Casi pratici

La concessione dei permessi di necessità ai detenuti

Detenzione

di Claudio Coratella

LA QUESTIONE

Possono essere concessi permessi ai detenuti che non rientrino nel novero di coloro che possono usufruire dei permessi-premio ex art. 30 ter legge n. 354/1975 e successive modifiche? Quali i casi di eccezionale deroga? Sino a che punto può spingersi la discrezionalità del giudice investito dell'istanza ex art. 30 legge n. 354/1975?


La figura del permesso di necessità è stata creata nella prassi ancor prima che legislativamente. A partire dagli anni '60, l'Amministrazione penitenziaria era divenuta sensibile alle gravi necessità delle famiglie dei detenuti, tanto da concedere eccezionalmente un permesso a coloro che avessero dovuto far visita a un familiare in grave pericolo di vita. In tal caso, dunque, la prassi, ispirata a criteri di umanizzazione della pena, meritevole di riconoscimento ex art. 27 Cost., contribuì a far sì che i lavori parlamentari per la legge sull'ordinamento penitenziario, in qualche modo la contemplassero. Parallelamente, una prima stesura, nell'ottica di attenuare il pieno isolamento dalla società esterna in cui erano posti i detenuti, prevedeva l'introduzione di ulteriori permessi speciali, della durata massima di 5 giorni, al fine di mantenere le relazioni umane.
Tale seconda istanza sollecitata da più parti, non venne accolta, sino all'introduzione dei permessi-premio ex art. 30 ter di cui alla legge Gozzini del 1986.
Tuttavia fu previsto, all'art. 30, comma 2, che potessero concedersi permessi analoghi a quelli di cui al comma 1, per gravi e accertati motivi. Tale espressione, assai flessibile, consentì ampia discrezionalità di interpretazione e di applicazione pratica da parte della Magistratura di sorveglianza. In seguito ad alcuni gravi episodi commessi da alcuni beneficiari di tali permessi, le opinioni si divisero, e furono sollevate notevoli polemiche in relazione all'innovazione legislativa. Conseguentemente, la prima stesura del secondo comma dell'art. 30, venne ad assumere l'aspetto attuale.


Permessi di necessità: presupposti
L'art. 30 della Legge sull'ordinamento penitenziario (o.p.) rappresenta la fattispecie dei c.d. permessi di necessità.Tale possibilità è concessa ai detenuti in genere, siano essi condannati e internati, ovvero imputati. In sostanza tali permessi interrompono momentaneamente sia la custodia preventiva, sia l'esecuzione pena. Possono essere concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o per eventi di particolare gravità.

Imminente pericolo di vita del familiare o convivente
In primo luogo, l'art. 30 prevede la possibilità per chi è recluso di ottenere «nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente (...) il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l'infermo».
I requisiti - lungi dal risiedere nell'osservazione della personalità del reo e nella complessa valutazione finale che confluisce nella Relazione di sintesi da parte dell'équipe carceraria - sono esterni al soggetto richiedente.
Le condizioni legittimanti la concessione del permesso vengono verificate attraverso accertamenti delegati agli organi di P.G. tesi a valutare l'effettiva sussistenza del pericolo di vita per il familiare. In genere il magistrato competente incarica i Carabinieri di recarsi in loco a constatare la corrispondenza tra i fatti esposti dal detenuto a sostegno della propria istanza e la realtà effettiva. In caso positivo, essi accertano, altresì, se vi sia disponibilità, da parte dei parenti, di vedere il recluso. Se del caso, anche le a.s.l. territorialmente competenti possono essere chiamate a svolgere gli accertamenti sanitari e a rilasciare relative certificazioni riguardanti i familiari o il convivente del detenuto, ai fini della concessione a quest'ultimo dei permessi, ex art. 30.
Inoltre, dopo le modifiche apportate a seguito del Decreto Legge 30.04.2020 n. 28, nel caso di dei delitti previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, l'autorità competente deve anche acquisire il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna o ove ha sede il giudice che procede e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto.
Questi i dati imprescindibili per l'istruttoria finalizzata concessione del permesso ex art. 30 o.p.


