La Cassazione «chiude» ai pareri di studiosi esterni
Nel caso esaminato si dibatteva dell’estensione del diritto all’oblio in una controversia che vedeva parti Google e l’Authority della privacy
La Corte costituzionale ha aperto già da qualche tempo, e costituisce significativa innovazione procedurale, all’intervento dei cosiddetti “amici curiae”, cioè le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità oggetto di uno specifico giudizio. La Corte di cassazione chiude piuttosto ai pareri redatti da studiosi diversi dai difensori e allegati alle memorie illustrative previste dal Codice di procedura civile.
L’accostamento ha ovviamente il carattere di una suggestione vista la differenza delle magistrature e la natura dei giudizi, tuttavia a stabilire il principio di diritto è stata la Prima sezione civile con la sentenza n. 34658, nella quale viene espressamente messo nero su bianco che «in tema di giudizio di legittimità dinnanzi alla Corte di cassazione, è inammissibile l’allegazione, alle memorie illustrative ex articolo 378 e 380 bis-1 Codice procedura civile, di un parere giuridico sulle questioni di diritto agitate nella controversia, redatto da uno studioso del diritto diverso dai difensori ritualmente costituiti».
Nel caso approdato in Cassazione si dibatteva dell’estensione del diritto all’oblio in una controversia che vedeva parti Google e l’Authority della privacy. –Alle memorie difensive Google aveva allegato un parere redatto da un’autorevole studiosa della materia. Un parere che la Cassazione ritiene steso solo in termini apparentemente asettici e senza riferimenti al contenzioso concreto, ma di fatto «non contiene nè formalmente nè sostanzialmente alcuna dichiarazione che attesti la sua redazione nell’interesse della legge e non in una logica di parte».
Il parere in questione, inoltre, nella lettura della Corte, non può neppure essere ritenuto un saggio accademico, perchè non si tratta di un documento pubblicato e sottoposto al dibattito scientifico ma semmai redatto su specifico incarico professionale delle parti ricorrenti.
Per la Corte «siamo quindi di fronte a un atto difensivo , non proveniente da un difensore ritualmente investito di procura alla lite e quindi anche in questa prospettiva inammissibile».
E allora dalla Cassazione arriva anche un richiamo alle fondamenta di contenuto e contesto del parere reso”pro veritate”. Deve infatti trattarsi di un parere conforme a verità che costituisce una forma elaborata di consulenza legale «resa mediante un saggio avente ad oggetto l’analisi e la soluzione di un determinato problema giuridico, composta da un quesito vertente su una questione controversa e da una risposta al quesito alla quale si perviene attraverso un percorso logico argomentativo in cui vengono esaminati in modo specifico i dati normativi atti a giustificare la soluzione accolta».
Inoltre, il parere “pro veritate” è incompatibile con l’interesse del cliente ma deve essere reso nell’interesse della verità e della legge.