La Corte costituzionale “salva” la nuova veste normativa dell'accessione invertita
Dopo una trepidante attesa la nuova puntata del lungo romanzo sulla cosiddetta espropriazione sostanziale (ovvero uno dei numerosi travestimenti - accessione invertita, occupazione sine titulo ecc. - sotto le cui vesti si è celato l'esproprio realizzato in via di fatto), la cui prima puntata risale al 1983, è arrivata. La Corte costituzionale, con la pronuncia in esame, ha affrontato l'ultima versione della risposta che il legislatore ha tentato di dare a un fenomeno - più che un istituto - intorno al quale l'inchiostro scorre a fiumi da oltre trent'anni.
L’accessione invertita - Dopo aver censurato nel 2010 la “sanatoria legislativa” dell'accessione invertita sotto il profilo procedurale, per eccesso di delega, con la sentenza n. 71 del 2015 la Consulta, invero per molti a sorpresa, respinge la questione nel merito, sotto tutti i profili di carattere sostanziale sollevati dalle giurisdizioni coinvolte: sia quella ordinaria al massimo livello (le sezioni Unite della Cassazione, con le ordinanze nn. 89 e 90 del 13 gennaio 2014), sia quella amministrativa del più noto tribunale amministrativo d'Italia (il Tar Lazio, con le ordinanze nn. 163 e 2019 del maggio e giugno 2014).
La sorpresa probabilmente deriva dal fatto che la stessa precedente sentenza della Consulta (8 ottobre 2010 n. 293) sul vecchio articolo 43 del Tu espropri conteneva alcune considerazioni critiche non strettamente legate al tema formale accolto, concernente l'eccesso di delega.
La Consulta ora salva l'istituto con cui il legislatore ha perseguito una strada alternativa, rispetto alla originaria creazione pretoria delle sezioni Unite della Cassazione, al fine di mediare fra due opposte esigenze: l'interesse del soggetto pubblico ad acquisire la proprietà del bene privato occupato e su cui è stata avviata la realizzazione di un'opera pubblica; l'interesse del privato proprietario a ottenere la tutela del proprio diritto di proprietà.
La soluzione mediana, riproposta dal legislatore dopo la bocciatura formale del 2010, viene ora condivisa dal Giudice delle leggi attraverso la valorizzazione delle modifiche sostanziali al precedente impianto, nonché sulla scorta di alcune precisazioni ermeneutiche, di cui la giurisprudenza applicativa dovrà tenere debitamente conto. Resta da verificare se le tante voci critiche contro la norma, mosse da diverse parti saranno soddisfatte ovvero se invocheranno, anche contro l'articolo 42-bis, l'intervento del giudice sovranazionale.
La disciplina censurata - Lo spazio di un primo esame esclude di poter anche solo riassumere l'excursus storico che ha caratterizzato un istituto il quale, sin dalla nascita (nella culla di piazza Cavour), ha conosciuto infiniti dibattiti, a partire dalla stessa denominazione.
Peraltro, se per un verso la versione pretoria è stata con pazienza difesa dalla Cassazione, la quale ne ha via via limato alcuni aspetti al fine di rispondere alle critiche sovranazionali, per un altro verso oggetto del presente giudizio di costituzionalità è stata la versione legislativa dell'istituto su cui occorre concentrare una rapida analisi ricostruttiva.
Al pari del precedente articolo 43 del Tu sulle espropriazioni, come ricordato dichiarato incostituzionale per eccesso di delega nel 2010, il nuovo articolo 42-bis - oggetto dell'esame svolto ora dalla Corte - ha a oggetto la disciplina dell'utilizzazione senza titolo, da parte della pubblica amministrazione, di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
Nei suoi tratti essenziali, la disposizione riprende la disciplina dell'originaria previsione del 2001, dettando alcune piccole correzioni che, invero, la Consulta ha avuto modo di valorizzare al fine di reputare superate le velate critiche sollevate anche nel merito con la sentenza n. 293 del 2010.
In dettaglio, la norma oggetto di esame, così come ricostruita dalla Corte, prevede che l'autorità che utilizza il bene possa disporne l'acquisizione, non retroattiva, al proprio patrimonio indisponibile, contro la corresponsione di un indennizzo patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene. Per l'eventuale periodo di occupazione senza titolo è computato, a titolo risarcitorio, un interesse del 5 per cento annuo sul valore venale, salva la prova del maggior danno. Le nuove regole valgono non solo quando manchi del tutto l'atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. La norma statuisce che il provvedimento di acquisizione possa essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti appena citati, ma a condizione che l'amministrazione che ha adottato il precedente atto impugnato lo ritiri.
Il provvedimento di acquisizione deve recare l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area, se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, e deve essere specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati. Deve essere evidenziata altresì «l'assenza di ragionevoli alternative» alla adozione del provvedimento. Il pagamento dell'indennizzo, liquidato nel provvedimento, deve essere disposto entro trenta giorni, e la notifica dell'atto al proprietario determina il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro deposito. L'autorità che emana il provvedimento ne dà inoltre comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Si prevede, infine, che le nuove disposizioni trovino applicazione anche con riguardo a fatti anteriori all'entrata in vigore della norma, e anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ferma restando la necessità di rinnovare la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione.
Le censure e i relativi parametri costituzionali - Le diverse e articolate censure che le sezioni Unite della Cassazione e il Tar Lazio hanno parallelamente sollevato sono riassumibili, al fine di facilitarne l'esame, attraverso il riferimento al diverso parametro costituzionale che si reputa violato. Invero, la norma maggiormente invocata è l'articolo 3 della Costituzione, sia in termini di disparità di trattamento che di ragionevolezza.