Eventi familiari di particolare gravità
Esperiti i medesimi accertamenti, analogo permesso può essere concesso anche nell'ulteriore ipotesi di particolare gravità dell'evento.
Più che mezzo di trattamento individualizzato e di rieducazione dei detenuti, il permesso di cui all'art. 30 o.p., costituisce rimedio eccezionale ispirato a finalità di umanizzazione della pena.
La ratio dell'istituto è quella di evitare che all'afflizione propria della detenzione si assommi inutilmente quella derivabile all'interessato dall'impossibilità di essere vicino ai congiunti, o di adoperarsi in favore dei medesimi, in occasione di particolari avverse vicende della vita familiare. La legge 20 luglio 1977, n. 450, in seguito a un largheggiare nella concessione di tali benefici in virtù della precedente formulazione della norma, ha stabilito che, oltre al caso di imminente pericolo di vita di un familiare e di un convivente, i permessi ai detenuti possono essere concessi soltanto eccezionalmente e per eventi familiari di particolare gravità.
Perché si configuri questa seconda fattispecie non è, di per sé, sufficiente una generica importanza dell'evento familiare, bensì occorre che tale evento sia particolarmente grave, ossia connotato di un particolare grado di onerosità e afflittività.
L'estremo dell'eccezionalità importa, inoltre, che il giudice debba verificare se sia indispensabile la presenza del detenuto nella vita libera, tenendo conto, a tal fine, dei mezzi di intervento di cui il detenuto stesso può disporre sostitutivamente rivolgendosi all'esterno o che l'ordinamento penitenziario gli consente di utilizzare direttamente dall'interno.
Tutto, ovviamente, è sottoposto al prudente apprezzamento del giudice che, pertanto, gode di una certa discrezionalità di decisione.
Il permesso ex art. 30, come detto, si differenzia dal permesso-premio ex art. 30 ter, posto che quest'ultimo rappresenta, da un lato, incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, dall'altro è esso stesso strumento di rieducazione, consentendo un iniziale reinserimento del condannato nella società.
Per tale ragione il permesso-premio può essere concesso in assenza di particolare pericolosità sociale e in conseguenza della c.d. regolare condotta, ossia, secondo l'art. 30 ter, comma 8, legge 26 luglio 1975, n. 354, della manifestazione, durante la detenzione, di costante senso di responsabilità e di correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzative degli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali.
Al contrario, il permesso ex art. 30, cosiddetto per necessità, non prevede una particolare indagine della personalità del detenuto, essendo per lo più volto all'esterno, ossia a valutare lo stato familiare del medesimo. Paradossalmente, il permesso ex art. 30, a discrezionalità del magistrato, potrebbe essere concesso anche in caso di condotta non conforme alle regole carcerarie, in presenza di reati ex art. 4 bis legge n. 354 del 1975 e in assenza di indagine sulla personalità del soggetto richiedente, salvo, come detto, l'accertamento sull'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e sulla pericolosità dello stesso.

Competenza giudiziale
Del permesso ex art. 30 o.p., per espressa previsione della norma, possono usufruire non solo i detenuti già definitivi, ma anche chi si trovi recluso in stato di custodia cautelare.
Considerata la diversa natura della carcerazione, la competenza a decidere in ordine all'eventuale concessione apparterrà a giudici differenti.
In caso di definitività delle sentenze di condanna, deciderà il magistrato di sorveglianza competente in relazione all'assegnazione del detenuto, ex art. 677 c.p.p., ossia il magistrato avente giurisdizione sull'istituto in cui si trova assegnato l'interessato all'atto della presentazione della richiesta.
In costanza di custodia cautelare, invece, la decisione ex art. 30 o.p. spetterà al giudice competente in relazione alla fase in cui il procedimento si trova.
In generale l'istanza dovrà proporsi al giudice presso la cui cancelleria il fascicolo processuale si trova al momento della domanda, analogamente a quanto avviene per le istanze ex art. 299 c.p.p. Così, nella fase processuale successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado e anteriore alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione la competenza a concedere il permesso di cui all'art. 30, legge 26 luglio 1975, n. 354, spetta al presidente del collegio che ha giudicato l'imputato. Ciò in base ai sensi del combinato disposto dell'art. 30 o.p., dell'art. 590 c.p.p. e dell'art. 91 disp. att. c.p.p.
Ancora, nella fase del giudizio di Cassazione, la decisione ex art. 30 verrà assunta dai giudici dell'appello, non potendo la Cassazione conoscere del merito.
Può, infine, accadere che un soggetto assuma la duplice veste di detenuto in espiazione di pena e di imputato sottoposto a custodia cautelare.
In tal caso, teoricamente la competenza a decidere sarebbe duplice: da un lato il magistrato di sorveglianza, dall'altro il giudice della cognizione.
Tuttavia la giurisprudenza, sviluppatasi secondo filoni contrastanti, talvolta ha richiesto l'autorizzazione di entrambi i giudici, ma, per lo più, ha ritenuto di escludere la cognizione del magistrato di sorveglianza e concentrare, per ragioni di speditezza e di economia processuale, nel solo giudice della cognizione la competenza alla concessione del permesso di necessità.


