente, la sussistenza di operazioni soggettivamente inesistenti.
I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, hanno affermato l'insufficienza degli elementi probatori forniti dall'Ufficio a sostegno della tesi sulla fraudolenza delle operazioni poste in essere dal contribuente, inducendo l'Agenzia delle entrate a presentare ricorso in Cassazione contro la sentenza in appello per dichiararne l'illegittimità. In tale sede, l'Agenzia ha sostenuto che, in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, l'onere della prova posto a carico dell'Amministrazione finanziaria possa essere assolto anche in via presuntiva, essendo la stessa tenuta, unicamente, a dare evidenza che il contribuente sapesse o avrebbe dovuto sapere – con l'uso dell'ordinaria diligenza – che l'operazione commerciale si inseriva in una frode fiscale ai fini IVA.
Al riguardo, la Corte di Cassazione si è espressa in senso favorevole alla parte erariale, evidenziando le lacune motivazionali della sentenza del giudice di merito e chiarendo che la stessa non forniva alcuna spiegazione esaustiva sull'assenza, nel caso concreto, di un atteggiamento fraudolento da parte del contribuente tale da consentire il superamento della prova presuntiva fornita dall'Amministrazione finanziaria.
In chiusura, gli Ermellini hanno ritenuto opportuno sottolineare che "il comma 5-bis, dell'art. 7 del D. Lgs n. 546/1992, introdotto con l'art. 6 della legge n. 130/2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l'onere probatorio gravante in giudizio sull'Amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l'inversione dell'onere probatorio. Pertanto, la nuova formulazione legislativa, […] non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all'istruttoria dibattimentale un ruolo centrale".
Come anticipato, con l'ordinanza di cui sopra la Corte di Cassazione ha colto una prima rilevante occasione per trattare la disciplina sull'onere della prova nel processo tributario, così come prospettata dal nuovo comma 5-bis della D. Lgs. n. 546 del 1992.
Nel riportare il contenuto della nuova norma, la Corte ha, però, finito col ritenere che la stessa nulla aggiunga in merito alla questione sul riparto dell'onere della prova, già regolata sulla base di quanto stabilito all'art. 2697 c.c.

Le più rilevanti novità della recente giurisprudenza di merito
La novella normativa è stata, poi, oggetto di esame anche da parte di talune Corti di Giustizia Tributarie che, diversamente dalla Corte di Cassazione, hanno prospettato un'interpretazione estensiva e in divenire del nuovo art. 7, comma 5-bis del D.Lgs. 546 del 1992.
Si segnala, a tal proposito, la sentenza n. 293/01/2022 della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Reggio Emilia che ha ritenuto possibile l'applicazione della novella - in ragione della sua natura processuale – a tutti i processi pendenti alla data del 16 settembre 2022, data di entrata in vigore della legge.
Di notevole rilevanza risulta, poi, la sentenza n. 3856/5/2022 adottata dalla Corte di Giustizia Tributaria di Siracusa il 23 novembre 2022, nell'ambito della quale si è sostenuto apertis verbis che "In base alla nuova regola (…) è inequivocabile che sia l'Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d'impresa". Secondo la Corte siracusana deve ritenersi, dunque, che anche per i componenti negativi di reddito l'onere probatorio grava sull'Amministrazione Finanziaria. L'unica eccezione sarebbe data dalle sole controversie da rimborso in relazione alle quali l'onere della prova permane a carico del contribuente.

C onsiderazioni conclusive
Come visto pocanzi, allo stato, non si inviene un orientamento univoco circa la definizione della portata applicativa del nuovo comma 5-bis dell'art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
Sebbene vi sia stata una prima, seppur incidentale, decisione ad opera della Corte di Cassazione, risulta comunque prematuro azzardare quale sarà la "reazione" degli Ermellini nel prossimo futuro.
Si auspica, certamente, che la giurisprudenza di vertice non si lasci sfuggire l'opportunità di valorizzare la portata innovativa della disposizione in parola e finisca col prediligerne un'interpretazione estensiva, come già anticipato dalla più recente giurisprudenza di merito. Ciò, anche al fine di non vanificare lo sforzo normativo operato dal Legislatore fiscale.

Correlati

Antonio Iorio, Laura Ambrosi

Il Sole 24 Ore

Sezione Tributaria