È stato quindi invocato l'articolo 24, in quanto la norma verrebbe ad attribuire un ingiusto vantaggio anche processuale alla parte pubblica, potendo il ricorso all'istituto porre nel nulla l'esercizio dell'azione giurisdizionale avviato dal privato inciso.
Altri profili dedotti hanno coinvolto, ovviamente, la norma fondamentale in tema di potere espropriativo, l'articolo 42 della Costituzione, in quanto tale disposizione costituzionale richiederebbe che i motivi d'interesse generale che giustificano l'esercizio del potere espropriativo, nei soli casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall'amministrazione ed emergano da un apposito procedimento preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto.
Rispetto all'articolo 97 della Costituzione è stata poi censurata la mancanza di un giusto procedimento, in assenza, nella norma, di termini certi di avvio e conclusione del procedimento, con conseguente esposizione del diritto di proprietà al pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo.
Ulteriore fondamentale parametro di riferimento delle censure dedotte è stato individuato nell'articolo 117, per contrasto con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848 (d'ora in avanti «Cedu»), secondo l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo dell'articolo 1 del Primo Protocollo addizionale. La Corte europea avrebbe, infatti, dichiarato «in radicale contrasto» con tale articolo 1 il fenomeno dell'“espropriazione indiretta”, nel quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa da quest'ultima, con l'effetto di convalidarla.
Infine, ultimo parametro di analisi è stato l'articolo 111, nella parte in cui, disponendo la propria applicabilità ai giudizi in corso, violando così i principi del giusto processo, in particolare la condizione di parità delle parti davanti al giudice, che risulterebbe lesa dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
Sul riparto di giurisdizione - Prima di analizzare il merito delle questioni, nell'ambito delle verifiche di carattere processuale e preliminare la Consulta ha avuto modo di svolgere un interessante inciso anche in tema di riparto di giurisdizione.
In particolare, in via preliminare, valutando un'eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa erariale, la Corte ha reputato come non manifestamente infondata la giurisdizione ordinaria in ordine alla questione indennitaria, derivante dall'applicazione della norma censurata; sul punto la Corte, a sostegno della tesi, richiama altresì la giurisprudenza amministrativa che si è già espressa in tale senso.
L'indicazione è parziale, tanto che si sarebbe potuto sperare in qualcosa di più, specie alla luce del permanere di una cronica incertezza su molte questioni in tema di giurisdizione.
Peraltro, qualche indicazione in più potrebbe provare a trarsi dal successivo punto 5.4 della motivazione, dove un breve inciso pare dare un minimo barlume di luce, laddove riconosce in capo al giudice amministrativo l'eventuale permanere della questione risarcitoria in caso di venir meno della norma censurata.
«In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni…».
Invero, tale importante inciso si pone nella consolidata traccia che, a partire dalla fondamentale sentenza n. 204 del 2004, reputa costituzionalmente fondata l'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione in tema di risarcimento del danno, quale strumento di tutela ulteriore delle situazioni giuridiche soggettive affidategli in rapporto all'esercizio di un potere autoritativo.
Quindi, nel provare a trarre le conclusioni degli incisi indicati, se le questioni limitate alla determinazione dell'indennizzo fanno capo al giudice ordinario, quelle risarcitorie, connesse all'errato scorretto o illegittimo agire amministrativo appartengono alla giurisdizione amministrativa esclusiva.
Le differenze fra vecchia e nuova disciplina - Nell'analizzare le diverse questioni dedotte avverso l'articolo 42-bis, la Consulta prende il toro per le corna e, dopo aver ricordato le perplessità a suo tempo (nel 2010) manifestate anche nella sostanza della norma nonché le critiche sovranazionali, pone a fondamento della decisione l'analisi delle differenze fra l'articolo 43 annullato e la nuova disciplina ex articolo 42-bis, oggi salvata.
In specie, gli elementi da cui la Corte trae la novità dell'istituto, tale da giustificare un diverso esito rispetto a quello paventato cinque anni fa, sono riassumibili nelle seguenti:
a) la previsione che l'acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione avvenga ex nunc , cioè solo al momento dell'emanazione dell'atto di acquisizione (ciò, ad esempio, impedisce l'utilizzo dell'istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato);
b) l'imposizione di uno specifico obbligo motivazionale rafforzato in capo alla pubblica amministrazione procedente, che deve indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area, la data dalla quale essa ha avuto inizio, le «attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che giustificano l'emanazione dell'atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, e l'assenza di ragionevoli alternative;
c) la previsione della spettanza anche di un danno non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene;
d) la previsione del passaggio del diritto di proprietà ora sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione;
e) l'applicazione della nuova disciplina non solo quando manchi del tutto l'atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato - o impugnato, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione - l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera oppure, ancora, il decreto di esproprio;
f) l'eliminazione della possibile acquisizione in via giudiziaria, precedentemente prevista dal comma 3 dell'articolo 43, in base alla quale l'acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell'intervento di una pronuncia del giudice amministrativo, volta a paralizzare l'azione restitutoria;
g) infine, la previsione della comunicazione del provvedimento di acquisizione alla Corte dei conti, per la verifica di eventuali responsabilità.
Corte costituzionale – Sentenza 30 aprile 2015 n. 71