Provvedimenti e reclami in materia di permessi
Prima di pronunciarsi sull'istanza di permesso, l'autorità competente deve assumere informazioni sulla sussistenza dei motivi addotti, a mezzo delle autorità di pubblica sicurezza, anche del luogo in cui l'istante chiede di recarsi. Nel caso di detenuti per uno dei delitti previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, l'autorità competente, prima di pronunciarsi, chiede altresì il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna o ove ha sede il giudice che procede e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto. La previsione di tale ulteriore accertamento è stata introdotta dall'art. 2, comma 1, lett. a), D.L. 30.04.2020, n. 28 con decorrenza dal 01.05.2020, così come modificato dall'allegato alla legge di conversione L. 25.06.2020, n. 70 con decorrenza dal 30.06.2020.
Salvo ricorrano esigenze di motivata eccezionale urgenza, il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei predetti pareri.
La decisione sull'istanza è adottata con provvedimento motivato.
Il provvedimento è comunicato immediatamente senza formalità, anche a mezzo del telegrafo o del telefono, al pubblico ministero e all'interessato, i quali, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, possono proporre reclamo, se il provvedimento è stato emesso dal magistrato di sorveglianza, alla sezione di sorveglianza, o, se il provvedimento è stato emesso da altro organo giudiziario, alla corte di appello. Con riferimento al termine di ventiquattro ore per proporre reclamo non opera la sospensione feriale dei termini.
La sezione di sorveglianza o la corte di appello, assunte, se del caso, sommarie informazioni, provvede entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo dandone immediata comunicazione ai sensi del comma precedente. Nella propria valutazione, l'autorità competente non può limitarsi a valutare la situazione esistente al momento dell'adozione del provvedimento censurato, ma deve apprezzarne la permanente legittimità alla luce del contributo argomentativo e documentale offerto dall'interessato in sede di udienza camerale, nonché delle informazioni pervenute o acquisite.
Il magistrato di sorveglianza, o il presidente della corte d'appello, non fa parte del collegio che decide sul reclamo avverso il provvedimento da lui emesso.
Quando per effetto della disposizione contenuta nel precedente comma non è possibile comporre la sezione di sorveglianza con i magistrati di sorveglianza del distretto, si procede all'integrazione della sezione ai sensi dell'articolo 68, terzo e quarto comma.
L'esecuzione del permesso è sospesa sino alla scadenza del termine stabilito dal terzo comma e durante il procedimento previsto dal quarto comma, sino alla scadenza del termine ivi previsto.
Le disposizioni del comma precedente non si applicano ai permessi concessi ai sensi del primo comma dell'art. 30. In tale caso è obbligatoria la scorta.
Il procuratore generale presso la corte d'appello è informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati e, nel caso, di permessi concessi a detenuti per delitti previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale o a detenuti sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, ne dà comunicazione, rispettivamente, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna o ove ha sede il giudice che procede e al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Anche tale previsione è stata introdotta dall'art. 2, comma 1, lett. a), D.L. 30.04.2020, n. 28 con decorrenza dal 01.05.2020, così come modificato dall'allegato alla legge di conversione L. 25.06.2020, n. 70 con decorrenza dal 30.06.2020.


Istanza di estensione del permesso
La possibilità di usufruire di un permesso concede al detenuto un limitato ambito di locomozione per spostarsi in un dato territorio al fine, ad esempio di far visita ai familiari autorizzati o recarsi in determinati luoghi (es. ospedali, cimiteri, chiese o altro).
Va da sé che l'autorizzazione rilasciata dal magistrato prevede una serie di indicazioni e prescrizioni che non consentono a chi si trova in permesso di spostarsi per altre ragioni, quali, ad esempio, la partecipazione a un'udienza.
In tal caso, l'eventuale ordine di traduzione disposto dal giudice del processo in corso cessa di avere effetto, trovandosi il detenuto al di fuori del luogo di detenzione.
Per tale ragione, in caso di coincidenza tra data dell'udienza e del permesso, sarà necessario avanzare specifica e documentata istanza anche relativa alla possibilità di estendere l'area territoriale per consentire la partecipazione, in autonomia, all'udienza già fissata, ovvero per far sì che l'eventuale scorta deputata all'accompagnamento del detenuto nel corso del permesso ex art. 30 si renda disponibile per la successiva traduzione presso il tribunale.

Evasione e mancato rispetto dell'obbligo di rientro
Il medesimo art. 30 prevede conseguenze particolari in caso di ritardo o di mancato rientro al termine del permesso concesso.
Laddove il detenuto rientri in istituto dopo tre ore rispetto all'orario previsto, ma entro le dodici ore da esso, seguirà solamente una sanzione in via disciplinare.
In caso di ritardo ulteriore - o addirittura di mancato rientro - saranno applicabili le conseguenze di cui all'art. 385 c.p., configurandosi una vera e propria evasione.
È fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il detenuto di dimostrare l'esistenza di un giustificato motivo che l'abbia costretto al mancato rispetto del termine concesso.
La sanzionabilità discende, infatti, dalla sussistenza del dolo, inteso come consapevole omissione del rientro nei termini prefissati.
Il dolo del delitto di evasione nella forma del mancato rientro in istituto senza giustificato motivo alla scadenza del permesso, di cui all'art. 30, comma 3, legge 26 luglio 1975, n. 354, consiste infatti nella consapevole volontà del detenuto di protrarre oltre il termine stabilito il temporaneo stato di libertà derivante dal permesso, senza che la protrazione possa considerarsi giustificata da una causa che impedisce il rientro in istituto.
Naturalmente, anche nel caso in cui non dovesse seguire la sanzione di carattere penale, bensì la più leggera punizione in via disciplinare, le conseguenze per il detenuto saranno ulteriori: il fatto resterà segnalato nella propria cartella personale e potrà contribuire, in negativo, alla valutazione complessiva della sua personalità, anche ai fini dell'istruttoria relativa a eventuale successiva richiesta per ulteriori benefici penitenziari.
La particolare previsione derogativa alla sanzione penale in caso di rientro non oltre le dodici ore, ha originato questioni in relazione all'art. 385 c.p. che sono state risolte dalla giurisprudenza come segue.


Profili di legittimità costituzionale
L'art. 30 legge, 26 luglio 1975, n. 354, e successive modifiche, ha più volte suggerito questioni di legittimità costituzionale tese alla modifica di alcune previsioni, ovvero all'estensione di esse ad altre e diverse fattispecie.
Un primo aspetto controverso atteneva il particolare trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 30 con riferimento all'art. 385 c.p. Alla luce della maggiore elasticità dell'art. 30 in caso di ritardato o mancato rientro, è stata più volte sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 385, con riferimento all'art. 3 Cost., onde ottenere l'estensione di quanto previsto all'art. 30 anche alla posizione di chi, trovandosi in stato di custodia cautelare agli arresti domiciliari, non avesse rispettato gli orari stabiliti per il rientro a seguito di autorizzazione all'allontanamento dal proprio domicilio. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare come non sia applicabile analogicamente l' art. 30 comma 3, della legge n. 354 del 1975, poiché, allorquando l'art. 30 o.p. richiama l' art. 385 c.p., attua semplicemente un collegamento quoad penam.
Diversa è infatti la ratio delle due disposizioni, posto che l'art. 30 o.p. è legato a specifici presupposti e finalità che consentono di concedere un'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di detenzione occasionale ed episodica. L'imputato agli arresti domiciliari, invece, in stato di custodia cautelare, usufruisce delle autorizzazioni all'allontanamento sistematicamente, come modalità esecutiva della misura, ma strettamente connaturata alla misura stessa; cosicché è sufficiente che il ritardo si protragga in modo apprezzabile, da valutare caso per caso, perché resti integrato il delitto di evasione. Non lede, in ogni caso, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ex art. 3 Cost., il fatto di equiparare, quanto a trattamento sanzionatorio, il comportamento del detenuto che non rientra nel luogo di detenzione, dopo aver usufruito di un permesso alle condizioni prescritte, al comportamento di colui che evade dal carcere. Per le medesime ragioni sono state ritenute manifestamente infondate le questioni relative alla pretesa estensione del trattamento del detenuto non ritornato in carcere alla fine del permesso, alla diversa posizione del latitante. Ulteriori questioni di rilievo sono seguite all'introduzione delle restrizioni al secondo comma dell'art. 30: questioni di incostituzionalità ex art. 3 Cost. sono state affrontate con riferimento alla limitazione della concessione del permesso ai soli eventi familiari, con ciò discriminando la posizione di coloro che, non avendo una famiglia, o non essendo in buoni rapporti con essa, non avrebbero potuto godere di tali possibilità. La Corte Costituzionale ha da subito chiarito la portata della modifica legislativa e l'insussistenza, nel caso lamentato, di qualsivoglia limite di fatto all'eguaglianza dei cittadini, dichiarando «infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma 2, legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall'art. 1, legge 20 luglio 1977, n. 450, nella parte in cui limita gli eventi gravi, che consentono la concessione dei permessi ai detenuti e agli internati, a quelli di natura familiare, in riferimento agli art. 3, commi 1 e 2, 27, comma 3, e 34, comma 3, Cost.».
Oscillazioni nella giurisprudenza si sono poi verificate in ordine alla natura amministrativa o giurisdizionale del procedimento, e del reclamo avanti al Tribunale di Sorveglianza, con pronunce che hanno ammesso, infine, la ricorribilità per Cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.


Esempi di applicazione dell'art. art. 30 o.p.
Nonostante la rigidità delle ipotesi tassativamente previste dalla norma in questione, anche dopo la modifica, l'art. 30 nella pratica applicazione, ha consentito che si prendessero in considerazione aspetti diversi dal pericolo di vita di un familiare o di un convivente.
L'applicazione pratica dell'art. 30 ha chiarito che per evento di particolare gravità ai fini della concessione di permessi ai detenuti deve intendersi un evento di eccezionale importanza, non necessariamente calamitoso.
Conseguentemente, sulla scorta della residua discrezionalità lasciata ai giudici nella valutazione ex art. 30 comma II degli eventi familiari di particolare gravità, sono stati concessi permessi:
1. in presenza di un matrimonio rato e non ancora consumato contratto fra detenuti condannati a pene di lunga durata, in gran parte ancora da espiare;
2. per adoperarsi nella ricerca di un nuovo alloggio per la convivente, colpita da sfratto coattivo dalla propria abitazione;
3. per consentire a due detenuti unitisi da poco in matrimonio di praticare fisicamente e spiritualmente il rapporto coniugale;
4. per consentire al detenuto di sottoporsi a un intervento chirurgico in un ospedale diverso da quello in cui era stato già autorizzato il trasferimento;
5. per consentire di far visita alla madre impossibilitata fisicamente a recarsi ai colloqui in carcere.
Successivamente alla regolare applicazione dei permessi-premio ex art. 30 ter, l'interpretazione della norma in questione è divenuta ancor più riduttiva ed eccezionale, cercando di evitare che l'art. 30 diventasse un metodo per aggirare la complessa istruttoria di cui all'art. 30 ter, ovvero altre norme che possano consentire di superare ugualmente la problematica sottoposta.
Ad esempio, sono stati negati i permessi ex art. 30, allorquando richiesti per sostenere esami universitari, sulla scorta delle valutazioni espresse dalla Corte Costituzionale in quanto l'ordinamento offre la possibilità al detenuto, provvedendosi ove occorra al suo trasferimento presso un carcere posto in luogo prossimo all'università, di completare gli studi universitari, sostenendo i relativi esami, anche senza ottenere il permesso di allontanarsi dall'istituto di pena. In particolare il comma 2 dell'art. 42 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, prescrive che vengano stabilite «le opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami».
Pertanto nessun ostacolo frappone l'ordinamento carcerario all'esercizio da parte dei detenuti del diritto allo studio, tutelato dall'art. 34 Cost. Né la disciplina dei permessi, di cui alla norma impugnata, incide negativamente su tale facoltà.
Da quanto premesso discende anche l'infondatezza della censura relativa all'art. 27 Cost., in quanto la possibilità di completare gli studi al massimo livello fa venire meno ogni temuta lesione al principio della funzione rieducativa della pena, che si sospettava dal giudice a quo derivante dall'impugnato art. 30 della legge n. 354 del 1975.


Cconsiderazioni conclusive
L'art. 30 legge n. 354/1975 - fortemente voluto prima dalla prassi penitenziaria e dalla dottrina, poi dal Legislatore - nonostante i ritocchi in corso d'opera è ancora indispensabile e attuale strumento teso a rendere concretamente operante il criterio di umanizzazione della pena ex art. 27 Cost., consentendo la concessione di eccezionale permesso a tutti i detenuti, quindi anche a coloro che non possono godere dei benefici dei permessi premio ex art. 30 ter. Al verificarsi di eventi familiari particolarmente gravi (imminente pericolo di vita di un congiunto o altri eventi familiari di particolare gravità) il magistrato competente, previa breve istruttoria, potrà autorizzare l'istante a partecipare a tale momento doloroso della sua famiglia.
La valutazione della particolare gravità dell'evento è rimessa alla discrezionalità del giudice che, di volta in volta, potrà motivare l'eccezionale permesso con riferimento alla particolare afflittività per il detenuto dell'evento considerato.